La loro indicazione, compatta, quindici su quindici, è stata decisiva perché il capo dello stato israeliano, Reuven Rivlin, assegnasse al leader di Kahol Lavan (Blu-Bianco) Benny Gantz, l’incarico di tentare di formare un nuovo governo. Nelle consultazioni, l’ex capo di stato maggiore dell’Idf, ha ottenuto 61 indicazioni contro le 58 del suo avversario, l’attuale primo ministro in carica, Benjamin Netanyahu. Quella di Gantz, concordano gli analisti politici a Tel Aviv, resta una strada in salita. Tre le opzioni sul tavolo: formare un governo di minoranza, con il sostegno decisivo della Joint List, la Lista araba unita, terza forza alla Knesset con i suoi quindici seggi; provare a tenere assieme la maggioranza degli “indicatori”, cercando di unire ciò che fino a ieri sembrava impossibile – gli arabi israeliani e la destra nazionalista di Avigdor Lieberman – o dar vita a una “Grande coalizione” Kahol Lavan (33 seggi) – Likud (36), opzione caldeggiata da Rivlin – chiamata ad affrontare la nuova Minaccia, stavolta un virus. L’incertezza regna sovrana, ma una cosa è certa: comunque vada a finire, chi comunque ne uscirà vincitore è il leader della Joint List: Ayman Odeh. ytali l’ha intervistato in esclusiva.
In piena emergenza coronavirus, Israele è alla ricerca di un governo, per evitare di tornare per la quarta volta in un anno alle urne. Spiazzando le previsioni della vigilia, la Joint List, in tutte le sue componenti, ha indicato il leader di Kahol Lavan, Benny Gantz, per l’incarico di primo ministro. È un suo successo personale?
No, è il successo di una leadership plurale che ha mostrato intelligenza di lettura della fase politica che stiamo vivendo, e ha saputo far prevalere le ragioni dell’unità. Ma una cosa deve essere chiara: noi non abbiamo firmato un assegno in bianco a Benny Gantz.
Il che significa?
Significa che non sosterremo mai un governo Kahol Lavan-Likud, anche se a farne parte non dovesse esserci Netanyahu. L’abbiamo affermato in campagna elettorale e ribadito all’indomani del voto: Israele ha bisogno di una discontinuità politica con il passato, ha bisogno di un vero governo del cambiamento. Il voto degli arabi israeliani (il 20,9 per cento su una popolazione, secondo il recentissimo aggiornamento dell’Ufficio centrale di statistica di 8.907.000, il 74 per cento ebrei, ndr), è stato decisivo per impedire la vittoria di Netanyahu e della destra radicale e razzista che attorno a lui s’è coagulata. Per noi è un motivo d’orgoglio, ma non abbiamo mai pensato che l’emergenza democratica in cui versa il paese dipenda solo da un primo ministro che si ritiene al di sopra della legge al punto di sobillare la piazza contro un fantomatico golpe della magistratura. Chiudere l’era-Netanyahu non significa solo difendere i principi fondamentali di uno stato di diritto, ma porre fine a quelle politiche che hanno imprigionato il paese, moltiplicato le disuguaglianze sociali, fatto fallire il processo di pace con i palestinesi.
La Joint List sarebbe pronta a offrire un sostegno esterno a un governo di minoranza senza il Likud e la destra oltranzista?
Noi siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità di governo ma non ne facciamo il punto discriminante della nostra linea politica. Con il premier incaricato abbiamo aperto un tavolo programmatico su quelli che riteniamo punti cruciali per un nostro sostegno.

Quali sono questi punti?
Porre fine ad ogni discriminazione nei confronti della comunità araba-israeliana, delle sue amministrazioni, in ogni ambito della vita pubblica. Questo è il punto di svolta vero, epocale, per Israele: ogni cittadino ha eguali diritti e doveri, al di là dell’essere ebreo o arabo. Altro punto cruciale riguarda un no secco alla politica di colonizzazione dei territori palestinesi portata avanti da Netanyahu e dai suoi alleati. Il che significa no all’annessione della Valle del Giordano o una modifica unilaterale dei confini d’Israele. Occorre invece rilanciare il dialogo con la dirigenza palestinese del presidente Abbas per arrivare ad un accordo di compromesso che salvaguardi le aspirazioni dei palestinesi a uno Stato indipendente a fianco dello Stato d’Israele. Il nuovo governo non può essere alle dipendenze del movimento dei coloni e delle sue propaggini politiche. Per finanziare gli insediamenti, le destre hanno smantellato la sanità pubblica, tagliato il sostegno alle ragazze madri, all’istruzione, agli anziani. Come tutto il mondo, anche Israele deve fare i conti con il coronavirus. Nel campo medico abbiamo delle eccellenze. Occorre investire in questo campo. È una priorità nazionale.
Se Gantz ha potuto ottenere l’incarico di formare il nuovo governo è anche grazie al sostegno di Yisrael Beiteinu, il partito della destra nazionalista dell’ex ministro della difesa Avigdor Lieberman. Gantz può riuscire nel “miracolo” politico di tenere assieme ciò che fino a ieri sembrava impossibile: Lieberman e Odeh?
Non è una questione di ambizioni personali ma di scelte politiche nette sui temi che le ho indicato. Se penso alle posizioni anti-arabe di Lieberman vedo la cosa francamente alquanto difficile, ma sta a Gantz provarci. Lo ripeto: siamo disposti a dare i nostri voti dall’esterno a un governo di svolta. Se ciò risulterà impossibile, ci assumeremo comunque le nostre responsabilità come la maggiore forza parlamentare di opposizione.
Netanyahu prova a giocare la carta dell’emergenza sanitaria per sostenere l’esigenza di un governo di emergenza nazionale…
Netanyahu è maestro nel trovare una emergenza su cui innestare le sue mire politiche: ieri l’Iran, oggi il coronavirus. L’emergenza esiste ma per affrontarla c’è bisogno dell’unità di tutti gli israeliani, c’è bisogno di una società coesa. Unità e coesione: due parole estranee al vocabolario politico di Netanyahu e delle destre. Un governo che voglia offrire un futuro diverso al paese non può fondarsi sull’emergenza. Deve avere una visione d’insieme, una idea del cambiamento, un’agenda delle priorità.

Tra le priorità c’è anche l’attuazione del “Piano del secolo” di Donald Trump?
Assolutamente no. Su questo siamo stati chiari in campagna elettorale e nelle discussioni avviate in questi giorni con i dirigenti di Kahol Lavan. Non è proseguendo sulla strada della colonizzazione dei Territori palestinesi occupati che Israele potrà raggiungere una pace giusta e duratura con i palestinesi. Una pace fondata sulla soluzione a due Stati. L’alternativa è istituzionalizzare il regime di apartheid nei Territori, ma questo darebbe un colpo mortale alle residue speranze di pace. Noi vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, sulla creazione di uno stato palestinese accanto allo Stato d’Israele, sulla vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, sulla giustizia sociale e sicuramente sulla democrazia per tutti. Un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata se al governo ci saranno ancora sostenitori di un Israele che fa dell’identità ebraica un’arma di divisione interna, e dell’annessione di territori palestinesi una scelta strategica.
Israele, anche alla luce dell’emergenza coronavirus, può permettersi di andare al voto, per la quarta volta in un anno?
Evitare nuove elezioni è impegno di tutti, ma non può essere la ragione per imporre soluzioni emergenziali. Se c’è una cosa che Israele non può permettersi è un governo in continuità col passato. Con o senza Benjamin Netanyahu.

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