Il Nevada ha parlato e l’ha fatto in maniera inequivocabile: non c’è storia per gli avversari di Bernie Sanders. È lui, il settantottenne senatore del Vermont, il frontrunner delle primarie democratiche per la nomination alla Casa Bianca.
Sanders, dato per favorito nei sondaggi, ha fatto man bassa di consensi nel terzo stato in cui si vota, il primo con un elettorato composito, che riflette il voto, sempre più decisivo, che si terrà dieci giorni, il prossimo 3 marzo – il Super Tuesday – quando gli elettori democratici saranno chiamati alle urne in dodici stati e sarà assegnato un terzo dei delegati necessari per portare a casa la nomination.
Con il cinquanta per cento delle schede scrutinato, il risultato appare ormai chiaro. Polverizzando la soglia del trenta per cento, oltre la quale, secondo gli analisti, non poteva andare, Sanders ha scavato un divario abissale tra sé e i suoi avversati (Joe Biden al 19,2 per cento e Pete Buttigieg al 15,4 per cento) e ha dimostrato così di essere in grado di conquistare anche parte dell’elettorato moderato.

Dopo Iowa e New Hampshire, due degli stati più bianchi del paese, il Nevada, con quasi un trenta per cento di elettorato latinoamericano, è il primo stato che rispecchia la diversità razziale degli Stati Uniti. Qui Sanders ha fatto man basso tra l’elettorato ispanico, andando oltre le più rosee aspettative: più della metà dei latinos (il 51 per cento) ha votato per lui, un risultato che è tre volte superiore a quello del secondo arrivato, Joe Biden, supportato da un elettore ispanico su sei.
Inoltre, Sanders risulta primo in quasi ogni segmento demografico: ha prevalso tra i laureati e i non laureati, tra i liberal (con un netto vantaggio sugli avversari), ma, a sorpresa, anche tra coloro che si considerano moderati o conservatori e, nonostante gli attacchi ricevuti dal potente sindacato dei lavoratori del settore culinario e alberghiero del Nevada, per lo più formato da latinos, è riuscito a vincere anche nei caucus pieni di membri di questo sindacato.
Dopo la vittoria, intervenendo in un comizio a San Antonio, in Texas, dove si vota il 3 marzo, Sanders ha attenuato il suo discorso anti-establishment, per abbracciare una postura più inclusiva, da chi comincia già a vedersi candidato alla presidenza:
In Nevada siamo riusciti a mettere insieme una coalizione multigenerazionale e multirazziale, che non vincerà solo in Nevada ma anche in tutto il paese… Stiamo unendo il nostro popolo – neri, bianchi e latinos, nativi americani, asiatici americani, gay e eterosessuali.

Gli altri candidati sono rimasti impotenti a guardare.
Con la vittoria di Sanders prevista dai sondaggi, molta attenzione era concentrata sulla corsa per il secondo posto. Risultato? Il tremendo distacco che Sanders ha inflitto ai suoi avversari rende estremamente difficile identificare colui o colei che potrebbe tenergli testa.
Al secondo posto è arrivato Joe Biden, molto distante, che da tempo andava dicendo che avrebbe preso più voti negli stati con un elettorato razzialmente diversificato. Dopo i flop in Iowa e New Hampshire, per lui questa è ora la migliore performance: troppo poco però per dimostrare che può vincere negli stati dove le minoranze hanno un peso importante.
Ma staremo a vedere: tra una settimana si vota in South Carolina, dove gli africano americani sono quasi il trenta per cento della popolazione. Qui Biden è ancora in testa nei sondaggi, nonostante Sanders sia in ascesa.
Più lontani seguono Pete Buttigieg (15,4 per cento), che in Iowa e New Hampshire era sembrato affermarsi come l’alternativa moderata a Sanders, ed Elizabeth Warren (10,3 per cento), l’alternativa liberal a Sanders, che, nonostante i risultati a doppia cifra, non è mai riuscita a decollare.

Dopo la prova di forza in Nevada, Sanders sarà sempre più nel mirino del fuoco incrociato degli avversari, che a lungo hanno preferito non attaccarlo, sottovalutandone la capacità di imporsi come frontrunner, e che ora faranno a gara per accaparrarsi il titolo dell’ “anti-Sanders” e apparire come il candidato migliore per batterlo.
A questo proposito, commentando i risultati del Nevada, Buttigieg ne ha approfittato per dire:
Prima di affrettarci a nominare il senatore Sanders nostro candidato alla presidenza, dovremmo riflettere sobriamente sulle conseguenze di questa scelta… Sanders crede in un’inflessibile rivoluzione ideologica, che lascia da parte molti Democratici e, ancora di più, molti americani.
Tutto si gioca nei dieci giorni che ci separano dal Super Tuesday. Da una parte, il variegato fronte moderato tentenna a trovare un leader, concedendo così un importante assist a Sanders, che in Nevada ha dimostrato di cominciare a essere considerato un candidato credibile anche dagli elettori moderati. Dall’altra, cosa farà Liz Warren, l’altra candidata liberal? Darà il suo appoggio a Sanders o resterà in corsa?
E poi c’è l’incognita Michael Bloomberg, il miliardario ex sindaco di New York, che entrerà in corsa solo in occasione del Super Tuesday, ma che, investendo ben 409 milioni di dollari nella sua candidatura, ha scalato i sondaggi nazionali piazzandosi al terzo posto dietro Sanders e Biden.
Nei giorni scorsi, lo staff di Bloomberg ha messo in guardia gli altri candidati, dicendo che:
Se rimane lo status quo, con Joe Biden, Pete Buttigieg e Amy Klobuchar che resteranno in corsa nel Super Tuesday, è probabile che Bernie Sanders ottenga un vantaggio in termini di delegati impossibile da ribaltare.
Secondo un documento pubblicato da fonti vicine a Bloomberg, se nei prossimi dieci giorni i vari candidati moderati non metteranno da parte le loro ambizioni, riunendosi intorno a un unico leader, con il Super Tuesday Sanders potrebbe conquistare un vantaggio di ben quattrocento delegati.
A sostenere questa tesi non è solo Bloomberg, che avrebbe tutto da guadagnare in caso di ritiro degli altri candidati moderati.
Anche David Plouffe, direttore della campagna di Obama nel 2008, ha dichiarato intervenendo ieri su MSNBC, che se il numero dei candidati non si ridurrà prima del 3 marzo, Sanders potrebbe avere in tasca la nomination.
Se il 3 marzo Klobuchar, Buttigieg, Warren, Biden, Bloomberg e Sanders saranno ancora in corsa, Bernie vincerà quasi tutti i delegati che gli servono per costruire un vantaggio impenetrabile. Non è la mia opinione, è semplicemente matematica.

Vincere o morire, questa è la legge del Super Tuesday. Sanders lo sa bene, perché l’ha già sperimentato sulla sua stessa pelle: nel 2016, quando la sua sfidante era Hillary Clinton, questa uscì dal Super Tuesday con ben centosessanta delegati in più rispetto a lui, abbastanza per costruire un vantaggio permanente: per sorpassarla, Sanders non solo avrebbe dovuto vincere in ogni stato rimanente ma anche farlo con ampi margini.
Il giorno del super-martedì, decisivi saranno probabilmente due stati, la California e il Texas, che attribuiscono ben 643 dei 1991 delegati necessari per vincere la convention democratica.
In questi due stati risiede la maggior parte della popolazione ispanica degli Stati Uniti. Il che, dopo il successo tra i Latinx raccolto in Nevada, gioca tutto a favore Sanders.
O meglio “Tio Bernie”, zio Bernie, com’è stato affettuosamente ribattezzato dai suoi elettori ispanici.

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