Se per cinquant’anni gli antibiotici, i vaccini e il petrolio ci hanno emancipato dalle nostre condizioni naturali, ci hanno anche sottratto la consapevolezza della materialità della nostra esistenza. L’epidemia di coronavirus e il riscaldamento globale fanno parte di un “sorprendente ritorno alla realtà” che ci impone di ripensare al nostro rapporto con l’ambiente.
In un articolo pubblicato sul New York Times il 18 aprile 1999, il semiologo italiano Umberto Eco prendeva la misura della straordinaria natura del suo tempo in cui se eri malato, era sufficiente prendere un antibiotico per una settimana per uscirne; se faceva freddo, tutto quello che dovevi fare era accendere il radiatore per riscaldarti e quando avevi fame, prendevi la macchina e andavi al supermercato. Perché tutto era diverso prima degli anni Cinquanta.
Sin dagli inizi dell’umanità, abbiamo avuto una probabilità su due di morire se avessimo preso una malattia virale o batterica. Ogni inverno faceva freddo da morirne e prima dell’arrivo di ogni primavera si attraversavano periodi di scarsità, quando non si trasformavano in carestie. Per Umberto Eco, dovremmo salutare l’invenzione degli antibiotici che si sono diffusi dopo la Seconda guerra mondiale, la vaccinazione obbligatoria che inizia nello stesso periodo e il petrolio che aumenta la produzione agricola che ci consente di nutrire un’umanità che ne trae beneficio per aumentare esponenzialmente di numero e raddoppiare le aspettative di vita.

Grazie agli antibiotici, ai vaccini e al petrolio, l’umanità aveva trionfato sul suo destino animale, si era in gran parte emancipata dalle sue fragili condizioni naturali e aveva aperto una nuova era, quella che il filosofo Jean-François Lyotard aveva chiamato “post-moderna”, dove le scienze umane trionfano sulle scienze naturali, le interpretazioni sociali sui fatti naturali, la soggettività sull’oggettività.
Quest’esplosione del potere umano sulla terra e sulla sua materialità, e di conseguenza la trasformazione del nostro ambiente – prima a nostro favore e oggi a nostro svantaggio a causa dell’inquinamento e del riscaldamento globale – ha una storia molto breve, nell’ordine di cinquant’anni, una goccia d’acqua nella storia umana iniziata migliaia di anni fa e che fino ad allora era stata in gran parte fatta solo di fame, freddo e malattia.
Oggi, tuttavia, di fronte al riscaldamento globale e all’epidemia di coronavirus, questo straordinario periodo della storia umana sembra essere alle nostre spalle.
Negli ultimi anni, anche la filosofia postmoderna nata negli anni Cinquanta ha assunto un aspetto molto datato.
In Why Has Critique Run Out of steam (Perché il pensiero critico si sta esaurendo), un articolo fondamentale pubblicato nel 2004 sulla rivista Critical Inquiry dell’Università di Chicago, il filosofo Bruno Latour ci interrogava già sulla validità del credo nietzschiano alla base del pensiero postmoderno,
Non ci sono fatti, ci sono solo interpretazioni,
che fu il terreno fertile attraverso cui, chi non crede nel cambiamento climatico, ha messo in discussione fatti scientifici e cercato altre interpretazioni oltre alle emissioni antropogeniche di CO2 per spiegare il riscaldamento globale.
Fondamentalmente, Bruno Latour ha messo in dubbio la negazione del pensiero francese allora dominante, quello degli strutturalisti, di attribuire al non umano (clima, e soprattutto malattie) una parte di responsabilità nel corso della storia umana. Rifiutare che l’uomo possa modificare il clima, rifiutare che il clima possa modificare la storia umana, non era solo il punto di vista di alcuni complottisti marginali.
Oggi si sta sviluppando un nuovo movimento filosofico che si sta allontanando dal relativismo postmoderno. Negli anni Ottanta, un grande storico strutturale come Emmanuel Le Roy Ladurie negò che il clima avesse qualsiasi reale interferenza nella storia umana e prese in giro il suo collega inglese Hubert Horace Lamb che, nello stesso periodo, predisse con eccezionale precisione il fenomeno del riscaldamento globale.
Secondo il ricercatore inglese, la Guerra dei Cent’anni, che vedeva regolarmente gli inglesi invadere la Francia e in particolare la regione di Bordeaux, era dovuta allo scoppio della piccola era glaciale che, dal Diciassettesimo secolo, aveva reso impossibile la coltivazione della vite in Inghilterra, spingendo questo popolo nella ricerca vitale del vino (le bevande analcoliche all’epoca erano inquinate) per conquistare la regione di Bordeaux.
Nella tradizione di H.H. Lamb, lo storico americano Jared Diamond segna la fine della visione antropocentrica strutturalista della storia umana aggiungendo virus e animali come agenti primordiali della nostra storia.
Oggi, un nuovo movimento filosofico si svolge sotto i termini di “realismo” o “nuovo realismo” e si allontana dal relativismo postmoderno, dalla decifrazione culturalista dello strutturalismo che non ha più cercato di comprendere le cause dei fatti umani ma solo i loro significati sociali. Maurizio Ferraris in Italia, Markus Gabriel in Germania, Jocelyn Benoist in Francia, ciascuno prende la misura dell’esistenza di cose al di fuori della coscienza umana e, in un certo senso, reintroduce nella filosofia l’importanza della parte non umana nella nostra vita e più in generale sulla nostra terra.

Piove, che ci siamo o no. Fa freddo in inverno, che ci piaccia o no. Il cambiamento è importante e il radicalismo di questo pensiero sta già iniziando a manifestarsi negli Stati Uniti dove uno storico come Timothy J. LeCain, nota che l’80 per cento delle cellule che compongono il corpo umano non sono umane (sono quelle dei batteri che ci abitano) e capovolge le gerarchie descrivendo l’essere umano come un semplice mezzo di locomozione per i microbi.
Questo pensiero provocatorio, per quanto estremo possa essere, è tuttavia necessario oggi nel dibattito che ravviva e rinnova il nostro pensiero di fronte alle attuali sfide del riscaldamento globale e all’episodio rivelatore dell’epidemia di coronavirus.
Infatti cosa sono questi due fenomeni se non uno straordinario ritorno alla realtà?
Vorremmo anche dire che questo è solo un ritorno alla normalità. In realtà abbiamo vissuto un tempo molto breve quando antibiotici, vaccini e petrolio ci hanno tratto eccezionalmente fuori dalle nostre condizioni naturali. A differenza di alcuni che accusano la modernità, e ancor più l’Illuminismo, di essere responsabili dell’attuale disastro, credo al contrario che la modernità e la tecnologia non abbiano nulla a che fare con esso. Ci hanno permesso di vivere più a lungo per cinquant’anni, per salvare i nostri bambini malati dalla morte, per darci cibo e per permetterci di trascorrere l’inverno.
Il disastro in arrivo non è nuovo. È stata la vita quotidiana degli esseri umani dall’alba dei tempi, ad eccezione dei nostri cinquanta ultimi anni.
Bisogna ricordare qui rapidamente che l’Illuminismo e i Moderni, dal Diciottesimo secolo agli anni Cinquanta, non sapevano nulla di antibiotici, che l’aspettativa di vita era ancora di quarant’anni all’inizio del Ventesimo secolo e che nel 1930 un architetto come Le Corbusier propose “solo” di radere al suolo i quartieri sovraffollati che erano stati definiti malsani a Parigi per evitare la diffusione del colera e della tubercolosi, che non sapevamo come curare.
E per chi ha qualche dubbio sulla possibile bellezza dei tempi difficili prima degli anni Cinquanta, va ricordato che la Rotonda, capolavoro di Andrea Palladio, costruita nel Sedicesimo secolo in Veneto, non deve le sue forme che a principi climatici: il caldo estivo, l’evacuazione dell’aria calda dalla sua cupola e l’ombra portata dai portici alle sue stanze.
Perché l’uomo è una scimmia nuda che sopravvive solo grazie alla tecnica, grazie al fuoco prima di tutto che ci ha riscaldato in inverno e reso possibile sopravvivere in climi naturalmente inabitabili del pianeta; il fuoco che ha esternato l’energia che ci spossava durante la digestione consentendo di cuocere il cibo. La tecnica ci ha dato vestiti, ripari, strumenti e ci ha permesso di vivere sulla Terra. Oggi, è ancora grazie alla medicina moderna che il 15 per cento dei casi gravi con coronavirus viene salvato con l’assistenza respiratoria in ospedale. Il disastro in corso non è nuovo… È stata la vita quotidiana degli esseri umani dall’alba dei tempi, ad eccezione dei nostri ultimi cinquant’anni.

Più della modernità, credo che sia la post-modernità che, se non è responsabile dell’attuale crisi, tuttavia ci ha privato della coscienza della materialità della nostra esistenza, che ha inaridito le nostre potenzialità naturali a favore delle sole potenzialità culturali e con ciò, i nostri mezzi di agire in un mondo che rimarrà sempre come non umano.
Non so esattamente come questa svolta “realistica” verrà tradotta negli altri campi, ma so come è già tradotta nell’urbanistica e nell’architettura. E non è in alcun modo una soluzione reazionaria, ma al contrario apre nuovi campi di emancipazione, libertà, immaginazione e rappresenta uno sbocco formidabile per un nuovo contratto sociale tra gli umani, ma anche con i non umani.
Quando non parliamo più di un luogo in città ma di “un’isola di benessere urbano”, quando non parliamo più di una prospettiva che punta verso una statua di Luigi sedicesimo ma di una brezza urbana per raffreddare ed evacuare l’inquinamento atmosferico prodotto dalle particelle sottili, quando non parliamo più del colore di un edificio da un punto di vista culturale (rosso significa pompieri, nero Rock n’Roll, tanto per esemplificare) ma di albedo, quando non facciamo più progetti edilizi secondo i principi del pubblico privato, ma secondo i livelli di umidità dell’aria e dei movimenti di convezione atmosferica, quando progettiamo la facciata di un edificio non più per motivi di prestigio e per la sua immagine, ma per isolare termicamente l’interno dall’esterno e ridurre così l’energia consumata, tutto ciò è in realtà solo un ritorno alla normalità.
Articolo apparso sulla rivista on line francese AOC il 10 marzo 2020
Traduzione di Roberto D’Agostino

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