“Il Milione di Barbara”

Nelle molte storie raccontate dalla Marengo in “Levante o giù di lì” c’è un po’ di tutto, come nel libro delle meraviglie.
SIEGMUND GINZBERG
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Non ci potevamo credere: ormai eravamo tutt’uno con le nostre navi, i nostri piedi s’adattavano al tavolato dei ponti, le nostre braccia oscillavano assieme al movimento delle onde, i nostri corpi erano prolungamenti del fasciame e delle murate…

Hanno trascorso quattro anni ormeggiati al largo prima che gli dessero il permesso di sbarcare a Biserta. No, non sono profughi dalla Libia che cercano di sbarcare in Sicilia. Sono russi arrivati sulle coste del Nord Africa, dopo essere stati respinti da tutti gli altri porti europei. Nel 1920. Tra loro una bambina biondissima, Anastasia, che aveva otto anni quando s’imbarcò e dodici quando mise piede a terra in Tunisia. Dove sarebbe rimasta fino al 2009, quando morì quasi centenaria. 

 Le tombe d’Anastasia, di suo figlio Serge (dietro la bandiera) e di suo padre Alexandre nel cimitero cristiano di Biserta. Nella foto d’apertura le navi russe
Zvonki, Zorki e Jarki nel porto di Biserta. A bordo della torpediniera Jarki Anastasia trascorse quattro anni prima di potere sbarcare a terra.

È una delle molte storie raccontate nella Parte seconda di Levante o giù di lì di Barbara Marengo (Associazione culturale Fontego 2019). Fa seguito alla Parte prima, uscita l’anno precedente. “Storie e viaggi da Venezia e non solo”, recita il sottotitolo di entrambi i volumetti. Mi verrebbe da chiamarlo “Il Milione di Barbara”. Per molti motivi. Perché Barbara è veneziana doc, anzi una nazionalista veneziana. Perché, come il “Libro delle Meraviglie” di Marco Polo, racconta di viaggi favolosi, nello spazio e nel tempo, di luoghi e personaggi da sogno, che si direbbero immaginari, ma poi risultano ben reali. Perché mischia storia e invenzione, esattamente come faceva il Veneziano. Perché parla di un continente a noi quasi del tutto sconosciuto, sul quale dalle nostre parti prevalgono ancora ignoranza, pregiudizi e sacro terrore, malgrado sia molto più vicino di quanto lo fosse la Cina per gli europei del XIII secolo: il nostro Mediterraneo e dintorni, il cosiddetto Vicino e Medio Oriente. Infine perché, come per i luoghi di cui si parla nel Milione, si fa una certa fatica a raccapezzarsi tra i nomi geografici di una volta e quelli di oggi, tra i personaggi e le vicende storiche, tra il riferimento erudito e l’allusione all’attualità, tra il visto e il vissuto e tra il letto e il sentito dire. 

Il progetto leonardesco del ponte di Galata

C’è un po’ di tutto, proprio come nel Milione. Altro verrà nelle prossime puntate. C’è ad esempio Leonardo da Vinci architetto e ingegnere, al quale il Sultano di Istanbul commissiona un ponte attraverso il corno d’oro. Lui glielo disegna. Ma non viene mai costruito. Bisognerà attendere il 2001 perché entri in funzione, poco distante da Oslo, un ponte ideato, sul disegno di Leonardo, dall’architetto norvegese Vebjorn Sand.

Nei suoi quaderni Leonardo disegnava e discettava spesso di ponti, fiumi, controllo delle acque. Anche a fini militari: c’è chi gli attribuisce, da parte dei Fiorentini (forse dello stesso Machiavelli), la commissione di un progetto per deviare l’Arno e rovinare la rivale Pisa. Tra i suoi appunti c’è la proposta di sfruttare le inondazioni dell’Isonzo per fermare una possibile invasione turca dell’Italia. Aveva intuito, con secoli di anticipo, il potere distruttivo della cattiva gestione delle acque. Ma anche il danno che può venire dal forzare la natura in modo sconsiderato:

Il fiume che s’ha a piegare da uno in altro luogo deve essere lusingato e non con violenza aspreggiato.

A Venezia non gli diedero retta. Ma come? Allora non avevano l’acqua alta? O già non si fidavano delle nuove tecnologie?

Ho visitato di recente la bella esposizione a palazzo Zaguri dedicata ai disegni anatomici di Leonardo, accompagnati dalle parti anatomiche corrispondenti plastificate. All’altra mostra, due piani sotto, altri cadaveri plastificati. Un’avvertenza dice che si sono utilizzati solo corpi donati da consenzienti. Non ci credo: i cadaveri hanno fattezze cinesi. Nel piano di mezzo una terza mostra espone gli strumenti giudiziari (di tortura) usati dalla Serenissima. Tra i reperti anatomici mi ha fatto particolare impressione una pelle umana intera. Richiama quella, conservata nella poco distante Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, di Marcantonio Bragadin, il comandante della fortezza di Famagosta scorticato vivo dopo la conquista turca di Cipro. 

Non era un posto tranquillo (come non lo è oggigiorno) il Mediterraneo. Si faceva a gara in fatto di atrocità. Sono numerosi, in entrambi i volumi, i capitoli in cui si parla dello scontro (ma anche degli incontri) tra Venezia e i Turchi. Quello su Lepanto, e poi quello in cui a narrare in prima persona è la veneziana Cecilia Venier, sposa e madre dei sultani che fecero guerra ai veneziani. Sempre in prima persona è il racconto di Uluç Ali (detto anche Occhiali), uno dei numerosi “Corsari cristiani” che servivano sotto le bandiere del Sultano.

Uluç Ali

Da bambino a Istanbul ero affascinato dal monumento in bronzo al pirata Barbarossa, affiancato da ceffi armati di coltellacci che si apprestano all’arrembaggio. A scuola m’insegnavano che quelli erano i buoni, che difendevano la gente dalla malvagità dei pirati cristiani. Poi migrammo in Italia e m’insegnavano l’esatto contrario. Per cui imparai a diffidare delle narrazioni troppo di parte.

Non c’è, Dio non voglia, equidistanza in Barbara Marengo. Lei è narratrice assolutamente di parte, di parte veneziana. Eppure di una Venezia non trincerata, non chiusa in sé stessa ma aperta a tutto il Mediterraneo. Se non altro per convenienza, perché con tutti commerciava. Il dialogo tra civiltà, l’idea dell’assurdità delle guerre, tutte le guerre, l’autrice ce l’ha, come dire, nel sangue. È una commovente storia di famiglia il racconto dedicato a come viene annunciata a sua nonna Caterina la morte del figlio nella Prima guerra mondiale. Così come nel primo volume si narrava la storia del trisnonno garibaldino trasferitosi ad Alessandria d’Egitto, dove aveva conosciuto la trisnonna copta. 

Giovanni Trevisan detto Volpato (1735-1803) ritratto da Angelica Kauffmann (1794/5)

Spesso Barbara va anche oltre l’empatia: s’immedesima nei suoi personaggi. A narrare in prima persona è ad esempio Giovanni Trevisan Volpato, “incisore, artista, antiquario”, ma soprattutto “inventore del souvenir per i turisti”. S’immedesima con particolare efficacia nei personaggi femminili. Erano più numerosi nel primo dei due volumi. Le riesce bene la coltissima Elena Lucrezia Corner Piscopia, la prima donna laureata all’Università di Padova, che parla venesian stretto, con tanto di note a piè di pagina con la traduzione in italiano. Ma anche Veronica Franco, “cortigiana honesta”, poetessa e femminista:

Anche noi abbiamo mani, piedi e cuore come loro e anche se siamo delicate e tenere ci sono uomini delicati che possono essere forti e uomini volgari e violenti che sono dei codardi…. 

Non c’è un capitolo dedicato ai numerosi contagi (e relative quarantene) che piagarono il Mediterraneo e in particolare la Repubblica di Venezia nel corso dei secoli. Ma ce n’è su una donna che si era dedicata a curare malati. Nella fattispecie le vittime di una delle tante guerre nate da una disputa assurda a Gerusalemme. Non tra musulmani ed ebrei, ma tra cristiani. Florence Nightingale, britannica nata a Firenze, aveva imposto standard strettissimi di igiene nell’ospedale da campo allestito a Scutari, sulla sponda del Bosforo opposta a Istanbul. Ma fu lei ad essere contagiata nelle corsie dalla “febbre di Crimea”, un morbo (un virus?) di natura e origini ancora incerte. 


“Il Milione di Barbara” ultima modifica: 2020-02-28T20:38:17+01:00 da SIEGMUND GINZBERG
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