Verso la fine degli anni Settanta molto si scriveva e molto si diceva della nuova Università delle Calabrie, indicata a far da volano straordinario per un riscatto complessivo di quella parte del Sud. Un’impresa in cui energicamente aveva creduto Vittorio Gregotti, professore di composizione architettonica allo IUAV di Venezia per poi passare alle facoltà di architettura di Milano e di Palermo. Dopo aver progettato per le università di Palermo e di Firenze, Gregotti apre il capitolo Arcavacata in Calabria, che per lui ha da essere “un principio di insediamento”, cioè un qualcosa di preliminare a successive operazioni di più ampio respiro. Non solo architettura quindi, perché quel punto di partenza architettonico
può avere una validità più generale e costituire un riferimento anche per altri tipi di insediamenti previsti per lo sviluppo della Valle del Crati, come le zone di sviluppo industriale indicate dalla Cassa del Mezzogiorno.
Da queste poche parole subito si alza integro tutto il fascino del Sogno irrinunciabile dell’Architetto, nonostante gli sia chiaro da sempre di doversi confrontare, più e più volte, con ostacoli infiniti e immancabili miserabilità politiche e culturali. Arcavacata, per chi non lo sapesse, era allora, nel 1973, una campagna con quelle siepi di mulini a vento chiamati fichi d’India, con ulivi e distese di meloni e alberi di liquerizia. Sarebbe piaciuta a pittori come Guttuso e Carlo Levi, Arcavacata, non lontana da Cosenza, quasi al centro di antichi, collinari agglomerati urbani in maggioranza abitati da popolazioni italo-albanesi che vi erano giunte fin dal Medioevo. Un insieme territoriale e paesaggistico formato verso l’interno dai leggendari versanti boschivi del vastissimo altopiano della Sila, una sorta di immensa nuvola resa luminosa dall’azzurro cupo di selve cantate da Virgilio e dalle cui altezze si scende nella Valle del Crati, fiume greco conosciuto da Euripide.
Come si è detto, Arcavacata era prossima ai paesi italo-albanesi delimitati dalla pianura del Crati, e che si servivano, quando giunge in Calabria Gregotti, ancora di sentieri e impervie strade bianche ad un certo punto a precipizio sul mare Tirreno. È in questi luoghi, nello spazio di una storia che conobbe Tommaso Campanella, che l’architetto si spinge ad immaginare un processo realizzativo tale da far intravedere una sorta di “Città del Sole”, e questo nel cuore di una terra ancora oggi in grandissima difficoltà sotto ogni punto di vista. Nel 1982 Gregotti ritorna nuovamente sul suo sogno:
Le residenze degli studenti saranno ubicate, in una seconda fase, nei centri storici dei comuni vicini e sulla costa tirennica, oltre che nello stesso centro storico di Cosenza.
A quel sogno appartiene anche, affinché la nuova Università diffonda tutti i suoi benefici effetti sul territorio, la realizzazione di un sistema di trasporti pubblici efficace da e per Arcavacata.
Chi conosce quanto è avvenuto tra Cosenza, Rende e quella parte della Valle del Crati sa cosa significa la devastazione di un territorio che, nel corso degli ultimi decenni, è stato avvelenato da mostruosità edilizie inimmaginabili. Quando andai a visitare Arcavacata per conto del manifesto nei primi anni Ottanta, impossibile non accorgersi del penosissimo degrado di quanto, fino a quel momento, era stato realizzato. Ricordo di essermi trovato di fronte ad una moderna archeologia e quando ne feci cenno a Gregotti questa la sua spiegazione:
Dopo i primi due bravissimi rettori, Beniamino Andreatta e Cesare Roda, ci trovammo tra enormi difficoltà e in mezzo a mille dispetti.
Qui il perché di un’Italia diventata il paese delle più orride periferie, un paese in cui politici e malaffare hanno contrastato in ogni modo la buona architettura e un’urbanistica corretta e razionale. Fortunatamente abbiamo avuto anche politici lungimiranti, che hanno saputo contrastare crimininalità e malaffare, ma questo lo si vede in alcune, rare parti del nostro paese.
Sull’epilogo di Arcavacata da non dimenticare le parole di Gregotti
Altre lettere, altre trattative, altri colloqui: il cantiere rimane senza direzione lavori per otto mesi, durante i quali l’impresa spadroneggia con la complicità dell’ufficio tecnico dell’università, operando gravi manomissioni al progetto del primo dipartimento ormai in fase di ultimazione, e le fecero un po’ per convenienze, un po’ per dispetto, e molto per ignoranza architettonica.
Lo stile personale di Vittorio Gregotti era quello del gran signore, quasi sempre sorridente e dalle improvvise arguzie ambrosiane, e che, da gentiluomo, non poteva pensare che tra convenienze, dispetti e ignoranza, ci potesse essere ben di peggio nel losco traffico attorno ad Arcavacata. Dopo essere “stato sollevato dell’incarico”, Gregotti amaramente non poté che constatare
il fallimento dell’idea di sperimentare al centro di una delle aree più depresse d’Italia la possibilità di un ribaltamento economico e sociale per mezzo di una nuova idea.
Sconsolata presa d’atto in cui c’è tutto il valore di un ideale civile e illuminista se si pensa di progettare architettura e urbanistica, un ideale sempre caro a Gregotti. Non poteva essere diversamente sapendo che Gregotti è cresciuto all’architettura nella Milano di maestri quali Banfi, Belgiojoso, Peressuti e Rogers. Così in un testo di Giorgio Mastinu:
Nel secondo dopoguerra abbandonate definitivamente le istanze del’International stile, il gruppo BBPR si dedica apertamente al recupero degli elementi e dei valori storici dell’architettura e degli ambiti urbani.
Ma anche a Venezia l’architetto nel fare l’architetto non ebbe vita facile, che ebbe invece quando gli accadde di dirigere, negli anni della presidenza Ripa di Meana, il settore arti visive della Biennale da lui profondamente innovato. Il progetto e la successiva realizzazione di quelle che Gregotti chiamò le case popolari a Cannaregio attraversarono gli anni Ottanta, ma verso il 1998 l’ormai carismatico architetto fu costretto a scrivere:
Si trattava della progettazione di 250 alloggi e la cui realizzazione è ancora oggi paradossalmente non terminata per le tradizionali cause italiane dei ritardi: litigiosità politica, resistenze burocratiche, conservatorismo fuori luogo, ripicche professionali.
Il cocciuto Gregotti riuscì comunque a realizzare molti dei suoi progetti in diverse parti d’Italia e del mondo e lo fece, per esempio, a partire da quel suo studio milanese distante poche decine di metri da San Vittore. Più laboratorio che studio di San Girolamo, anzi, quando ci andai in più occasioni mi sembrò l’interno affollato di un sommergibile con tantissimi giovani stretti uno accanto all’altro, chinati sulle loro carte. Un sommergibile che, poco più un alto, aveva una piccola cabina di comando, ed è lì che chiesi a Gregotti e al suo compagno di studio Pierluigi Cerri di contribuire all’allestimento di una sconfinata mostra, ”Venezia ’79 la Fotografia”.

Componemmo come Comune di Venezia e l’Unesco di Venezia, in quegli anni diretto dall’indimenticabile Maria Teresa de Cervin, una squadra di studiosi, storici dell’arte e della fotografia, architetti e grafici, dall’assoluta qualità e competenza. Nel comitato scientifico nomi quali Carlo Bertelli, Cornell Capa, Romeo Martinez, Daniela Palazzoli, Alberto Prandi, Italo Zannier. Tutta la città fu coinvolta, dai Padiglioni della Biennale al Museo Correr, ai Saloni del Sale, e non ricordo dove altro ancora. Venticinque le mostre che documentarono l’intera storia mondiale della fotografia, dai pionieri ai classici della prima metà del Novecento, dai grandi maestri italiani, europei, americani, ai fotogiornalisti eroici spesso nell’inseguire guerre, rivoluzioni, tensioni sociali indicibili.
Pochi mesi soltanto a disposizione, ma quella fu, e credo lo sia ancora oggi, una mostra fotografica mai più eguagliata in Italia, e per i tempi rispettati molto del merito andò anche agli architetti per gli allestimenti: Nani Valle, Vittorio Gregotti, Franca Semi e alla quasi esordiente Daniela Ferretti. Gregotti fu instancabile nel passare dai Giardini della Biennale ai Saloni del Sale alle Zattere per la prima volta utilizzati come sedi espositive, tanto è vero che si dovette intervenire nel risanamento delle coperture da cui pioveva e cadeva di tutto.
Per fortuna che Venezia ha un fotografo e un maniacale, lucido collezionista di fotografie qual è Graziano Arici, da molti anni residente ad Arles ma sempre presente e generoso se lo si chiama da Venezia. Ed è al fotografo Arici che dobbiamo tre immagini, ecco l’indispensabilità della fotografia, con le quali possiamo apprezzare tre momenti superiori di una Venezia superiore: l’allestimento di Vittorio Gregotti ai Saloni del Sale, il suo accattivante sorriso in una sala della Biennale arti visive da lui diretta, e lo speciale terzetto colto nell’androne di Palazzo Grassi, quello con la Fiat di Cesare Romiti, con il Palazzo Grassi restaurato da Gae Aulenti per ospitare le grandi mostre, alcune di queste se non tutte, veramente fondamentali nei settori dell’archeologia o dell’arte rinascimentale o del moderno e contemporaneo.

Si osservi ora la chiarissima, semplicissima, diversa, evolvente fascia di astronave sospesa e su cui Gregotti depose le fotografie esposte nei Saloni. Questo ricordo dell’amico, con cui avrei voluto bere di nuovo assieme un goccio di qualcuno dei whisky da lui preferiti, non può che terminare ridando la parola a Gregotti, con due sue riflessioni prima che fosse l’anno 2000.
Quando Giovanni Bellini morì, nel 1516, era capo di quella che fu probabilmente la più grande bottega di pittura del Quattrocento in Italia. Giorgione era morto da sei anni e Tiziano stava lavorando alla grande pala dell’Assunzione ai Frari. Giovanni Bellini era dunque un pittore superato. Ma chi non abbia della storia dell’arte una concezione legata a un’idea banale di progresso (anche se l’idea di progresso in arte è assai più complessa della sua sbrigativa negazione) dovrà giudicare Giovanni Bellini per le sue opere e per i significati che da esse continuamente ci pervengono.
Nel comprendere Bellini e nel tirarsi fuori da un’idea banale di progresso anche per ciò che riguarda l’architettura, mi sembra che Gregotti parli di se stesso, delle sue solide architetture, così estranee ai modi delle cosiddette archistar. È così?
Gregotti:
Il rischio di essere superati vale la pena di correrlo per provare anzitutto a noi stessi quanto, riesaminandoli oggi, i problemi che ci agitavano un tempo siano ancora di qualche interesse.
Al suo mestiere d’architetto appartennero moltissime esperienze ed anche errori, a dirlo fu lui stesso:
L’accumulo delle esperienze e degli errori mettono sovente scritti come questo sull’ambiguo piano dei bilanci. Ambiguo perché si spera di vivere ancora abbastanza a lungo per fare esperienze nuove e diverse, capaci di dare un senso più preciso alle proprie cose e sentimenti.
Per quanto mi riguarda, so che non appena saranno trascorsi i tempi terribili di un anno bisestile come non mai, andrò a rivedere il Giovanni Bellini e i Tiziano ai Frari e lì di nascosto berrò un goccio di whisky in memoria del veneziano di Novara Vittorio Gregotti.
Nell’immagine d’apertura allestimento di Vittorio Gregotti ai Saloni del Sale Venezia ’79 (foto Graziano Arici)

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1 commento
Ottimo e appropriato il testo di Franco Miracco. Conoscevo personalmente Gregotti e poso confermare quel suo intelligente e non essere alla moda quando resiste all’idea di farsi archistar per lavorare intensamente e in modo colto sui problemi, sempre gli stessi!, del fare buona architettura buona e utile.