Negli ultimi dieci anni, la comunità LGBT americana ha avuto tanti motivi per cui festeggiare. In una sola generazione, la questione dei matrimoni gay e, soprattutto, del riconoscimento e dell’accettazione delle persone omosessuali non divide più il paese come una volta. Due americani su tre si dicono oggi a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, quando, appena nel 1996, solo un americano su tre era d’accordo.
La percezione della società americana è cambiata in modo molto rapido: lo testimonia il fatto che quest’anno un candidato dichiaratamente gay, Pete Buttigieg, per la prima volta ha brillato nella corsa alla Casa Bianca.
Ma non bisogna abbassare la guardia: in un’America sempre più polarizzata, gli omofobi cercano di rialzare la testa, sventolando il diritto alla libertà d’espressione (intesa nel senso più ampio del termine, a partire dalla libertà di culto) come un manganello per riportare indietro le lancette del tempo.
Le scuole private religiose sono, in questo senso, uno dei luoghi in cui la discriminazione è più difficile da eradicare. Negli Stati Uniti non esiste una legge federale che protegge esplicitamente gli studenti LGBT. C’è il titolo IX del Civil Rights Act, che impone agli istituti scolastici che ricevono fondi statali di impedire ogni discriminazione sessuale nei confronti dei loro studenti, ma esso non si applica alle scuole gestite da organizzazioni religiose, nella misura in cui questo va contro i “principi cardine dell’organizzazione”.
Per colmare il vuoto legislativo a livello federale, molti stati hanno adottato politiche proprie per impedire la discriminazione nei confronti degli studenti LGBT, ma queste si applicano solo agli istituti pubblici.
Così, in questo contesto, può ancora accadere che la Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni – la Chiesa mormone – ribalti la decisione di un’università privata di cui è proprietaria, la Brigham Young University (BYU), nello Utah, che qualche settimana fa aveva allentato il suo notoriamente severissimo codice d’onore, che conteneva il divieto di “comportamenti omosessuali di tipo romantico”.
Secondo la precedente versione del codice d’onore della BYU – università da dove tra l’altro è passato anche l’ex candidato repubblicano alla presidenza, Mitt Romney – le persone dello stesso sesso non potevano abbracciarsi, tenersi per mano o baciarsi in pubblico, pena l’avvio di un’indagine interna e l’espulsione dalla scuola.
Questo paragrafo è stato eliminato due settimane fa, scatenando l’entusiasmo degli studenti LGBT della scuola, che per un momento hanno creduto di potersi abbracciare o tenersi liberamente per la mano nel campus.

La decisione sembrava coerente con la riflessione in atto nella chiesa mormone, che lo scorso aprile aveva portato alla concessione del battesimo ai figli di coppie LGBT, annullando la decisione precedente, del 2015, che stabiliva che i genitori gay, bisessuali o transgender erano da considerarsi apostati e i loro figli non potevano quindi essere battezzati.
In ogni caso, la doccia fredda per gli studenti LGBT della BYU non si è fatta attendere: dopo solo due settimane, il 4 marzo, Paul V. Johnson, il commissario della Chiesa mormone, ha inviato una lettera a tutti gli studenti e al personale della scuola, in cui precisa che il cambiamento del linguaggio del codice d’onore ha condotto a un’interpretazione erronea.
Un elemento fondamentale della nostra dottrina è che il matrimonio tra un uomo e una donna è ordinato da Dio e che la famiglia è centrale nel piano del creatore per il destino eterno dei suoi figli. Il comportamento omosessuale romantico non può portare al matrimonio eterno ed è perciò incompatibile con i principi inclusi nel codice d’onore,
si legge nella lettera, che condanna gli studenti LGBT della BYU a tornare a nascondersi.
Sempre dallo Utah, però, viene anche una buona notizia. All’inizio di quest’anno, lo stato a maggioranza repubblicana, tradizionalmente molto conservatore, ha bandito l’impiego per i minori della cosiddetta “terapia di conversione” dell’orientamento sessuale. Si tratta di una serie di pratiche pseudoscientifiche diffuse in almeno ottanta paesi al mondo e mirate a convertire un gay o una lesbica in eterosessuale.
Queste pratiche “inutili, inefficaci e pericolose” – così le hanno descrivono le principali associazioni di medici e psichiatri americani – poggiano sulla convinzione che l’omosessualità sia una malattia e che quindi vada curata, attraverso vere e proprie torture mentali e fisiche, che includono sedute di psicoterapia e ipnosi ma anche l’applicazione di elettroshock su mani e/o genitali e la somministrazione di farmaci che inducono nausea, vomito e paralisi mentre vengono mostrate al paziente immagini omoerotiche.
Secondo uno studio dell’Università della California, sarebbero almeno 698mila gli adulti in America a essere passati attraverso questa “terapia”, più della metà quando erano adolescenti.
Per fortuna, però, sono sempre di più anche i giovani che scamperanno a questo orrore: quest’anno, dopo lo Utah, anche la Virginia ha scelto di mettere al bando le terapie di conversione dedicate ai minori e diventare così il ventesimo stato, il primo nel sud del paese, ha introdurre questo importante divieto.
Martedì 3 marzo il governatore dello stato, il democratico Ralph Northam, ha messo la firma sul decreto, dopo che questo per anni era stato bloccato dai repubblicani.
Northam, che ha un passato da neurologo pediatrico, ha annunciato così la firma sul divieto, che entrerà in vigore il 1° luglio:
La terapia di conversione non si basa solo su una discriminatoria “scienza spazzatura”, ma è pericolosa e causa danni permanenti ai giovani. Nessuno dovrebbe essere costretto a sentirsi male per ciò che è, e questo è particolarmente vero quando si parla di un minore.

La discriminazione però non si batte solo a colpi di leggi, ma anche attraverso una maggiore visibilità delle persone LGBT. Da questo punto di vista, con il suo exploit alle primarie del partito democratico, Pete Buttigieg s’è imposto senza dubbio come un modello di riferimento, capace di dare coraggio ai membri della comunità omosessuale e, al contempo, di migliorare la percezione che gli americani hanno di gay, lesbiche e transgender.
Il modo in cui Buttigieg è riuscito a condurre la sua campagna è la prova che in questo momento il mondo LGBT è più forte dei suoi nemici. Nelle affollatissime primarie per il Partito democratico, il trentottenne ex sindaco di South Bend, una città dell’Indiana con poco più di centomila abitanti, inizialmente sembrava avere poche chance per emergere. Molti erano i candidati meglio noti a livello nazionale: Joe Biden, Bernie Sanders, Kamala Harris, Julián Castro, Amy Klobuchar, Elizabeth Warren.
Inoltre, il fatto di essere gay non sembrava certo giocare a suo favore: basti pensare che tra i cinquecentotrentacinque membri del Congresso degli Stati Uniti solo dieci sono dichiaratamente LGBT (e questa è una cifra record nella storia degli Usa). Inoltre, nessuno candidato dichiaratamente gay aveva mai cercato prima, in maniera credibile, di lanciarsi nella corsa alla Casa Bianca (il repubblicano Fred Karger ci provò nel 2012 ma il suo tentativo passò inosservato al grande pubblico).
Nonostante queste premesse, Buttigieg è riuscito ad attirare l’attenzione su di sé e a imporsi nella prima tappa delle primarie democratiche, in Iowa, e ad arrivare secondo, poco giorni dopo, in New Hampshire. Un successo destinato a essere ricordato: per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un uomo dichiaratamente omosessuale s’è affermato come frontrunner nelle primarie presidenziali.
E poco conta se nelle tappe successive, in Nevada e in South Carolina, la sua candidatura non è riuscita a decollare e Pete è stato obbligato a uscire dalla corsa. Ciò che importa è che la campagna di Buttegieg dimostra che il pregiudizio è venuto meno, che essere gay non è né un punto a favore né un handicap per un candidato alla presidenza.

In questi mesi Buttigieg ha messo a tacere gli omofobi. Esemplare è stato il modo in cui ha risposto al controverso conduttore radiofonico Rush Limbaugh – grande sostenitore di Donald Trump – colpevole di aver dichiarato che l’America
non è ancora pronta per essere guidata da un uomo gay che bacia il suo marito sul palco.
L’ex sindaco di South Bend ha reagito dicendo che perlomeno il suo matrimonio con un uomo non ha mai implicato il pagare una pornostar per mettere a tacere il tradimento della propria moglie.
Il riferimento è ai 130mila dollari che Trump avrebbe dato alla pornostar Stormy Daniels per evitare che la loro storia venisse allo scoperto.
Tuttavia, l’essere il primo candidato uomo che bacia il marito in diretta nazionale non è bastato a molte persone LGBT, che hanno rimproverato a Buttigieg di non essere “abbastanza gay”, di comportarsi come un eterosessuale o di non prendere sufficientemente in conto nelle sue proposte i bisogni della comunità. È nato addirittura un gruppo LGBT, “Queer against Pete”, esplicitamente finalizzato a boicottare la sua candidatura. Inoltre, il fatto che il candidato democratico abbia fatto coming out solo in età adulta, a trentatré anni – nel 2015, quanto la Corte suprema negli Stati Uniti legalizzò i matrimoni tra persone dello stesso sesso in tutto il paese – è stato interpretato da alcuni come un segno di codardia o, perlomeno, di calcolo politico.
Insomma essere gay non è abbastanza per ottenere il sostegno della propria comunità. Si può addirittura sostenere che in Iowa Buttigieg è andato forte nonostante il voto gay, che ha premiato soprattutto Bernie Sanders, il quale ha raccolto il 42 per cento dei consensi tra gli elettori LGBT, mentre mayor Pete è rimasto fermo al 22 per cento.
L’elettorato LGBT è un importante bacino elettorale per il Partito democratico: basti pensare che nel 2016, il 78 per cento dei membri della comunità LGBT votò per Hillary Clinton e ben l’82 per cento sostenne i candidati democratici nel voto per il rinnovo del Congresso. In occasione delle elezioni di quest’anno, si stima che nove milioni di persone LGBT sono iscritte nei registri elettorali. Di queste, il cinquanta per cento sarebbe affiliato ai democratici, il quindici per cento ai repubblicani, il ventidue per cento sarebbe indipendente e il tredici per cento ancora incerto.
Secondo un sondaggio realizzato da NBC News, durante il recente super martedì – quando le primarie democratiche si sono tenute in quattordici stati – gay, lesbiche e transgender hanno costituito addirittura il nove per cento di tutto l’elettorato democratico. Di questi, il 39 per cento ha votato per Bernie Sanders e il ventun per cento per Elizabeth Warren: ciò vuol dire che sei elettori LGBT su dieci hanno optato per i candidati più progressisti.

Ciò che premia Sanders è innanzitutto la sua lunga storia a sostegno dei diritti LGBT: già nel 2000, in quanto membro del Congresso, Bernie sosteneva le unioni tra persone dello stesso sesso nel “suo” Vermont, mentre in ancora quattordici stati esistevano leggi che punivano la sodomia (solo nel 2003 un verdetto della Corte suprema ha invalidato le leggi sulla sodomia in Alabama, Carolina del Nord, Carolina del Sud, Florida, Idaho, Kansas, Louisiana, Michigan, Mississippi, Missouri, Oklahoma, Texas, Utah e Virginia).
Inoltre, sempre secondo il sondaggio di NBC News, l’affinità tra Sanders e la comunità LGBT sarebbe dovuta anche a una sintonia ideologica: gli elettori LGBT che hanno partecipato al super martedì costituiscono infatti un gruppo particolarmente liberal, progressista. Il 46 per cento di loro si definisce “molto liberal”, il 32 per cento “abbastanza liberal” e solo il 18 per cento si considera “moderato”. Si tratta di posizioni che differiscono in maniera importante rispetto al resto dell’elettorato democratico del super Tuesday, che si dice per il 37 per cento “abbastanza liberal”, per il 32 per cento “moderato”, per il 23 per cento “molto liberal” e per il nove per cento “conservatore”.
In ogni caso, qualunque sia il candidato democratico che uscirà dalle primarie, è molto probabile che l’elettorato LGBT, che è in media più giovane, progressista e etnicamente plurale rispetto al resto della popolazione, lo sosterrà nella sfida contro Donald Trump.
Sia Trump sia il suo sfidante dovranno tenere conto o fare i conti – dipende dai punti di vista – con la rivoluzione avviata da Pete Buttigieg. La campagna di Buttigieg ha cambiato il modo in cui i media e gli elettori vedono un politico gay e, più in generale, i membri della comunità LGBT. In America come nel resto del mondo esistono infatti ancora tante persone che non conoscono persone dichiaratamente omosessuali e questo contribuisce a perpetrare un atteggiamento di chiusura e degli stereotipi negativi.
Dando la sua sessualità in pasto al pubblico e ai media, baciando suo marito davanti alle folle e alle telecamere, Buttigieg ha contribuito a dare visibilità e voce alle persone omosessuali e a sensibilizzare la gente di fronte alle difficoltà che queste si trovano a vivere.
Da questo punto di vista, il momento più alto della sua campagna è stato forse quando, durante un comizio a Denver, un giovane ragazzo di nove anni gli ha chiesto di aiutarlo a fare coming out.

Il ragazzo in questione, Zachary Ro, s’è rivolto così al candidato democratico:
Grazie per essere così coraggioso. Potresti aiutarmi a dire al mondo che sono gay anch’io? Mi piacerebbe essere coraggioso come te.
La risposta di Pete racchiude tutto il senso rivoluzionario della sua campagna:
Non sarà sempre facile, ma ce la farai perché tu sai chi sei. Quando sai chi sei, hai un centro di gravità che ti permette di restare in equilibrio anche quando intorno a te c’è il caos. E poi, non dimenticare, chi ti sta guardando potrebbe scegliere di essere un po’ più coraggioso perché tu sei stato coraggioso. Quando ancora cercavo di capire la mia vera identità, temevo che ciò che sono mi avrebbe impedito di fare la differenza. E invece è esattamente l’opposto: ciò che sono è una grande parte della differenza che sto facendo.
Ci vuole coraggio per essere l’esempio che si avrebbe voluto avere. Grazie al coraggio di Pete Buttigieg, nessuno nella comunità LGBT americana dovrà temere in futuro che la sua sessualità sia un ostacolo insormontabile nella corsa alla Casa Bianca.
Ritirando la sua candidatura, Pete si è detto molto fiero di aver dimostrato che un uomo dichiaratamente gay può arrivare così in alto e ha auspicato che la sua storia sia di incoraggiamento per tutti quei bambini che oggi si sentono diversi.
Uno di loro potrebbe essere il primo presidente gay degli Stati Uniti.

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