Le elezioni americane riguardano anche gli animali e i candidati in lizza lo sanno bene: la campagna per la rielezione di Donald Trump ha sponsorizzato su Facebook più di duecento post contro la violenza sugli animali, l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg strizza l’occhio ai proprietari di cani lanciando su Twitter l’hashtag #MikeFurDogs, Elizabeth Warren non perde occasione per farsi fotografare con il suo cane, Bailey – comparso su più di cento post su Facebook – e Pete Buttigieg ha raccontato sui suoi social di aver adottato un cane cieco da un occhio, che viveva in un canile.

Cotanta esposizione mediatica dei propri amici a quattro zampe non è certo fine a se stessa, ma ha piuttosto l’obiettivo di capitalizzare sulla crescente sensibilità della popolazione americana verso questi temi.
Si tratta di un movimento dal basso, partito da città e comuni, che ha portato negli ultimi anni all’introduzione di importanti leggi in materia di tutela dei diritti degli animali, non solo a livello municipale, ma anche di stato e nazionale.
Ad esempio, lo scorso 25 novembre, il sindaco di New York, il democratico Bill de Blasio, ha messo la firma sul divieto alla commercializzazione del foie gras, che entrerà in vigore nei cinque distretti della Grande Mela a partire dal 2022. La misura approvata dal consiglio comunale punta il dito contro la tecnica di allevamento di oche e anatre, che sono nutrite a forza, facendo in modo che nel loro fegato si formi una grande quantità di grasso in forma gelatinosa. In particolare, sotto accusa è il metodo del cosiddetto “gavage”, che prevede l’inserimento nell’esofago dell’animale di una sonda gastrica per l’alimentazione forzata. Tra due anni, chi venderà foie gras a New York rischierà una multa fino a duemila dollari. Il divieto varrà anche per i circa mille ristoranti che oggi lo servono nei loro piatti.

Sempre da New York, ma questa volta dallo stato, viene un’altra buona notizia. Il governatore Andrew Cuomo ha firmato lo scorso 22 luglio la proposta di legge per bandire l’asportazione delle unghie dei gatti, il famigerato “cat declawing”, una pratica molto dolorosa finalizzata a rimuovere definitivamente gli artigli dell’animale. Le associazioni dei veterinari sono divise a riguardo: alcuni sostengono che oltre a essere doloroso, questo tipo di intervento priva l’animale di un comportamento naturale – il graffiare – e può causargli problemi a lungo termine; altri affermano che in alcuni casi il declawing è necessario per preservare la relazione uomo-animale ed evitare che dei soggetti troppo avvezzi a graffiare finiscano per essere abbandonati o, peggio, vittima di eutanasia. Il divieto dello stato di New York segue l’introduzione di divieti simili in importanti città come Denver, Los Angeles e San Francisco.
Restando in tema di animali da compagnia, lo scorso anno il Delaware è stato riconosciuto dalla Best Friends Animal Society, organizzazione non-profit che s’occupa di benessere animale, come il primo stato senza “kill shelter”, ovvero quei canili “killer” che prevedono l’eutanasia per gli animali che non trovano un’adozione dopo un certo periodo di tempo (in alcuni casi anche solo dopo una o due settimane) di permanenza. Non si tratta di un fenomeno limitato: negli Stati Uniti, solo nel 2018, ben 733mila cani e gatti sono stati soppressi in questo tipo di strutture.
Secondo i dati citati dalla Best Friends Animal Society, il Delaware ha raggiunto l’impressionante tasso di adozione del novanta per cento per tutti i cani e gatti. Il risultato è stato conseguito grazie a programmi efficaci di adozioni, di sterilizzazione per i cani e gatti non adottabili, a programmi comportamentali per i cani che hanno bisogno di un maggiore supporto per trovare una famiglia e a cliniche veterinarie convenzionate, che offrono i loro servizi a basso costo.
L’efficacia delle politiche per incoraggiare le adozioni ha raggiunto un livello superiore con la decisione dello stato della California di vietare, a partire dal gennaio 2019, la vendita nei negozi di animali di cani, gatti e conigli che non provengano da canili, altri rifugi pubblici o organizzazioni no-profit. Obiettivo della legge è favorire le adozioni di animali randagi e ridurre le spese di gestione dei rifugi da parte dello stato (che nel 2019 ammontavano a 250 milioni l’anno).
Chi vuole un animale con il pedigree non può quindi più acquistarlo in un negozio, ma è obbligato a rivolgersi direttamente a un allevatore privato.
Il Pet Rescue and Adoption Act, questo il nome della legge in questione, segue decisioni analoghe adottate da trentasei città dello stato, con West Hollywood che ha fatto da precursore. La California è il primo stato americano ad adottare una simile legislazione.
Più in generale, il grande stato della California, che da solo costituisce la quinta più grande economia al mondo, è capofila delle lotte per un America “animal-friendly”.
A questo proposito, alla fine dello scorso anno, il governatore Gavin Newsom ha firmato due leggi “storiche”, una che vieta la realizzazione e la commercializzazione di prodotti in pelliccia e l’altra che dice “stop” all’impiego degli animali negli spettacoli da circo.
Le municipalità di San Francisco e Los Angeles avevano anticipato questa decisione, proibendo la vendita di pellicce, rispettivamente nel 2018 e a inizio 2019.
La nuova legge vieta ai residenti californiani di produrre o vendere vestiti, scarpe o borse in pelliccia, a partire dal 2023. Il divieto non si applica ai prodotti di seconda mano o a quelli che hanno usati a fini religiosi o tribali e non include la vendita di prodotti in cuoio, le pellicce di cane e di gatto, la pelle di mucca, cervo, capra e pecora. Chi non rispetterà le nuove regole potrà ricevere una multa fino a mille dollari.
Le ricadute economiche ci saranno eccome: nel 2014 – ultimo anno per il quale si hanno dei dati disponibili – l’industria delle pellicce ha venduto negli Stati Uniti prodotti per un valore complessivo di 1,5 miliardi di dollari e, con le restrizioni californiane, è previsto un buco importante nella domanda di questo prodotto, se non altro per le dimensioni dell’economia californiana, maggiori addirittura di quella del Regno Unito.
In ogni caso, il mondo moda si sta già preparando a un futuro un po’ meno barbaro: tra gli altri, Armani, Gucci e Versace hanno già detto “stop” alle pellicce animali.

Siamo nella società dei consumi, dove il vero potere democratico non sta nelle urne, ma nei carrelli della spesa o nei camerini di prova: per questo un cambiamento importante nell’opinione pubblica (nel 2019, il 45 per cento degli americani dichiarava che comprare o portare una pelliccia è moralmente sbagliato) può obbligare la grande distribuzione a rivedere la propria offerta.
Stiamo parlando di un cambiamento che riguarda tutte le attività che vedono coinvolti gli animali.
In concomitanza della firma sulla legge anti-pellicce, Gavin Newsom, il governatore Dem della California, ha approvato un altro importante decreto, che mette al bando tutti gli spettacoli circensi che coinvolgono animali che non siano cani, gatti o cavalli. Una misura presa in precedenza da altri due stati, New Jersey e Hawaii. Chi non la rispetterà rischierà fino a 25mila euro al giorno di multa.
La California, ancora, è faro nella lotta per il benessere animale almeno per altri due motivi.
Nel 2018, in occasione delle elezioni di metà mandato, la popolazione californiana ha votato a favore di un importante referendum, noto come proposition 12, che impone delle dimensioni minime alle gabbie in cui purtroppo molti animali continuano a essere allevati.
Con la nuova legge, ogni gallina, oca, tacchino o anatra ha diritto a 0,1 metri quadrati (e dal 2022 a non essere in gabbia, cioè a vivere all’aperto o in una struttura dove può camminare e disporre di almeno 0,1 metri quadrati di spazio), ogni vitello ha diritto a quattro metri quadrati e ogni maiale a 2,2 metri quadrati. La nuova norma è destinata ad avere un impatto che va al di là dei confini dello stato, perché vieta la vendita di carni prodotte – in California o altrove – senza rispettare questi requisiti. La grande distribuzione, come spesso accade, è la più veloce ad adattarsi a questi cambiamenti, con Walmart, Target e Whole Foods che contano di ottemperare ai requisiti californiani entro il 2025.
I critici, da una parte e dall’altra, non mancano: secondo uno studio della Purdue University, la legge californiana aumenta il prezzo delle uova abbassandone la produzione, e questo dovrebbe essere un monito per gli altri stati intenzionati ad adottare regolamentazioni simili. Invece per la PETA, famosa organizzazione internazionale a difesa dei diritti degli animali, i requisiti stabiliti per le dimensioni delle gabbie non sono abbastanza ambiziosi e quel che è peggio, distorcono la nozione di “cage-free”, di animali allevati in libertà.

C’è, infine, un altro settore in cui la California ha fatto da apripista, quello dei cosmetici, che è molto vasto e include shampoo, lozioni, creme e make-up. Lo scorso settembre la California è diventata il primo stato americano a mettere al bando la vendita di cosmetici testati sugli animali. In maniera simile al divieto sulle pellicce, la nuova norma stabilisce che nessun prodotto cosmetico testato sugli animali dopo il 1° gennaio 2020 può essere venduto nel paese.
Nevada e Illinois hanno seguito rapidamente, introducendo anch’essi il divieto, che ha senso anche da un punto di vista economico: l’industria cosmetica vegana è in rapida crescita, include marchi cult come Kat Von D e Milk Makeup e si stima che entro il 2025 avrà un valore complessivo di 20 miliardi di dollari.
L’impatto delle nuove leggi sulle industrie cosmetiche americane sarà ridotto, perché sono già in tanti a non fare più ricorso ai test sugli animali. Il vero ostacolo è però al di fuori dei confini americani e si chiama Cina. Pechino ha infatti un regolamento molto stringente in materia, il quale impone che, affinché un prodotto cosmetico sia venduto nel suo grande, lucrativo mercato, questo sia testato sugli animali.
A questo proposito, va notato che le leggi introdotte da Canada, Nevada e Illinois vietano la vendita o l’importazione di cosmetici testati sugli animali, ma non ne impediscono la produzione, al fine di non mettere le proprie aziende fuori dal mercato cinese.
La speranza è che le iniziative di questi stati portino a un divieto nazionale, valido in tutti gli Stati Uniti, che si aggiungerebbe a quello già vigente in Europa e metterebbe una pressione forte, globale, sulla Cina, per cambiare le sue politiche.
Dai comuni agli stati, dagli stati una dimensione nazionale, americana: questo è il percorso che si osserva nelle lotte per il benessere degli animali.
In questo senso, un esempio paradigmatico è il Preventing Animal Cruelty and Torture Act (PACT), norma federale contro la violenza sugli animali, firmata da Donald Trump a fine 2019, che prevede che la crudeltà nei confronti degli animali (la legge cita comportamenti come violenza fisica, annegamento, soffocamento e altri tipi di violenza che potrebbero provocare negli animali una “grave lesione fisica”) venga punita con una multa o con la detenzione in prigione fino a sette anni.
Il disegno di legge ha registrato un sostegno bipartisan sia alla Camera sia al Senato e colma un vuoto nella legislazione nazionale, perché tutti gli stati possiedono già norme che puniscono la violenza contro gli animali, ma, solo ora che c’è un divieto federale è possibile perseguire i casi che interessano diverse giurisdizioni o che accadono in aeroporti, basi militari e altri posti sotto la competenza federale.
Nell’affollato campo delle primarie del Partito democratico c’era uno sfidante che aveva la volontà di dare visibilità nazionale alla questione animale, trasformando leggi che oggi esistono a livello di stato in divieti federali. Si tratta di Julián Castro, già sindaco di San Antonio, ritiratosi dalla corsa ancora prima dell’inizio delle primarie, per sostenere la candidatura di Liz Warren.

Nel suo “piano per il benessere animale”, Castro proponeva di mettere fine all’eutanasia per i cani abbandonati nei canili, di intervenire sulle politiche di alloggio federali al fine di aiutare coloro che hanno un animale domestico, di stabilire, a livello federale, uno spazio minimo di cui gli animali da allevamento devono disporre e di mettere al bando in tutto il paese i test di prodotti cosmetici sugli animali.
Il piano di Castro era un esempio non solo di “good policy”, di buona politica, ma anche di “smart politics”, di una politica intelligente che cerca di intercettare quel 62 per cento di americani che, secondo un sondaggio Gallup del 2015, ritiene che gli animali meritino di essere protetti dalla legge. Per non parlare del 32 per cento degli americani, che, sempre secondo il sondaggio Gallup, sarebbe convinto che gli animali dovrebbero avere gli stessi diritti delle persone.
Un cambiamento epocale nella maniera in cui l’uomo guarda gli altri animali è alle porte e, per questo, presto o tardi un altro politico raccoglierà il testimone di Castro. Il mondo economico si sta già adattando, mentre la politica segue, sempre troppo lenta, a ruota.
Ma alla fine segue e questo è ciò che conta.

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