Bill Moyers è stato il capo ufficio stampa di Lyndon Johnson, in anni difficili per gli Stati Uniti. È stato soprattutto un grande giornalista che ha lavorato per le principali televisioni americane. Da anni continua a ripetere che “la qualità della democrazia e la qualità del giornalismo sono strettamente connessi”. Lo fa in relazione alla particolare situazione americana. Ma è un’idea che si applica bene anche al nostro paese. Che cosa ci dice infatti oggi la qualità del nostro giornalismo rispetto allo stato della democrazia italiana? Pensieri negativi per la maggior parte degli italiani. La recente copertura mediatica del coronavirus ha messo in evidenza ancor più quest’aspetto.
Non si tratta peraltro di un difetto unico e pertanto facilmente individuabile. Parliamo di vari aspetti preoccupanti e dannosi. Ad esempio, anche nella vicenda del coronavirus l’appartenenza politica prevale sulla notizia. Ma avviene in modo più sottile, se vogliamo. Si manifesta attraverso delle “formule”, direi dei “topoi”, degli argomenti del bagaglio retorico e politico dei giornalisti: dal lamento per l’isolamento internazionale del paese alla figura “angelica” della donna ricercatrice, meridionale e precaria.

Anche l’uso del linguaggio è interessante: pagine e pagine in cui il registro emotivo cerca di creare un legame personale con la vicenda raccontata, ma non informa oppure dà ampio spazio a una notizia che potrebbe essere raccontata in cinque righe. Un’enfasi emotiva che ritroviamo anche nel linguaggio “bellico” utilizzato nei titoli per parlare del virus.
Se prendiamo i principali quotidiani, possiamo osservare come in quest’ultimo mese si siano presentati di volta in volta tutti questi aspetti. Per comodità abbiamo diviso quest’ultimo mese in tre fasi. La prima fase è quella attorno ai primi di febbraio. Si tratta del momento in cui dei turisti provenienti dalla Cina vengono ricoverati e l’istituto Spallanzani isola il virus. La seconda fase è intermedia. L’attenzione diminuisce sui giornali – passa in primo piano la cronaca politica – e appaiono alcune storie sui pazienti italiani in Cina. La terza è quella che comincia con i casi in Lombardia e Veneto e che prosegue ancora oggi.
Vediamole un po’ più in dettaglio. Ovviamente abbiamo preso in considerazione i principali quotidiani e alcuni dei titoli più esemplificativi. Però nell’insieme il contesto creato – dalla stampa mainstream a quella più marginale – è di panico. A cui si aggiungono poi vere e proprie forme di razzismo. Non prendiamo in considerazione l’informazione – e la para-informazione – televisiva che ha un pubblico più vasto e che ha replicato molto spesso ciò che si può verificare più facilmente analizzando la carta stampata.

La prima fase è quella dello Spallanzani. Ma è preceduta da articoli di alcuni quotidiani che saranno un po’ costanti nel tempo. Articoli poco orientati a spiegare o comprendere quello che accade in Cina o rischi del coronavirus. Sono notizie ad uso politico interno del Belpaese. È il caso di Libero che dedica una paginata al fatto che “Il comunismo cinese uccide più del coronavirus” (31.01). Oppure Il Giornale che pubblica la notizia “Beffa mascherina in farmacia: prodotta a Wuhan” (31.01). Il quotidiano di Milano non è il solo ossessionato dalla provenienza delle mascherine. Anche Il Tempo pubblicherà più avanti “Mascherine turche per l’ospedale di Tor Vergata” (27.02). E questa storia dell’origine delle mascherine ritornerà più volte.
Ovviamente è poi il momento della psicosi nei confronti dei cittadini cinesi residenti in Italia: “Roma psicosi a scuola” (Il Tempo, 30.01); “Via dall’Italia tremila cinesi” (Il Gazzettino, 01.02); “Voli bloccati. Ma i cinesi arrivano” (Il Tempo, 02.02); “Controlli di massa negli aeroporti” (Il Gazzettino, 02.02); “Virus, il caso dei cinesi in classe” (Il Messaggero, 04.02).
È però con la notizia dell’isolamento del virus da parte dell’Istituto Spallanzani che la stampa italiana dà il meglio di sé. La stampa comincia a parlare di primato italiano. In alcuni casi sembra quasi che l’Italia abbia scoperto una cura per il coronavirus e che sia diventata il faro di conoscenza che illumina il mondo. Eppure nella stampa internazionale non si fa menzione di questa importante scoperta. Complotto anti-italiano, dirà qualcuno.
In realtà il 31 gennaio la rivista Nature dice che il primo a isolare il virus è stato “un team dell’Istituto di virologia di Wuhan guidato dal virologo Zheng-Li Shi, che ha isolato il virus da una donna di 49 anni, che ha sviluppato i sintomi il 23 dicembre 2019 prima di ammalarsi gravemente”. Prima dello Spallanzani il virus era stato isolato anche in Australia, in Giappone, negli Stati Uniti e all’Istituto Pasteur in Francia. Senza togliere nulla al risultato importante dello Spallanzani, la stampa italiana crea un caso attorno alla tre ricercatrici che hanno isolato il virus. Un gruppo di ricerca da cui vengono eliminati i nomi di due colleghi uomini (Antonino Di Caro e Fabrizio Carletti), non utili alla retorica “patriottica” e salvifica che viene messa in atto.
La vicenda delle tre ricercatrici infatti si sviluppa attorno a più topoi del giornalismo italiano: il precariato e la fuga dei cervelli, l’istruzione bistrattata, l’elogio dei meridionali che “ce la fanno” e la figura salvifica e angelica della donna.
Sul precariato è la stampa di sinistra a insistere sull’immagine delle tre ricercatrici di cui una ha un contratto a tempo determinato. La Repubblica titola più volte addirittura: “Gli angeli del virus. Una è precaria (03.02); “La precaria combatte a 1500 euro al mese” (03.02). Ma c’è anche Il Fatto Quotidiano con il suo “Ricercatrici e precarie” (03.02).
Repubblica poi porta avanti il discorso: una ricercatrice precaria, in un mondo quello della ricerca, senza fondi. Allora il lavoro della ricercatrice diventa una guerra di trincea (“La ricerca d’eccellenza in trincea”, 03.02), in un paese che non li merita (“Pechino ringrazia i nostri medici fiore all’occhiello di un paese che non li merita”) per Il Giornale (03.02).
E ancora: “Che ipocriti sullo Spallanzani! Ministri e politici tutti a fare complimenti ai virologi che ieri hanno isolato il micidiale coronavirus” con bugie a seguito “Ma da anni lasciano senza fondi per la ricerca l’istituto di Roma che scoprì pure il virus dell’Ebola” (Il Tempo, 03.02). E poi: “Tagli, mancanza di fondi e rimborsi. Così trattiamo le nostre eccellenze” (Il Tempo, 03.02); “I precari della medicina. Alla ricerca servono fondi” (Il Messaggero, 04.02); “Francesca e gli altri precari della ricerca” (Il Mattino di Napoli, 04.02).
Altri quotidiani si lanciano in lodi del paese che sembra essere il primo ad avere isolato il virus e che eroicamente – contro tutti – riesce in ciò che altri non sono riusciti a fare. E in condizioni più difficili. Appunto la precarietà e la scarsità di fondi. Si va da un sobrio “La scienza italiana isola il coronavirus” (La Stampa, 03.02) al “Scoperta decisiva: antivirus in Italia” (Il Giornale, 03.02), sino al titolo di Libero “Dagli italiani una lezione al mondo. A Roma in 48 ore trovano il virus” (03.02).

Tutti i giornali poi si soffermano sul fatto che siano donne e meridionali le ricercatrici che hanno isolato il virus. Ovviamente la donna è un “angelo” e su queste si sprecano i titoli: “Gli angeli del virus” (Repubblica, 03.02) e “Ora l’Italia cerca una cura. Un’Equipe tutta al femminile” (Corriere della sera, 03.02). Donne che sono angeliche “madri”: “Nessuna festa abbiamo continuato a lavorare” (La Stampa, 03.02). Donne che hanno “coccolato il virus per farlo crescere”, come Repubblica mette bene in evidenza nel titoletto di un’intervista ad una delle ricercatrici (03.02).
Medici donne e soprattutto meridionali. Con lo stupore che si accompagna – per quale ragione non si sa – alla scoperta che esistono ricercatori meridionali nel campo medico. Donne che fanno miracoli, dice Libero. E che lasciano di stucco perché “poi dicono che al sud non fanno nulla…” (Libero 03.02).
È una fase che prosegue ancora per un po’, con la polemica sull’assunzione della “precaria” dello Spallanzani e sulla presenza della tre ricercatrici al Festival di Sanremo (sic!). Ma quando si spengono queste polemiche, comincia una nuova fase di notizie sul coronavirus.
Nella seconda fase non c’è ancora coscienza che il virus sia già in Italia. Quindi è un momento di polemica politica. Contro la globalizzazione, l’ambientalismo e gli immigrati. È la fase anche dell’emozione per la vicenda del diciassettenne rimasto in Cina. Niccolò, come i giornali lo chiamano – e fanno titoli su di lui – diventa il centro di un tentativo di creare forti legami emotivi e sentimentali per un “nostro ragazzo”. Che è pure stato trattato bene in Cina (perché non avrebbe dovuto essere trattato bene, non si dice). Anche in questo caso da “angeli” (donne e stranieri, évidemment): “La prof Sara, Tian e il dottor Zhou. Noi, angeli del ragazzo italiano” (Corriere della Sera, 05.02). Un nostro ragazzo che quando torna in Italia è “fuori dal tunnel” ed ha “fame di prosciutto” (Repubblica, 16.02).

La diffusione del virus e il dibattito sulle misure da prendere per ridurne la trasmissione portano poi la stampa di destra a tirare fuori tutto l’armamentario del dibattito politico italico. Ovviamente contro la globalizzazione che con i suoi trasporti facili rende più semplice il contagio: “Il coronavirus insegna che è meglio stare a casa” (Libero, 9.02); “Col coronavirus la globalizzazione in quarantena” (Il Tempo, 13.02)
Oppure contro l’immigrato, necessariamente e vagamente “africano”. Perché “La paura vien dall’Africa” (Libero, 16.02); e “Il virus è in Africa. Adesso si rischia il boom di contagi (Il Giornale, 19.02). Temi a cui segue poi l’elogio della politica di ferro putiniana: “Ora Mosca blinda la frontiera. “I cinesi non possono entrare” (Il Giornale, 19.02). Ma, tranquilli, Il Giorno ci avvisa di “Non scambiare la paura per razzismo” (10.02).
Libero invece si concentra sulla critica dell’ambientalismo, le cui responsabilità sono “apparentemente” chiare per il quotidiano: “Assurdo l’ecologismo che idolatra l’universo” scrive Antonio Socci su Libero (16.02). E non manca ovviamente l’attacco alla scienza: “Scienziati menagramo, la natura va domata, non subita” (Libero, 16.02).
Ma anche Repubblica ripropone un tema che persiste nel tempo: quello dell’orgoglio nazionale di fronte alla malattia (“Grazie Roma, la festa in ospedale dei cinesi dimessi, 14.02). Che riappare con la lode della figura del capitano “eroe” della Diamond Princess, “Il capitano impavido che resta sulla nave, altro che Schettino” (21.02). Quella “nave dei dannati”, dove un’intervistata dice “Piango e prego per sopravvivere” (Il Giorno, 10.02).
Non mancano poi i toni apocalittici che anticipano un po’ quello cha accadrà nelle settimane successive (e che spinge poi questi stessi quotidiani a chiedersi perché si è diffuso il panico nel paese). Del tipo: “La contrazione della Cina avrà un effetto devastante” in relazione al coronavirus e decimerà i distretti produttivi, “inutile provare a fare qualcosa” (Il Tempo, 13.02)
Unità nazionale nella solidarietà per la sinistra, orgoglio patriota da esibire contro l’Europa e il resto del mondo per la stampa di destra. E questa retorica patriottica ci accompagna anche – e soprattutto – nella terza fase.

Ovviamente quando vi sono i primi casi di coronavirus a Codogno e a Vo’ Euganeo titoli di giornale sono di panico totale: “Avanza il virus, Nord in quarantena” (Il Messaggero); “Virus, il Nord nella paura” (Repubblica); “Vade retro virus” (Libero); “Contagi e morte, il morbo è tra noi” (Il Giorno). Di questi titoli hanno già parlato a lungo in molti. Sono interessanti però gli sviluppi successivi. E i topoi che vengono ripresi dai quotidiani.
L’Europa, ad esempio, che diventa – tanto per cambiare – l’oggetto delle critiche. Da destra a sinistra. Per Repubblica “Ue pronta a intervenire. Ma l’Austria blocca i treni” (24.02). In realtà l’Austria ha bloccato un Eurocity Venezia-Monaco per due casi sospetti e ha bloccato per quattro ore la circolazione ferroviaria. Ma dal titolo sembra che l’Austria abbia deciso di bloccare tutti i treni provenienti dall’Italia. Il Fatto Quotidiano ci aggiunge una nota di orgoglio nazionale: “Noi li cerchiamo, gli altri paesi se ne infischiano (25.02). Libero e Il Tempo ci aggiungono il piagnisteo per il cittadino italiano vittima dei cattivi europei: “Non fermarono i cinesi, ora fermano gli italiani” (Libero, 25.02); “Italiani come appestati” (Il Tempo, 25.02)
Matrigna Europa! Nemmeno le istituzioni europee rispettano gli italiani: “Ostracismo sanitario. Francia ed Europarlamento cacciano gli italiani” (Libero, 26.02). Più semplici – e leggermente esagerati – i titoli di Repubblica: “Italia? No, Grazie” (26.02) e “Il mondo ci isola” (26.02). Un’Europa che non vuole aiutare l’Italia nemmeno in ambito economico-finanziario: “L’Europa (contagiata) ci nega la flessibilità” (Il Giornale, 27.02).
Dopo l’Europa è la polemica politica che impazza attorno al coronavirus. Per Il Tempo “Il virus contagia pure il Palazzo” (25.02) e “salverà la casta”, visto che si discute di un possibile rinvio del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. La polemica tra il presidente del consiglio Conte e il governatore della Lombardia Fontana diventa poi un punto di difesa tra i più rilevanti per la stampa del centrodestra. Già perché chi critica la regione Lombardia attacca il modello di governo regionale del centrodestra. E quindi: “Il virus è Conte. Bugie sulla Lombardia” (Il Giornale, 26.02).
In altri casi la polemica politica raggiunge vette tragicomiche. Abbiamo visto il titolo allarmato di Libero sulla presenza del virus in Italia. E qualche giorno dopo il quotidiano improvvisamente titola: “Virus, ora si esagera”. Un “si” impersonale, deresponsabilizzato. D’altra parte “non possiamo rinunciare a vivere per la paura di morire”; e poi “I pochi che sono deceduti erano soggetti debilitati, gli altri contagiati guariscono in fretta”. Alla fine “non ha senso penalizzare ogni attività”. Per poi arrivare al capolavoro: “Se proprio siamo in emergenza, costituiamo un governo con dentro tutti i partiti per gestire la congiuntura” visto che “Conte non è all’altezza del suo compito”.

E poi ancora una volta la stampa si perde dietro a notizie – ma sono tali? – sui comuni del sud che bloccano i cittadini del nord, in una sorta di pena del contrappasso. Anche qui è Libero che si sbizzarrisce in titoli, anche se non è il solo: “Zavorrati e virtuosi. La sanità lombarda massacrata da Roma” (26.02), “Terroni vs Polentoni. La rivincita dei meridionali «Nordisti, restate a casa vostra»” (26.02) “Invece di ringraziarli, indagano i medici lombardi” (27.02).
Si potrebbe continuare a lungo e con i quotidiani locali. Interessante è anche l’uso del linguaggio bellico che viene usato da tutti i quotidiani. Il paese e gli ospedali sono in “guerra” o meglio in “trincea”, uno “stato d’assedio” per proteggersi dal “killer”. Mentre i nostri “eroi in corsia” difendono il paese e consentono alle varie città di resistere (aggiungete qualsiasi nome di città all’espressione “[….] che resiste”). Senza nulla togliere al personale ospedaliero e ai medici che lavorano, il linguaggio utilizzato è quello di una guerra contro un nemico, che viene personificato. E se si è in guerra, la gente dovrebbe avere paura.
Ora certamente c’è l’aspetto del clickbait. Si titolano le notizie in un modo o le si raccontano in un altro per favorire l’accesso ai propri siti internet. Risorsa importante per una stampa cartacea in crisi. Però dovrebbe sollevare qualche domanda sullo stato – non salutare – della democrazia italiana, a cui il giornalismo del Belpaese fornisce il proprio contributo.
Perché certamente esiste una Democracy Italian style, come suggerisce Joseph La Palombara. Ma qual è la funzione del giornalismo in una democrazia, anche peculiare come quella italiana, se non fornisce la basi per una discussione serena, non “gridata”, razionale e argomentata? È simile a quello della così fortemente criticata classe politica italiana – non tutta ovviamente – che si crogiola nell’ignoranza e nel populismo: non ha una funzione, danneggia irrimediabilmente la cultura politica e civica del paese.

Se anche nella vicenda del coronavirus il giornalismo italiano più che informare vuole trasmetterci un’idea di mondo, qualche problema c’è. È vero che la stampa sempre di più cerca di offrire un mondo che sia compatibile con le idee dei propri lettori. E in crisi di vendite ovviamente questo sembra giustificato. Ma queste echo chambers che vengono create dai quotidiani – e che hanno il solo scopo di confermare le nostre convinzioni, non di fornirci elementi per capire quello che accade – producono effetti che vanno al di là della semplice comunità di lettori di riferimento. Creano un clima nel paese. Sempre più polarizzato, in cui si discute animatamente e per pre-concetti, senza risolvere nulla.
Certamente è parte del sistema democratico del paese. In un celebre saggio – Comparing Media Systems – Daniel Hallin e Paolo Mancini individuano tre modelli di stampa: quello liberale anglosassone, quello continentale e, infine, il modello mediterraneo. Quest’ultimo viene definito come “modello pluralista polarizzato” ed ha le caratteristiche che facilmente possiamo riconoscere: la prevalenza di media partigiani, una tendenza alla strumentalizzazione delle notizie per renderle spesso anche merce di scambio e di manovra tra le élite politiche, bassa circolazione della carta stampata (in coppia con un tasso di alfabetizzazione minore).

Ma è sopratutto l’integrazione circolare tra i vari media e l’interazione tra il complesso mediatico e il potere che è preoccupante. Perché riduce il giornalismo ad “ancella” del potente di turno.
Possiamo continuare a dire che la crisi del giornalismo è legata alla presenza di internet e delle tecnologie. Il gran parlare del problema – che esiste – delle fake news non deve oscurare quello che resta il principale tema, il ruolo dei media mainstream e non solo, che peraltro oggi cercano di riprendere fiato dalla loro crisi cavalcando quest’emergenza con cinismo senza precedenti. Effettivamente le vendite stanno andando molto bene, così gli ascolti tv e le visioni online.
Ma forse sarebbe il caso che la stampa italiana – non tutta ma una buona parte – cominciasse a riflettere sul ruolo che ha – e ha avuto – nella disastrosa situazione in cui versa il paese, sotto molti punti di vista.

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