Le mani nei capelli, il tagliando da cambiare

La morìa del turismo mette in ginocchio Venezia, stranamente bella come un tempo ma spopolata. Il morbo in qualche modo passerà, occorre lavorare perché passi anche l’overtourism e perché la città si apra a nuovi scenari.
ROBERTO ELLERO
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Quando terminerà l’emergenza virale, sarà ancora il turismo il motore trainante, unico, della città? Il vuoto di questi giorni ha restituito la città ai suoi abitanti. Non era quello che molti di noi veneziani desideriamo quando ci sentiamo sopraffatti dalle orde dei turisti? Già, ma finita la crisi, il vuoto di questi giorni dovrà pur essere riempito. Come? Da quali idee? Da quali progetti? Con un articolo di Claudio Madricardo ytali apre una discussione sul dopo-emergenza.

Bella, Venezia, nei giorni del virus. Specie quando il sole si fa largo tra le nuvole, illuminando scorci e panorami che i nostri occhi avevano dimenticato. Non fosse per le decine di migliaia di abitanti persi nel corso dell’ultimo mezzo secolo, parrebbe di essere tornati indietro nel tempo, una città quasi normale. E in quel quasi ci sta tutto lo straniamento di una bellezza un po’ artificiale, di una normalità soltanto apparente. Sogno o incubo, fate voi.

“Special price, special price!”: con antica baldanza il gondoliere si sgola per offrire a prezzo abbondantemente scontato il consueto giro in gondola. Gli sparuti turisti, ancora in buona parte orientali, circolano in prossimità degli stazi carichi di barche ormeggiate. Tirano generalmente dritto, badando alle mascherine. E il carnevale non c’entra. Pensano alla partenza probabilmente, al ritorno, mentre devono aver già fatto le valige, comunque invisibili, le centinaia e forse migliaia di piccoli commercianti cinesi che gestivano bar e negozietti di paccottiglia. Chiusi per improbabili ferie o per ancora più inverosimili manutenzioni. Qualcuno, timidamente, annuncia il “cedesi attività”, tradotto anche in ideogrammi. In fondo, era quello che molti veneziani auspicavano, certo non così. Perché chiusi rimangono anche cinema e teatri, i tanti luoghi della cultura che di settimana in settimana prorogano le sospensioni di legge, vuoti i vaporetti e i ristoranti superstiti, saracinesche abbassate per l’infinita sequela di finte osterie sino a ieri traboccanti di cicchetti tirati in serie.

Non resta che passeggiare, un caffè al chioschetto, la speranza che starnuti e colpi di tosse non intervengano a turbare la pace di un silenzio a suo modo assordante. Mica solo a Venezia, intendiamoci, ma qui forse più che altrove, per via di quell’unicità che sappiamo e che ha legato quasi indissolubilmente la realtà all’immagine, l’immagine al mito. Nostra signora degli schermi, titolavamo un nostro libretto di osservazioni cinematografiche qualche mese fa. E ora l’icona fa il giro del mondo in versione una volta di più mortifera. Bella ma non proprio normale, ancora affascinante ma più che mai perturbante. Il perturbante di psicanalitica memoria, il riconoscibile non del tutto estraneo ma innaturale, destinato a generare angoscia. Qualcosa che in fondo era già noto ma che si è preferito rimuovere. E il ritorno del rimosso produce mostruosità, quasi come il sonno della ragione.

Letteratura di nuova appendice, si dirà, e mica avete tutti i torti. Resta il fatto che coronavirus oggi e acque alte eccezionali appena ieri mettono in ginocchio la città costruita negli ultimi decenni intorno all’overtourism, quella che si apprestava ad applicare la tassa di sbarco per contenere flussi evidenti ma stranamente sempre indeterminati. Da conteggiare con qualche diavoleria digitale quando sarebbero bastati quattro calcoli di buon senso. E s’era ben detto e ridetto che l’industria turistica è per sua natura fragile e volubile. Che nessuna città può campare di una sola attività. Che la rendita, la sola rendita, è nemica di qualsiasi possibile sviluppo, redditizia a termine. E s’erano dette tante altre cose, a dire il vero: occhio agli equilibri della laguna, agli interramenti e agli scavi dei canali (che sono altra cosa dalla pulizia), alle soluzioni pseudo salvifiche che mangiano soltanto soldi, ai gigantismi fuori scala. E giù a lapidare i blasfemi della decrescita felice. E ora che la decrescita rischia di farsi infelice?

La Grande Venezia, giusto cent’anni fa: le fabbriche a Marghera e il turismo in città, veicolato dalla cultura. È storia nota e per certi versi esaltante. Solo che la Regina torna spesso a farsi Mendìca, per dirla con l’immagine più volte utilizzata dallo storico Mario Isnenghi negli incontri di studio organizzati di recente a Ca’ Foscari, intorno alle fortune e alle sventure della Venezia novecentesca. E ora, nuovo secolo e nuovo millennio, pare che stia arrivando il conto più salato, l’apice della mendicità, probabilmente. Soldi dal governo, soldi dall’Europa, soldi dal Padre Eterno. E vai con l’Iban! Chiaro che non può funzionare così, ovvio che ci vorrebbero altri scenari e ragionamenti, ma la voce grossa del questuante vale la musicalità di un canto notturno, per di più stonato e incautamente euforico.

Apocalittici o integrati? Quando il morbo infuria non c’è partita, con buona pace di Umberto Eco che scriveva in altri tempi e contesti. E ragionevolezza vorrebbe che certe diagnosi, sino a ieri trattate con sufficienza o addirittura disprezzo, fossero rimesse all’ordine del giorno. Abbozzando pure qualche prognosi: la cultura – a cominciare dalla Biennale – non più soltanto vetrina, il ripopolamento programmato in forza di nuove funzioni e di nuovi investimenti, anche pubblici. E le nuove funzioni declinate secondo le vocazioni proprie, possibili e sostenibili di Venezia: dall’insediamento di agenzie internazionali di operativa rappresentanza alle produzioni immateriali dell’era digitale, dall’ampliamento della ricerca universitaria (possibilmente in tandem con Padova, non in concorrenza) alle nuove scommesse di sopravvivenza in epoca di cambiamenti climatici, qui più tangibili che altrove, prima che ondate progressive e sempre più violente ci sommergano definitivamente. Ecco che il tema del nuovo possibile sviluppo si combina con la salvezza della laguna e di Venezia, ben oltre i sogni turistici e industriali del secolo scorso, forieri di quel che sappiamo, nel bene così come nel male. 

La stazione Santa Lucia (@sutto_mauro)

Crescita del morbo permettendo, prima o poi s’andrà a votare per il Sindaco: schei, comunque e in ogni modo, o l’avvio di un ciclo diversamente orientato? Ancora e sempre mendicanti o nuovamente padroni del nostro destino? E non si dice soltanto la Venezia storica insulare, l’intera area metropolitana piuttosto. Ve n’è traccia nei programmi di chi si dichiara alternativo al fronte dei schei? Forse ma ancora con troppa timidezza, occorre osare di più, marcare la discontinuità con le politiche lassiste che non nascono con l’attuale Sindaco e la sua grandeur da quatro schei, trovandovi peraltro compiaciuta aderenza. E certamente non sarà il caso di demonizzare il turismo ma di governarlo sul serio, nel quadro di una diversificazione delle attività dove esso stesso abbia modo di armonizzarsi senza il peso di una economia a senso unico.

Mettersi le mani nei capelli. Scopro che i miei sono un po’ lunghi e allora vado dal barbiere: il mio è bravo e fortunatamente taciturno, l’ideale per una mezz’oretta di pace. La mia faccia davanti allo specchio, mi rifletto per riflettere, senza il pericolo di affogare, una specie di transfert piuttosto. A capelli tagliati, chiedo come va. Non così male, i clienti di sempre, che abitano nei paraggi, mica venivano i turisti a tagliarsi i capelli. Artigiani, categorie in via di estinzione, a prescindere dal virus. Che prima o poi finirà, lasciandoci le macerie del turismo che fu. Vogliamo finalmente cominciare a cambiare il tagliando per le prossime corse?

Le mani nei capelli, il tagliando da cambiare ultima modifica: 2020-03-07T16:38:16+01:00 da ROBERTO ELLERO
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