Risiko bancario. Un’intesa non proprio cordiale

Anche se frutto di un’operazione non amichevole, l’acquisizione di UBI da parte di Intesa sarebbe la fusione di due eccellenze del sistema bancario italiano e porterebbe alla nascita di un gruppo creditizio di tutto rispetto sia guardando alla Penisola, sia sollevando lo sguardo da essa.
FRANCESCO MOROSINI
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È presto per dire se tra Intesa e Ubi Banca (UBI) saranno nozze; di certo vi saranno ostacoli. Infatti, i membri del patto di consultazione tra il gruppo di soci storici che riunisce circa del 18 per cento del capitale valuta ostile la proposta di Intesa e annunciano che proveranno a resistervi. O, quantomeno, a rilanciare la palla in casa d’Intesa ritenendo il valore di mercato di UBI superiore alle ultime quotazioni su cui si basa la proposta d’acquisizione di Intesa medesima. Siamo alle prime schermaglie; è però il segnale che c’è fermento nell’industria del credito italiana. Effervescenza che è difficile si fermi alla questione Intesa/UBI; sia perché coinvolge altri protagonisti; sia soprattutto perché si tratta di un settore attraversato da grandi cambiamenti. Che vi succede, allora?

Che il sistema bancario italiano, definito nei primi anni Novanta del Novecento da Giuliano Amato come una “foresta pietrificata”, ha da tempo mutato pelle (la prima mossa fu lo scorporo tra banca e la fondazione proprietaria); e ora, appunto spinto da una rivoluzione tecnologica per esso radicale, pare essersi messo nuovamente in movimento. Vuol dire che è possibile che l’operazione di Intesa su UBI, anche per le inevitabili ricadute che avrà nell’ambiente a essa circostante, sia il primo passo di un nuovo grande risiko bancario in un settore che, oltre ad avere mostrato di recente molti lati discutibili, ha bisogno di modernizzazione.

Basta curiosare tra oltralpe e oltreoceano per capirlo. D’altronde, la necessità di “solidificare” il settore (con troppi soggetti a basso valore di capitalizzazione) è nelle cose; e le operazioni di acquisizione sono una risposta a queste necessità. Precisamente, possono pure servire a proiettarsi in avanti per accogliere meglio le sfide future. L’operazione Intesa/UBI va inquadrata in questa prospettiva, apparendo lontana dalla talvolta necessaria fattispecie (che è anche una lunga tradizione) del “pronto soccorso” bancario.

Resta, in generale, che l’industria dei servizi creditizi è alla ricerca di nuovi equilibri dei quali il risiko è una via per raggiungerli. C’è una logicità in tutto ciò: rispondere agli obiettivi di rafforzamento delle aziende cui aggiungere, in prospettiva di fatto immediata, le sfide poste al sistema bancario dal fintech e dalla trasformazione digitale dei servizi offerti; e tali da porre in discussione la stessa idea di banca come oggi la conosciamo (sia nell’offerta, da parte di imprese parabancarie, di sistemi di pagamento su piattaforme elettroniche che di intermediazione di fondi). Questo crea una spinta alle aggregazioni (che sono tutto meno che un pranzo di gala e molte poi, negli esiti, sono ben sotto le aspettative); anche perché per reggere tutto ciò necessitano risorse notevoli.

In questo contesto emerge la volontà, e la ratio, di Intesa per integrarsi con UBI acquisendone parte della struttura. È un lampo inaspettato a cielo sereno? In parte no, perché rumors di analisti sulla ripresa del risiko bancario già c’erano. Però l’attenzione andava ai “pesi medi” del settore (BPER, BPM e MPS); anzi, proprio attorno a quest’ultima banca si scrutava quale potesse essere il partner per il suo ritorno al privato. La novità imprevista è che a muovere la scacchiera per prima, invece che i “pesi medi”, sia stata Intesa, per “forza aziendale” una delle aziende leader del mercato italiano (anzi l’italianissima “banca di sistema” essendo gli altri grandi player più internazionalizzati: Unicredit, BNP Paribas con BNL e Crédit Agricole con Cariparma).

È una ripartenza del risiko bancario? È presto per dirlo; al minimo, però, è una mossa d’apertura. Certo è che, se con UBI sarà “Grande Intesa”, ciò ridisegnerà la mappa del potere bancario in Italia. Ed è facile supporre che l’operazione probabilmente godrà dell’occhio benevolo della BCE, di certo attenta ad aggregazioni che abbiano l’obiettivo di irrobustire le aziende di credito nel Belpaese. Nessun dubbio che a Francoforte l’operazione sarà valutata con la dovuta attenzione. Ma è altrettanto certo che la Vigilanza europea sarà propensa a vedere negli aspetti economici di nuove fusioni bancarie (di cui Intesa/UBI potrebbe essere un prodromo) una duplice possibilità: tagliare i costi (economie di scala) e aiutare a combattere la bassa redditività delle aziende di credito. Cui aggiungere, come sottolinea con la dovuta ironia il prof. Andrea Resti, l’apprezzamento per una strategia aziendale capace di “semplificare il lavoro alla stessa Bce, cui non dispiacerebbe sorvegliare qualche banca in meno”.

Merita notare che l’operazione di Intesa è possibile perché UBI è sul mercato, cosa che solo fino a poco tempo fa sarebbe stata semplicemente impossibile. Insomma, se UBI è contendibile, lo è per effetto di una “piccola” recente rivoluzione nel credito italiano: il decreto legge 20 gennaio 2015, che impone alle banche popolari con attivo superiore a otto miliardi di euro la trasformazione da Società cooperative in società per azioni (S. p. A.). Meritoriamente, da subito l’ex popolare UBI banca, come deciso dall’assemblea straordinaria dei soci a Brescia il 10 ottobre 2015, ha deciso per la trasformazione in S. p. A. Decreto che fu un ulteriore colpo ai resti della cosiddetta “foresta pietrificata” (comunque già fortemente terremotata ben prima dell’offerta di Intesa su UBI) di cui, come detto, parlava ormai decenni or sono Amato.

Che la decisione di Intesa apra o meno una nuova stagione del risiko bancario, una cosa è certa: l’operazione prende corpo in un contesto organizzativo/tecnologico diverso dal passato. E, come dimostra lo stesso “caso UBI”, la corsa all’acquisizione di filiali che accompagnava le acquisizioni precedenti (tipicamente negli anni Novanta del XX secolo) mancherà di certo. Anzi, le nuove filosofie organizzative del settore le considerano un residuo da ridurre, almeno nella loro forma tradizionale (se il rapporto cliente/banca è una relazione sociale ne nascerà una specie digitale). Resta che la mossa di Intesa su UBI appare piuttosto inaspettata. Di certo per il management di UBI che poche ore prima dell’annuncio di Intesa (come riportano le cronache) era a Londra ad esporvi il piano industriale senza ipotesi di nuovi scenari di aggregazioni. Ovvero, il 17 febbraio Intesa ha annunciato l’operazione su UBI pare senza che sia stata preceduta da attività di “diplomazia informale” col Consiglio d’amministrazione di UBI stessa per concordare ipotesi di possibile accordo. Legittimo; fa parte delle regole del mercato. Nessuna meraviglia però che essa venga ritenuta ostile dal management e da parti rilevanti degli azionisti che, come anticipato, proveranno a opporvisi.

Per essi comunque la strada sarà in salita perché per molti detentori del capitale di UBI l’offerta risulterà allettante. E qui il mercato conta perché circa il settanta per cento del capitale di UBI stessa è flottante: vuol dire che opporsi ad Intesa a molti azionisti poco legati alla banca rispetto al “gruppo storico” potrebbe apparire come il voler sottrarre loro un buon business per ragioni che ad essi, meri investitori più attenti alla “cassa” che alle strategie aziendali, interessano poco. Va aggiunto che una linea di resistenza neppure potrà contare troppo sul fatto che le Autorità estraggano il “cartellino rosso” per fermare l’operazione. E questo, come detto, sia per avere un player più attrezzato ad accogliere le sfide delle nuove tecnologie applicate al business bancario che per il fatto che essa appare favorire, invece che ridurre, la competizione di mercato. Una magra consolazione per i suoi difensori se UBI, per evitare che l’Antitrust blocchi l’operazione, subirà uno “spezzatino” tra ciò che interessa all’acquirente e il resto.

Lo strumento scelto da Intesa per consolidare e accrescere la leadership in primis nel Belpaese, poi in Europa, è l’offerta pubblica di scambio (OPS) volontaria sulla totalità delle azioni di UBI. L’operazione consiste nel fatto che i titoli della banca acquistata sono pagati con la consegna/scambio di altri strumenti finanziari: per la precisazione, con azioni ordinarie di Intesa di nuova emissione. A loro vantaggio gli azionisti di UBI potranno scambiare le proprie azioni con i titoli di Intesa a condizioni allettanti (un ostacolo per chi s’oppone all’operazione): difatti, essi godranno di un premio di circa il 25 per cento sul prezzo di borsa ottenuto prima del weekend precedente l’OPS di Intesa. Forse, come sostengono alcuni analisti, UBI potrebbe essere sottovalutata dal mercato; nondimeno, l’attrattività immediata per i detentori di quel settanta per cento di capitale flottante c’è tutta. 

Realisticamente, dinanzi all’OPS in questione, come potrebbero agire gli oppositori? Facendo quello che Intesa, per le caratteristiche estrinseche all’OPS, può evitare di fare: mettere mano al portafoglio. Perché questa sarebbe l’unica alternativa antagonista all’offerta di con cambio azionario di Intesa; ma sarebbe anche una strategia onerosa. Infatti, il gruppo dei soci storici ostili all’operazione (ora conta circa il 18 per cento del capitale) per frenare l’operazione potrebbe provare a raggiungere il trenta per cento del capitale e lanciare un’OPA su UBI. Costoso, visti i guadagni del titolo dopo l’annuncio dell’OPS. E altrettanto problematico per essi sarebbe l’ottenere il ritiro dell’OPS di Intesa: perché nel caso i titoli di UBI perderebbero il “miele” conferito loro dall’OPS.

Cosa certamente antipatica da spiegare agli azionisti: in specie a quelli, come visto precedentemente, più interessati al rendimento del titolo (in dottrina corrispondono più all’idealtipo di azionista USA) che a quelli più attenti alle vicende dell’azienda (dottrinalmente corrispondenti all’idealtipo da “capitalismo renano”), come il gruppo dei soci storici più coinvolti nel destino di UBI ed ostili all’OPS. Come lo è probabilmente il management, che per questo potrebbe essere tentato a resistere cercando alleati. In ogni modo, anche in questo caso la strada sarebbe in salita.

Infatti, il Testo unico finanza (TUF), per tenere contendibili le aziende ed evitare che gli amministratori troppo facilmente possano alzare un ponte levatoio contro le acquisizioni, vincola gli amministratori che percepiscano come ostili un’OPA e/o un OPS alla cosiddetta “passivity rule”. Essa prevede – anche disciplinando un possibile conflitto d’interessi tra il management che vede nelle acquisizioni una minaccia al proprio ruolo e gli azionisti che, invece, vi vedono un guadagno – che ogni strategia dei vertici aziendali per contrastare un’acquisizione debba passare per l’assemblea dei soci. Comunque, se attorno a UBI vi sarà battaglia, lo si vedrà a breve.

Ciò posto, cadendo gli ostacoli, l’acquisizione di UBI da parte di Intesa sarebbe la fusione di due eccellenze del sistema bancario italiano e porterebbe alla nascita di un gruppo creditizio di tutto rispetto sia guardando alla Penisola, sia sollevando lo sguardo da essa. Inoltre, disporrebbe, com’è tradizione di Intesa, di evidente affidabilità.

Merita ricordare che l’indicatore di solidità patrimoniale previsto per Intesa dopo la fusione (è il parametro decisivo per istituzioni creditizie, finanziatori e risparmiatori per valutare la fiducia che merita una banca) sarebbe di ottimo livello e significativamente superiore a quanto richiesto come misura prudenziale dalla BCE.

Altra novità positiva è che l’OPS di Intesa su UBI è, ricordiamolo, lontana dalle fusioni in stile “pronto soccorso bancario”. All’opposto, si tratta di una banca sana (Intesa) che punta ad acquisire risorse manageriali e clientela di un’altra banca altrettanto sana (UBI), conseguentemente spezzando il possibile circolo vizioso che esponeva gli azionisti delle banche bene amministrate alla sorte di dover pagare per le malate. Così l’OPS su UBI consolida Intesa sul mercato nazionale rendendola il player di riferimento come prima banca italiana. Svanirebbe al contempo l’ipotesi di costruire attorni ad UBI un quarto polo bancario; anche perché di fatto questa verrebbe smembrata.

Difatti, per evitare le obiezioni dell’Antitrust, l’affare Intesa/UBI prevede (motivo attendibile per il quale, come già ricordato, un gruppo di soci storici s’oppone all’operazione) la cessione a BPER di 400-500 filiali, in gran parte situate in Nord Italia, prevalentemente in Lombardia. Probabilmente un altro terzo di filiali andrebbe chiuso e potrebbe porsi un problema di esuberi; molto dipenderà dalle decisioni che prenderà l’amministrazione del personale di Intesa e la sua interazione coi sindacati. Va aggiunto, sempre in tema di smembramento di UBI, il fatto che UnipolSai Assicurazioni è disposta, sempre che l’OPS vada a buon fine, all’acquisizione del ramo assicurativo partecipato dal gruppo UBI.

Offerta su azioni UBI Banca: le dichiarazioni del CEO Carlo Messina, 18 febbraio 2020

Per gli osservatori il tema è l’assetto futuro del mercato bancario italiano. Forse quella di Intesa è anche una strategia difensiva tra i cui obiettivi potrebbe esservi proprio quello di evitare che attorno a UBI possa aggregarsi un polo bancario alternativo afferente allo stesso mercato. Se lo fosse, ed anche le mosse difensive appartengono alle armi del management di un’azienda, lo sarebbe esclusivamente come passo di un consolidamento di Intesa di più ampio respiro. All’inverso, se solo questo fosse lo scopo dell’OPS, cioè l’arrocco per avere meno competizione, la cosa sarebbe illusoria. Perché, se c’è da affrontare, oltre ai mercati monetari e finanziari agenti in interazione tra globale e nazionale, anche il salto tecnologico/organizzativo, saremmo nel campo della fuga dalla realtà: cosa a cui certo i vertici della banca sono estranei.

Fermando due concetti lo si vede meglio. Il primo è che Intesa sicuramente si rafforzerà nell’immediato se l’OPS su UBI avrà successo; il secondo, in apparenza contraddittorio, è che il calo di redditività del settore più tradizionale dei servizi bancari si riproporrà comunque ben presto. In altri termini, l’operazione ha senso in un’ipotesi che all’arrocco sostituisca la volontà di rinnovamento del business bancario. Diversamente, ci sarebbe il rischio di voler costruire un mausoleo alla banca del XX° secolo. Cosa certo lontanissima dal pensiero del management di Intesa.

Altrimenti, il paradosso di una banca che cresce via acquisizioni in un’economia sostanzialmente ferma rischia di tramutarsi in un danno per l’azienda. La qual cosa porta dritta alla questione di fondo, secondo la condivisibile analisi di Stefano Cingolani del sistema Italia. Ossia se esista ancora un capitalismo italiano che sia però capace di giocare la partita, oltreché come grande player del mercato nazionale, pure come forte giocatore nel contesto internazionale. Perché è vero che il mercato è globale; ma le medaglie delle “olimpiadi dell’economia” le vincono, come nelle sportive, le squadre nazionali. Se Intesa punta le sue fiches sull’OPS è perché, fortunatamente, dà al quesito una risposta positiva.

Victor Massiah, CEO di UBI Banca

Da notare che l’esito dell’OPS su UBI inciderà su una partita cui il potere politico tiene molto: la questione MPS. Di certo, se Intesa acquisirà UBI, l’ipotesi di un suo intervento sulla banca senese diverrà poco realistico, seppure Intesa spesso abbia amato porsi come “banca di sistema”. Tuttavia, andando l’OPS in porto essa parrebbe uscire (quantomeno per lo sforzo tecnico/aziendale connesso all’operazione) dalla vicenda MPS. 

Che, comunque, è espressione di una diversa filosofia d’intervento. Da un lato vi sarebbe il supporto al Tesoro nella ri-privatizzazione di una banca (la senese) ancora problematica, dall’altro, cosa che appare più confacente all’intento attuale del management di Intesa, una razionalizzazione aziendale senza fini da “crocerossina”. Logico pensare che il posare lo sguardo su UBI fosse anche un modo per allontanarlo da MPS. 

Dal punto di vista di Intesa, l’OPS su UBI è ben concepita. Lo scambio azionario evita di pagare UBI per cassa. Oltretutto, anche ricordando che molti analisti ritengono il valore di UBI sottostimato dal mercato, l’acquisizione è un buon affare anche valutando il premio attribuito nel concambio alle azioni della banca oggetto di acquisizione. Anche confermato dal cash generato dalla cessione a BPER di circa un terzo delle filiali. Nel medio periodo resta per Intesa il problema del “che fare?”. Porsi prioritariamente come banca di sistema? In termini di Realpolitik un po’ dovrà esserlo, ma con attenzione agli eccessi dello “spaghetti corporativismo” (da Alitalia all’ILVA). Oppure, potenziatasi con l’OPS su UBI, puntare ad essere un player globale/nazionale attrezzandosi al continuum di rivoluzioni manageriali insito nelle prossime innovazioni tecnologico/organizzative del business bancario?

La prima ipotesi la esporrebbe troppo al rischio di stagnazione; la seconda, viceversa, pur se carica di sfide, pare più coerente al senso che dovrebbe avere l’OPS su una banca come UBI: valorizzarne alcuni asset a fini dell’ulteriore sviluppo di un’offerta di servizi bancari adeguati alla crescita del sistema-paese.

Una cosa è difficilmente negabile: dalla visione di Intesa degli obiettivi dell’OPS su UBI e dalla possibilità che questa inneschi un nuovo risiko capace di rafforzare l’industria bancaria italiana, si gioca la modernizzazione finanziaria del Belpaese. Molto, ma non tutto, dipende e dipenderà dalla filosofia economico-aziendale del management di Intesa.

Risiko bancario. Un’intesa non proprio cordiale ultima modifica: 2020-02-29T17:37:50+01:00 da FRANCESCO MOROSINI
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