Cile. Cambiare la Carta, ma non basta

In un Paese profondamente spaccato dove partiti tradizionali, governo, e presidente in carica godono di scarsissimo credito, poco meno di quindici milioni di cileni saranno chiamati alle urne per rispondere con un sì o un no al quesito: “Vuole una nuova Costituzione?”
CLAUDIO MADRICARDO
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È iniziata la campagna che porterà il Cile a decidere il 26 aprile se cambiare la Costituzione ereditata da Augusto Pinochet. Dopo la crisi scoppiata nell’ottobre dello scorso anno che ha causato la morte di trentun persone, è la via che il governo di destra di Sebastián Piñera ha dovuto intraprendere per superare la difficile situazione di scontro sociale alla cui base stanno decennali scelte politiche liberiste che hanno reso il Cile uno dei paesi con più disuguaglianze al mondo. 

In una situazione di grave crisi sociale e politica, in un Paese profondamente spaccato dove partiti tradizionali, governo, e presidente in carica godono di scarsissimo credito, saranno chiamati alle urne poco meno di quindici milioni di cileni dopo trentun anni dall’ultimo referendum che approvò le riforme della Costituzione a seguito del plebiscito con il quale nel 1988 fu messo fine definitivamente ai diciassette di dittatura di Pinochet. 

A riportare il Paese alle urne è stato l’accordo dello scorso 15 novembre raggiunto dall’assemblea legislativa cilena nel tentativo di dare uno sbocco politico e incanalare la forte esplosione sociale che era nata per l’aumento del costo del biglietto della metropolitana di Santiago, che in breve era dilagata ovunque, mettendo a nudo la fragilità di un Paese che solo pochi giorni prima il presidente Piñera aveva definito stabile e in crescita in un’intervista ad un importante quotidiano nordamericano. 

Un tentativo da parte della politica di recuperare la forte perdita di militanti, delusi dal comportamento che i partiti tradizionali di centro sinistra hanno mantenuto nei confronti della protesta. Allora, allo scoppio delle manifestazioni spontanee degli studenti subito s’era unito il resto della popolazione, e la lotta contro il costo del biglietto s’era trasformata in una generale richiesta di riforme sociali durante la quale a lungo la politica ufficiale è sembrata balbettare. 

Il presidente Sebastián Piñera con i responsabili del Servel (Servicio electoral) “para coordinar y garantizar un Plebiscito democrático, limpio y transparente y con amplia participación”.

I repentini cambi di tono da parte dello stesso presidente e il successivo tentativo di avviare timidi provvedimenti che andassero incontro alle richieste della piazza non hanno convinto i manifestanti. Tanto più che il governo ha continuato a usare pesantemente l’arma della repressione, per la qual cosa è stato ampiamente criticato ed è finito sotto osservazione da parte degli organismi che tutelano i diritti umani. 

Perfino anche poco dopo che Piñera ha garantito che il governo favorirà il voto dei cileni, assicurando trasparenza e correttezza, la protesta è riesplosa violenta a Viña del Mar, città costiera dov’è in svolgimento il festival musicale più importante dell’America Latina. Almeno otto auto sono state date alle fiamme e ventitré agenti di polizia sono rimasti feriti negli scontri di domenica scorsa. 

Tutto ciò fa presagire che le proteste possano acuirsi nel prossimo mese, con le ferie dell’estate australe e il successivo ritorno al lavoro. Una previsione che pare anche confermata dalla convocazione di numerose marce fatta attraverso le reti sociali, dove circola ancora liberamente l’informazione, date le frequenti intimidazioni nei confronti della stampa ufficiale. 

Viña del Mar

Si va dalla festa della donna, fino alla commemorazione delle vittime di Pinochet a fine marzo. Un’occasione in cui tradizionalmente scoppiano violenze nelle periferie urbane della capitale. 

“Vuole una nuova Costituzione?” È questa la semplice domanda alla quale il popolo cileno dovrà rispondere con un sì o un no. Secondo l’ultimo sondaggio di Activa Research, a rispondere sì a una nuova legge fondamentale sarà il 69 per cento dei votanti, i quali dovranno anche indicare se preferiscono che a scriverla sia chiamata un’assemblea di costituenti eletti e di legislatori, oppure solo di membri eletti. 

L’indizione del referendum accoglie una richiesta fondamentale espressa dalle manifestazioni popolari. Fatta eccezione per i partiti di estrema destra che hanno dato indicazione per il no, nella destra moderata sono in pochi ad appoggiare il cambio, sostenuto invece da tutto lo schieramento che va dal centro fino alla sinistra estrema. 

Allo stato dei fatti, se il referendum costituisce il passaggio necessario di un processo necessariamente lungo che dovrebbe portare a profondi cambiamenti nel Paese e a rivedere anacronistici privilegi, è difficile pensare che un governo screditato, ondivago e ambivalente, che alterna il dialogo alla mano dura e che chiude più di un occhio sulla reazione violenta della destra estrema, possa rassegnarsi a un mutamento profondo della società cilena, che sia soprattutto indolore.  Potrà sembrare un paradosso, ma l’ostacolo maggiore al cambio proviene proprio dalla profonda debolezza e dal conseguente scarso spazio di manovra di Sebastián Piñera.

Cile. Cambiare la Carta, ma non basta ultima modifica: 2020-02-28T17:28:59+01:00 da CLAUDIO MADRICARDO
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