Nel finale di molti film catastrofisti vediamo i pochi eroi sopravvissuti che si aggirano per la città vuota e devastata, ma liberata dagli invasori alieni o dagli effetti della bomba, o dalla furia degli elementi, già pensando ad un nuovo inizio e alla ricostruzione della propria civiltà. Un po’ forzato, ma quasi pertinente il paragone con i pochi eroi, circa cinquantamila, sopravvissuti agli tsunami degli ultimi venti anni, che si aggirano in una Venezia vuota, non solo delle masse dei turisti che occupavano la città alcune ore della giornata, ma vuota dei suoi abitanti che non bastano ad animare le calli e i campi o a sostenere le attività commerciali o culturali.
Quest’effetto immediatamente e visivamente percepibile rivela, o dovrebbe rivelare a chi ha responsabilità o a chi intende assumerle nella nostra città, quali sono i due problemi strutturali che ne minacciano mortalmente la vita.
E sono due problemi elementari che costituiscono la base, anche costituzionale, di ogni aggregato sociale: mi riferisco ai problemi della casa e a quelli del lavoro.
A Venezia non ci sono più abitanti (anche) perché è impossibile trovare una abitazione a un prezzo ragionevole e si sono pesantemente ridotte le opportunità di lavoro se non quello servile e precario indotto dal turismo.
Ciò è conseguenza della mercificazione selvaggia a cui è stata sottoposta la città, soprattutto dopo l’ultima tornata elettorale quando, all’incapacità di contrapporvisi della/e amministrazione/i precedente/i, è subentrata la riduzione di Venezia a merce come unico valore che guida i comportamenti di chi ha poteri decisionali.
Per ripartire bisogna ribaltare radicalmente questa visione.
Ci sono molti approcci diversi che possono essere messi in campo per operare questo ribaltamento: eccone uno.
A Venezia i problemi della casa e del lavoro sono strettamente intrecciati al problema del turismo.
In città si va drammaticamente esaurendo la possibilità materiale di reperire abitazioni in cui vivere per il fatto che la trasformazione impetuosa e inarrestabile delle abitazioni in residenze turistiche (Airbnb, affittacamere, bed&breakfast fasulli) ha ormai sottratto quasi del tutto la possibilità di trovare un’abitazione con un canone di affitto accettabile. E questo è un fenomeno che sta sempre più interessando anche la terraferma.
Nello stesso tempo tutte le attività produttive e commerciali legate alla vita quotidiana sono state sistematicamente o espulse per la concorrenza sugli spazi (negozi, magazzini, laboratori) fatta dalle attività rivolte ai turisti, o soffocate dalla mancanza di una adeguata massa di residenti.
E senza i residenti Venezia non può essere una città. Se poi si facesse una analisi rigorosa della struttura degli abitanti del centro storico in termini di età della popolazione, di attività svolte, di capacità produttive e innovative il risultato sarebbe ben più disastroso della stessa esiguità del numero assoluto dei residenti.

Dunque la prima cosa da fare concretamente è limitare la possibilità di utilizzare il patrimonio edilizio, e in particolare quello abitativo, a fini turistici.
Ciò significa fare una legge che subordini tale possibilità all’ottenimento di una licenza da parte del Comune. Sarà il Comune a stabilire quanta parte del patrimonio abitativo della città potrà essere utilizzato per affitti brevi e quanta parte deve rimanere a disposizione degli abitanti presenti e soprattutto futuri di Venezia.
Limitando l’affittanza turistica di una parte significativa di tale patrimonio, si libererebbero ad un uso residenziale permanente migliaia di edifici che si stabilizzerebbero su canoni di affitto accessibili. Molte città nel mondo che hanno i medesimi problemi hanno seguito questa strada con successo per garantire una offerta di abitazioni adeguata per i propri cittadini: perché non Venezia?
E ancora. Il programma delle due ultime amministrazioni di sinistra avevano un punto in comune: la realizzazione di cinquemila alloggi in social housing, vale a dire di proprietà pubblica e affittati a residenti ad un canone pari alla metà dei canoni di mercato. Si tratta di una politica che può essere realizzata a costo zero da parte dell’amministrazione… sapendo come si fa. Evidentemente non lo si sapeva e non si è cercato di farselo spiegare da chi lo sapeva, così di abitazioni in social housing, promesse nei programmi, non ne è stata realizzata neanche una.
La limitazione degli affitti turistici e la realizzazione di un programma di social housing potrebbe liberare migliaia di alloggi accessibili per chi volesse abitare a Venezia: a partire dagli studenti ormai espulsi dal centro storico e non solo.
Ragionamenti analoghi potrebbero essere fatti per gli spazi da dedicare alle attività produttive, ma qui mi fermo.
Il problema del lavoro è l’altra faccia della medaglia. Al di là della cosiddetta crisi di Porto Marghera, dove pure persistono importanti attività produttive, e non sottovalutando l’importanza delle grandi realtà economiche rappresentate dall’aeroporto e dal porto (a cui peraltro si vuole oggi infliggere un duro colpo eliminando tutto il settore produttivo legato al sistema del traffico crocieristico), l’economia veneziana è ormai virata sull’economia del turismo segnata da lavori di bassa qualità e dal precariato e che porta fuori dalla città il plusvalore generato dallo sfruttamento del patrimonio culturale veneziano.
Eventi particolari, ma non eccezionali (torri gemelle, acque alte, coronavirus) dimostrano la debolezza di questo modello il quale, in ogni caso, se fa sopravvivere la città, ne deprime la ricchezza e l’articolazione sociale oltre che la qualità della vita.
Nel corso della crisi dell’ultimo decennio alcuni settori dell’economia sono emersi a livello internazionale come trainanti per il futuro e hanno risentito minimamente o non hanno risentito affatto della congiuntura negativa: tra gli altri i settori economici legati alla cultura e al patrimonio, tutti quelli legati all’ambiente e quelli legati al turismo.
Sono settori nei quali Venezia già eccelle o ha tutte le caratteristiche per eccellere: l’ambiente, il patrimonio, la cultura, che presuppongono un sistema di relazioni intrecciato e peculiare all’interno della comunità cittadina e tra di essa e coloro che nella città convergono temporaneamente, sono esattamente le ricchezze su cui dovrebbero fondarsi nuovi modelli di sviluppo di Venezia.
È chiaro che una città che punti le sue chances e si attrezzi per immergersi in una visione che faccia del binomio sostenibilità/cultura, declinato in tutte le sue articolazioni possibili, la sua strategia per il futuro può cambiare il modo di vivere dei propri abitanti. E se questa città è Venezia, può contribuire a lanciare un segnale importante che va molto al di là dei propri confini.
Tutto ciò che va sotto la dizione “difesa dell’ambiente” è oggi da un lato l’obiettivo culturale e politico sul tappeto più avanzato e più coinvolgente, dall’altro è oggetto di quella che si rivela come l’economia più promettente per il futuro.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha lanciato un piano europeo per l’ambiente da cento miliardi di euro: si tratta di una occasione formidabile per Venezia per candidarsi come leader di questo programma sviluppando un progetto integrato che riguardi tutti gli aspetti della vita cittadina verso una città integralmente sostenibile. Un progetto che proceda sul doppio binario industria e clima, nell’ottica di una strategia di crescita, della creazione di nuovi posti di lavoro, di impulso all’innovazione. E una occasione per le forze progressiste di affermare che non è una politica ambientalista quella che si accanisce sulla difesa dello status quo nella speranza che la storia torni indietro, ma quella che propone progetti innovativi che cambiano in meglio la realtà.
Su questo tema la città può mirare al massimo e promuovere attività di altissimo valore aggiunto capaci di rappresentare un orizzonte lavorativo e culturale per i nostri giovani e per migliaia di giovani intelligenze attratte da quanto propone la città.
Su come trasformare il turismo da fattore di degrado a fattore di sviluppo di qualità il dibattito è aperto.
Innanzitutto occorre che Venezia smetta di usare il turismo come i paesi del terzo mondo usano le proprie risorse naturali che vengono estratte da lavoratori sottopagati, vendute al minimo dei costi e esportate per produrre il vero valore nei paesi di destinazione.
Occorre operare su due piani.
Il primo è favorire nella città lo sviluppo di lavori di qualità (editoria, musica, informazione, offerta culturale, mercato dell’arte e non delle pizze e così via) rivolti ai turisti che non sono una massa di persone indifferenziate, ma al cui interno si articolano esigenze diverse e complesse.
Un esempio? Si potrebbe incominciare dall’M9 riconvertendo le stesse impostazioni tecnologiche da una velleitaria illustrazione della storia del Novecento ad una concreta illustrazione della città di Venezia, della sua storia, dei suoi problemi e facendolo diventare una tappa obbligata e desiderata preliminare ad ogni visita della città.
E riconvertire l’M9 in un “urban centre”, luogo privilegiato anche per i cittadini veneziani d’informazione, di discussione e di elaborazione delle trasformazioni urbane e di tutti i progetti che riguardano Venezia.
Poi occorre smettere con le affermazioni di volere contrastare il fenomeno turistico praticando nello stesso tempo scelte che vanno nella direzione opposta. Il compound di caserme per turisti low cost alla stazione di Mestre che produrrà dai due a tre milioni di pendolari su Venezia in più all’anno e avrà l’effetto urbanistico di aumentare in modo insopportabile la pressione sui mezzi di trasporto, di compromettere per sempre aree strategiche per il futuro metropolitano di Venezia e di realizzare un settore della città precluso di fatto ai cittadini veneziani, è l’esempio più clamoroso sia dal punto di vista realizzativo che dell’approccio culturale sottostante.
Occorre dare seguito agli studi che fissano un tetto giornaliero di presenze compatibili in città e attivare una politica del “numero chiuso” introducendo la regola della prenotazione per l’accesso a Venezia.

Infine va istituita una vera “Carta dei Servizi” di cui debbono essere dotati tutti i visitatori, che offre servizi (musei, trasporti e altro) a fronte di un corrispettivo la cui redditività va totalmente riversata su chi vive a Venezia. In mancanza di questa Carta i medesimi servizi non verranno erogati o lo saranno a un prezzo politicamente alto.
I temi accennati in questo articolo, assieme ad altri che qui non ho potuto nemmeno nominare che sono poi i temi del governo e del futuro della città, non ammettono in chi governa incompetenza, dilettantismo, banalità populiste, o intrecci con interessi opachi, ma richiede un livello alto di capacità di immaginazione, di elaborazione culturale, di conoscenza tecnica, di esperienza amministrativa.
E necessita di strumenti adeguati per approfondire la conoscenza di un territorio e di una realtà più complessa nazionale e internazionale all’interno della quale Venezia si muove, che oggi non ci sono (più) e che vanno costruiti.
Per fare un esempio. Lo scioglimento del Coses, un’agenzia in cui si studiavano sistematicamente i problemi del territorio veneziano, motivata dal contenimento dei costi, è stata un’ingiustificabile operazione di sciatteria culturale: una struttura di questo genere, eventualmente in collegamento con spin-off delle nostre università, va assolutamente ricostruita per fornire ai decisori le conoscenza su ciò intorno a cui si deve decidere.
I sopravvissuti che si aggirano nella città vuota hanno grandi occasioni davanti per impedire che gli alieni ritornino.

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