Come sarà Venezia, quando terminerà l’emergenza virale? Sarà ancora il turismo il motore trainante, unico, della città? Il vuoto di questi giorni ha restituito la città ai suoi abitanti. Non era quello che molti di noi veneziani desideriamo quando ci sentiamo sopraffatti dalle orde dei turisti? Già, ma finita la crisi, il vuoto di questi giorni dovrà pur essere riempito. Come? Da quali idee? Da quali progetti? Il New York Times interroga la nostra città sul suo futuro. Il Guardian parla di “ultimo chiodo infisso sulla bara di Venezia”: dopo l’acqua alta eccezionale di novembre, il coronavirus. Non potrebbe essere proprio questa crisi a salvare la città, dopo averla messa ko?
Domande che si pongono a chi governa la città. Ancor di più a chi si candida a governarla, sfidando l’attuale amministrazione. E tra chi invoca un significativo cambio di passo a Ca’ Farsetti, una rottura di continuità, spicca evidentemente quella parte dei cittadini veneziani che contestano la monocultura turistica e l’overtourism, mettendo in rilievo la volatilità di un’industria, il turismo, che proprio per questo non può essere l’unica, dominante, forza di trazione dell’economia cittadina. Oggi questa parte della cittadinanza, tutt’altro che minoritaria, anche in terraferma, e le sue rappresentanze politiche e sociali vedono spalancarsi un campo aperto e fecondo. Per proporre idee nuove. Idee per rilanciare la città su un piano in linea con la cultura della sostenibilità.
Peraltro, tutto questo avviene nel bel mezzo di una campagna elettorale per il rinnovo della guida della città. Ci aspettiamo – a maggior ragione – un dibattito vero su quanto accade e accadrà. Tanto più che mai come prima d’ora, cambio climatico e coronavirus ci hanno messo in ginocchio. A rifletterci sopra, si ha come l’impressione di assistere a un fenomeno complesso destinato probabilmente a segnare una svolta radicale nella vita economica e sociale cittadina.
In attesa di riflessioni più approfondite, le risposte che provengono dal mondo della politica, di tutte le tendenze, e dell’economia si limitano ad affrontare l’emergenza, l’incidente. Come se, una volta passata la crisi, tornasse immediatamente il sereno. Se questo può essere un atteggiamento inizialmente comprensibile, ha purtroppo il difetto di proporre acriticamente il modello sul quale si è cresciuti e molti hanno prosperato. E che oggi è causa dello shock che vive l’economia cittadina.

Si evita l’attenta analisi, ormai improcrastinabile, di un paradigma che ha dimostrato profonda debolezza. Detto altrimenti, quel che avviene in ogni disciplina quando si scopre che il modello adottato mostra i suoi limiti, sembrerebbe non trovare applicazione nelle scelte economiche e politiche che riguardano la cittadinanza.
Domina una sorta di pensiero unico, anche nelle file dell’opposizione cittadina, e sembrano prevalere le scelte più facili già operate da anni. Con una parallela pigrizia progettuale sulla quale ci lasciamo scivolare come su un piano inclinato che ci riporta a soluzioni già in uso, e improponibili alla luce degli eventi.
Per prima si è incaricata la grande acqua alta dello scorso 12 novembre a rendere palese la fragilità fisica di una città che non aveva avuto bisogno di cingersi di mura per la sua difesa. Protezione per centinaia di anni, l’evento subito in quei giorni, ha fatto percepire la convivenza con le acque una minaccia.

Dopo secoli durante i quali Venezia ha saputo vivere circondata dall’acqua, decidendo di volta in volta gli interventi necessari a mantenere le funzioni della sua laguna, con l’industrializzazione quel rapporto s’è frantumato. Facendo sì che fossero le funzioni a essere sacrificate al modello di sviluppo imposto a un tessuto fragile, che con l’andar del tempo ha evidenziato le sue sempre più stridenti criticità. Il cataclisma annunciato del cambio climatico con l’innalzamento letale per Venezia del medio mare è giunto alla fine.
Lo scenario che ci si prepara è noto. E ci racconta di una laguna che dovrà subire profonde trasformazioni rispetto al suo carattere originario, mentre il MOSE, una volta in funzione, avrà una speranza di vita di due decenni, costretto a essere chiuso almeno per trecento giorni all’anno. Con conseguenze per l’ambiente e per l’economia portuale che è facile immaginare.
L’attende infine un destino di reperto d’archeologia lagunare, che probabilmente nessuno s’incaricherà mai di rimuovere investendo nuovi fiumi di denaro oltre a quelli spesi nella sua costruzione. Questo ci dice la scienza. Inverando la profezia di qualcuno che l’ha definito il più costoso e originale sistema per allevare le cozze.
A tutto ciò s’è aggiunto nei giorni scorsi l’arrivo, quanto mai prevedibile, del coronavirus che ha svuotato letteralmente la città dai suoi ospiti, mettendo in luce la debolezza congenita del fenomeno turistico e quanto la città si sia spopolata dei suoi abitanti. In questi giorni s’assiste a una sostanziale divisione d’interessi tra chi col turismo opera e guadagna, che ora si lamenta. E chi semplicemente vive, e in questi giorni festeggia.
“Domenica, pioggia, coronavirus. #Venezia vuota di turisti, quasi una tabula rasa sulla quale immaginare una città diversa” @Jotadeaqui
A ben vedere, tutto quanto sta accadendo non dovrebbe avere senso in un’economia cittadina sana, e riesce per converso a evidenziare quanto il turismo ci abbia tramutato in un parco tematico non gestito. Le colpe della politica, non solo locale e non da oggi, ne hanno permesso uno sviluppo incontrollato, favorendo il diffondersi della mentalità da rendita di posizione.
Ci siamo trasformati in un tessuto sociale poco disposto a innovare e nel profondo conservatore. Se cinque anni fa la città aveva espresso una messe di progetti tesi al controllo dell’afflusso turistico, tutto è rimasto lettera morta. E in attesa di non si sa che, si è deciso di contare gli arrivi.
Ora, il fenomeno del Covid-19 ha tutte le apparenze di avere delle conseguenze sull’economia e sui costumi che non saranno indolori. Eppure potrebbe essere questa l’occasione che ci spinga a cominciare a riflettere su possibili strade alternative da percorrere, che non rinuncino evidentemente alla risorsa turistica, ma sul serio la gestisca.
In primo luogo attraverso lo strumento legislativo. Del cui operato, un esempio positivo può essere la legge in arrivo sulle affittanze brevi. Ma anche questo rischia di essere parziale o insufficiente, perché, per quanto sia difficile farlo capire a Roma, Venezia è un caso a sé, e come tale difficilmente può rientrare in un provvedimento generale. Quando ciò è accaduto, si pensi alle leggi regionali in fatto di locazioni turistiche, la città ne ha pagato dolorosamente le conseguenze.
E la politica? La sinistra? Nulla. Contro ogni evidenza, sembra tutta continuare a perseguire un modello di sviluppo con fiato corto, lo sguardo appiattito sul presente e sulla tutela degli interessi contingenti in campo. Da qualunque punto la si veda, è tutta impegnata nella strenua difesa di posti di lavoro che i cambiamenti in atto renderanno presto indifendibili. Vige anche qui il pensiero unico in campo economico del quale le forze che un tempo si chiamavano progressiste sono vittime. E non solo a Venezia.
Colpevolmente ignorando nella sua prassi quotidiana il destino che ci aspetta, evitando di farne partecipi i cittadini e le forze economiche, si muove su una prospettiva temporale conseguentemente circoscritta, e alla lunga perdente.
Non è attrezzata a concepire progetti di lungo periodo che mettano in salvo durevolmente l’economia, la vita della città e il suo ambiente. Incapace com’è di traghettare interessi da rentier ormai sempre più anacronistici e illusori verso un destino economico differente, dimostra anche a livello locale il suo verticale fallimento. Sancisce la perifericità politica di Venezia in barba alle aspettative accarezzate, che la vorrebbero esempio resiliente per il mondo.
Tutto c’indicherebbe, invece, come una trasformazione sia quanto mai impellente e necessitata. Graduale, ben inteso, e che non sacrifichi possibilmente nessuno. Ma che sia capace di visione e metta fine a quella sorta di gatto che si morde la coda che ci condanna alla più pericolosa conservazione.
Nell’immagine d’apertura il ponte della Costituzione (Calatrava) @gp_santoro