Nonostante il persistere di schermaglie occasionali, il cessate il fuoco raggiunto tra Erdoğan e Putin il 5 marzo sembra reggere. La sospensione delle ostilità permette di soffermarsi sulla tragedia umana in atto. Nella contesa provincia siriana di Idlib vi sono tre milioni di abitanti e un milione di sfollati intrappolati tra l’esercito di Assad e le milizie filo-turche, mentre al confine greco-turco continuano ad arrivare migranti con la speranza di raggiungere l’Europa.
La situazione a Idlib ha cominciato a peggiorare quando nel dicembre scorso il regime siriano ha intrapreso un’offensiva contro l’ultima zona ribelle, dimezzando in poco tempo l’area sotto il controllo delle milizie filo-turche. L’intesa di Sochi del settembre 2018 è rimasta lettera morta.
L’accordo aveva creato una zona di de-escalation per sospendere le ostilità, e aveva imposto alla Turchia di disarmare e smantellare formazioni jihadiste attive nella zona, stabilendo al contempo dodici postazioni d’osservazione turche. L’affermarsi a Idlib di Hayat Tahrir al-Sham, gruppo con legami ad al-Qaeda, e l’inadempienza della Turchia hanno fornito il pretesto per l’offensiva del regime, che, dopo aver riconquistato l’autostrada M5 Aleppo-Damasco, ha mosso verso la M4 Latakia-Aleppo.

Vedendo i ribelli in difficoltà, la Turchia ha fornito loro un sostegno più concreto, bombardando posizioni del regime e abbattendone due elicotteri, velivoli prima incontrastati nella no-fly zone imposta dai russo-siriani. Grazie al supporto turco, il 27 febbraio l’opposizione ha riconquistato la cittadina di Saqareb, posta strategicamente all’incrocio delle due autostrade M4 e M5, e tuttora al centro degli scontri.
La risposta del regime non si è fatta attendere: lo stesso giorno un attacco aereo russo-siriano ha causato la morte di 33 soldati turchi.
La riunione d’emergenza convocata tra i vertici turchi ha puntato il dito unicamente contro Assad (Mosca stessa ha negato qualsiasi coinvolgimento nell’attacco), attivando l’Operazione “Scudo di Primavera” il primo marzo, allo scadere di un ultimatum al regime il 28 febbraio. L’operazione, intesa come una spedizione punitiva contro il regime di Assad, aveva anche l’obiettivo di risollevare le sorti dell’opposizione prima del vertice del 5 marzo.
La presenza militare turca a Idlib è aumentata fino a raggiungere circa 12.000 uomini, introducendo inoltre l’utilizzo di droni nella no-fly zone. Il bilancio è stato di centinaia di soldati lealisti uccisi, decine di carri armati distrutti e di tre aerei da guerra siriani abbattuti.
La Turchia ha inoltre chiesto agli americani supporto aereo e sistema anti-aereo Patriot, richiesta paradossale se si considera che la Turchia aveva inasprito le relazioni con gli Stati Uniti per aver acquistato l’analogo sistema russo S-400.
La seconda conseguenza del raid siriano del 27 febbraio è stata la decisione di Erdoğan di “aprire i confini” per permettere ai migranti siriani di giungere in Europa. Erdoğan non vuole farsi carico di un altro milione di migranti da Idlib (la Turchia attualmente ospita oltre quattro milioni di rifugiati, il più alto al mondo), sperando quindi che in molti si dirigano verso occidente.
Da allora, quasi 30.000 hanno raggiunto il confine greco, mentre circa 2000 hanno compiuto la traversata dalle coste anatoliche alle isole greche. La Grecia ha sospeso per un mese nuove richieste d’asilo (anche se ciò è contrario a leggi europee e internazionali), ha blindato i confini, dispiegando anche l’esercito e negando a chiunque l’accesso. Negli scontri che ne sono seguiti si è registrata la prima vittima siriana.
Mentre Erdoğan si è rifiutato di partecipare a un vertice trilaterale greco-turco-bulgaro proposto a Sofia dal premier bulgaro Boris Borisov, secondo il ministro dell’interno turco Soylu sono oltre 120.000 i migranti che hanno passato la frontiera: cifre gonfiate e poco credibili, ma che mirano a intimorire l’Europa e ad appagare l’opinione pubblica turca, ormai stanca della presenza siriana.

Oltre il sessanta per cento dei turchi è infatti ostile nei confronti degli “ospiti” siriani, mentre circa il 65 per cento è a favore dell’intervento a Idlib. Indipendentemente dallo schieramento politico, il popolo turco è molto nazionalista e appoggia le forze armate. La nazione è rimasta profondamente scioccata dalle perdite riportate negli attacchi del 27 febbraio (che hanno portato a circa sessanta i caduti turchi da gennaio) e per giorni ha portato il lutto, mentre il governatore di Istanbul ha vietato retoriche anti-belliche fino al 10 marzo.
L’incontro fra Putin ed Erdoğan del 5 marzo a Mosca (per il quale era inizialmente prevista la presenza anche di Angela Merkel e Emmanuel Macron, ma poi rimasto bilaterale per volere del leader russo), oltre al cessate il fuoco in vigore dal giorno seguente, ha stabilito un corridoio di sicurezza lungo l’autostrada M4, lungo il quale verranno schierate pattuglie congiunte russo-turche a partire dal 15 marzo.
La sospensione delle ostilità permette inoltre alla Turchia di concentrarsi sul “fronte” greco, a cui è rivolta l’attenzione di diversi attori europei e della stampa internazionale.
In risposta alle misure adottate dalla Grecia, circa un migliaio di militari turchi sono stati inviati al confine per evitare respingimenti di migranti da parte delle autorità greche. Mentre le armi tacciono, il futuro dei rifugiati siriani, chi al confine con la Grecia chi bloccato nell’instabile tregua di Idlib, rimane drammaticamente incerto.

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