“El cabezón” dei nostri sogni

Sono passati quindici anni, era il 17 febbraio 2005, dalla morte del grande oriundo argentino Omar Sivori: un irregolare allo stato puro, un fuoriclasse ancora più intrattabile del discendente Maradona ma ugualmente innamorato dell’Italia, e che l'Italia ha fatto innamorare.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Quindici anni senza Enrique Omar Sivori, soprannominato “el cabezón” per la foresta di capelli che aveva in testa, son duri da mandare giù. Sivori è stato, infatti, il primo vero divo del calcio: l’angelo dalla faccia sporca per antonomasia, il mito che faceva innamorare le folle, pur avendo un caratteraccio ed essendo tutt’altro che un personaggio da copertine patinate. Ruvido, irriverente, superbo, innamorato di sé ai limiti dell’insopportabilità, costituì il capolavoro di Umberto Agnelli nell’estate del ’57, mentre la FIAT lanciava la Cinquecento e dava al paese il segnale che gli anni delle ristrettezze e dei sacrifici erano ormai alle spalle. Insieme a lui, il Dottore portò sotto la Mole un gallese dai modi gentili, l’antitesi di Sivori e, proprio per questo, il suo miglior compagno di lotta: John Charles, un principe che, tuttavia, una volta si vide costretto addirittura a schiaffeggiare il riottoso compagno di squadra per impedirgli di commettere qualche altra sciocchezza. 

Sivori in posa allo stadio comunale di Torino, con i calzettoni rigorosamente arrotolati, segno identitario inconfondibile di molti oriundi d’origine sudamericana

No, non ci sarebbe posto per uno così nel calcio moderno. Spiace per i nostalgici, per i romantici e per gli innamorati di questo sport nella sua essenza più profonda, ma nell’era delle telecamere ovunque, del VAR e degli arbitri iper-suscettibili uno come Sivori, che già ai suoi tempi collezionò una messe di espulsioni e di giornate di squalifica, sarebbe considerato alla stregua del demonio. E di sicuro non sarebbe andato d’accordo neanche con certi tecnici contemporanei, incapaci di comprendere l’unicità di giocatori di quel livello, come purtroppo non lo capì mai Heriberto Herrera, un paraguaiano tutto collettivo, tattica e metodi da sergente di ferro che pretendeva di trattarlo come un Coramini qualsiasi, regalandolo così al Napoli dove, rinfrancato dalla saggezza del “Petisso”, avrebbe continuato a distillare la sua classe cristallina, componendo con Altafini una delle coppie d’attacco più suggestive della storia partenopea. 

Un guascone, Sivori, uno grazie alla cui vendita il River Plate poté completare lo stadio, rimasto incompleto di una tribuna, uno che Agnelli junior pagò a peso d’oro e Agnelli senior definì “un vizio”, cosa che del resto era, trattandosi di un irregolare allo stato puro, di un furetto immarcabile, di un fuoriclasse ancor più intrattabile del discendente Maradona ma ugualmente innamorato dell’Italia e delle sue contraddizioni. 

Humberto Maschio, Antonio Valentin Angelillo, Omar Sivor, “Gli angeli dalla faccia sporca”, 1958 (in una foto Olycom)

Vien quasi il sospetto che all’Avvocato, sotto sotto, questi Guevara coi calzettoni abbassati, lo sguardo fiero, il tono perennemente provocatorio e la battuta sempre pronta, in realtà piacessero eccome, altrimenti non si spiegherebbe l’amore viscerale per il diversissimo ma non meno impertinente Platini: un altro campione non proprio semplicissimo da gestire, non fosse altro che per la sua debordante personalità. Fatto sta che Sivori è stato di più, è stato il primo, è andato oltre.

Ha spesso trascinato sulla brutta strada anche un damerino come Boniperti, ha duettato con Charles, è stato la punta di diamante di un trio d’attacco efficace e modernissimo, ha condotto la Juve alla conquista della prima stella, ha reso juventini buona parte dei figli del dopoguerra, ha regalato domeniche da urlo tanto ai padroni quanto agli operai che gremivano le tribune del Comunale e, quando non ne poteva più delle angherie di HH2, è andato a dispensare il proprio talento sotto il Vesuvio, in una città folle, assurda, irregolare e scoppiettante proprio com’era lui. 

Vide Omar quant’è bello“: quando Sivori (qui in una figurina dell’epoca) incantò Napoli 

Ha unito il Nord e il Sud come solo l’Autostrada del Sole seppe fare in quegli anni. Non era moroteo, forse neanche comunista: di sicuro era anarchico, un vizio, per l’appunto, cui Agnelli fu costretto a rinunciare, assai a malincuore, giusto per difendere il buon nome della società e riaffermare il principio secondo cui nemmeno Sivori, pallone d’oro nel ’61, fosse al di sopra di essa.

Ma lo fece di malavoglia, talmente di malavoglia che ben presto si stancò della Juve “socialdemocratica” dell’Herrera minore e chiamò alla corte di Madama un altro magnifico guascone come il già menzionato Altafini, il “core ’ngrato” che, pur giocando a mezzo servizio, contribuì alla gloria bianconera nella prima metà degli anni Settanta. In panca, il giorno della vittoria contro il Napoli che gli valse questo soprannome ad opera dei tifosi azzurri c’era Carlo Parola, l’icona che campeggia sugli album Panini raffigurando la sua rovesciata ai limiti del metafisico. E Omar, instancabile cuore bianconero, non ha mai smesso di applaudire e di voler bene ai colori che l’hanno reso grande, pur continuando a polemizzare con tutto e con tutti, fino al triste giorno in cui, a soli sessantanove anni, ci ha detto addio. 

Se ogni tanto avete l’impressione che il Padreterno sia incazzato, prendetevela col Cabezón: deve avergli fatto un dribbling di troppo.

Ubriacava con le sue finte chi lo marcava, la sua specialità era il tunnel, e si faceva beffe dell’avversario fermandosi per dribblarlo una seconda, anzi anche una terza volta.


Nell’immagine di apertura, il Trio Magico: Sivori, Charles e Boniperti

“El cabezón” dei nostri sogni ultima modifica: 2020-02-20T13:26:36+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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