Covid-19. Una rivoluzione in chiaroscuro per l’editoria

Costrette dall’epidemia, le redazioni sono forzate a cambiare il loro funzionamento interno, con scelte che rischiano di condizionare, in peggio, l’organizzazione del lavoro dopo la crisi. Ma ci sono anche buone notizie: le edicole stanno riconquistando la loro centralità nel sistema editoriale.
ALBERTO FERRIGOLO
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Sia pur di poco, ma nelle settimane dell’emergenza coronavirus le copie vendute dei giornali hanno avuto un sussulto e un piccolo incremento. Lo dice Giuseppe Marchica, segretario nazionale del Sinagi, il sindacato degli edicolanti aderenti alla Cgil. Ovviamente dentro un perenne quadro di generale disastro del mercato editoriale, che vede la diffusione sempre con il segno meno davanti, a vantaggio del web.

Vanno benissimo, infatti, tutti i siti d’informazione, alcuni dei quali – specie le agenzie di stampa – hanno quasi raddoppiato i contatti e il numero delle pagine viste. Anche se il guadagno è relativo. Perché in questa fase la pubblicità è in caduta libera, vista la situazione critica dell’economia, della produzione, dei consumi e degli introiti con una stagnazione evidente che è già recessione.

Una volta passata la fase di emergenza, il coronavirus lascerà sul terreno un’ampia serie di strascichi. E non solo in Italia, vista la globalità dell’epidemia. Un contagio destinato a rivoluzionare non solo gli stili di vita, ma anche il lavoro, la produzione e la sua organizzazione in tutti i settori, in tutte le professioni, gli uffici, nelle aziende piccole, grandi e medie, nelle imprese creative e nel mondo editoriale, specie nelle redazioni dei giornali.

Da questo punto di vista, il microcosmo delle redazioni segnala già forti cambiamenti. Si è passati da un giorno all’altro allo smart working, di fatto al telelavoro. Svolto da casa. In grandi redazioni come quella del Corriere della Sera, per esempio, a Milano solo la struttura dirigente si trova al lavoro nella sede di via Solferino, il grosso della redazione agisce da casa. Mentre nell’ufficio di corrispondenza di Roma, in via Campania, solo un terzo dei redattori è presente in sede. A la Repubblica il settanta per cento dei redattori pratica il telelavoro, compresi – novità assoluta – alcuni deskisti mentre direttore, vice, capiredattore si trovano nella sede di Largo Fochetti.

Per predisporre lo smart working sono tornati centrali i tecnici, gli informatici, in grado di allacciare reti, spostare i computer e collegarli ai server, verificare le connessioni. E in giorni in cui i quotidiani sono tornati a esser “funzione di servizio” con notizie, informazioni primarie, documentazione, dati, interviste a medici, sanitari, specialisti, i quadri dirigenti di redazione sono in servizio permanente effettivo anche per diciotto, diciannove ore filate nel deserto degli open space, oggi più che mai fuori moda e inopportuni se si vuole evitare la propagazione del contagio da Covid-19.

Dallinizio della crisi, solo la struttura dirigente lavora nella sede del Corriere della Sera in via Solferino, a Milano

Ma la preoccupazione maggiore nelle redazioni riguarda proprio l’organizzazione del lavoro. Perché una volta giunti al termine di questo lungo viaggio nella notte del coronavirus gli editori potrebbero anche decidere che forse è possibile impiegare molti meno giornalisti per produrre un quotidiano e comunque non averli concentrati tutti in un unico luogo, con risparmio di costi di sedi, spazi (gli open space), energia elettrica, riscaldamento, bollette, telefoni e quant’altro. Con un’ulteriore spinta, probabile, alla riduzione degli organici.

Ciò che potrebbe essere oggetto di un serrato confronto e di un braccio di ferro tra la Federazione degli editori e la Federazione della stampa il giorno in cui dovessero decidere di tornare a mettersi intorno a un tavolo per ridiscutere i termini e i contorni di un contratto ormai da anni largamente scaduto e in parte da riscrivere proprio alla luce del nuovo contesto e dei cambiamenti tecnologici spinti sinora introdotti. Tanto più dopo che s’è potuto verificare e sperimentare che i giornali si sono potuti fare per un periodo “con una presenza media del trenta per cento delle forze”.

Un’altra seria preoccupazione riguarda invece l’efficacia del dibattito e del confronto dialettico interno alle redazioni dei giornali. Perché il cosiddetto “lavoro da remoto”, cioè da casa, di fatto isola le persone e va a vantaggio di decisioni rapide e di una maggiore operatività tecnica e organizzativa rafforzando la linearità della catena di comando gerarchica, a discapito invece dello spirito e di un prodotto “intellettuale collettivo” e comunitario quale è sempre stato di fatto il quotidiano.

Anche se da tempo ormai, e segnatamente da quando ha fatto il suo ingresso l’informatica in redazione, i giornali non sono più quel luogo dove

ognuno portava il suo personale modo di interpretare la realtà, così come ci porta le sue informazioni, i suoi gusti, le sue delusioni

– scriveva Miriam Mafai in Il giornalista, pamphlet edito da Laterza nel 1986 – e dove

la riunione delle 10,30 del mattino è il luogo in cui questo confronto si manifesta liberamente.

Perché è chiaro che la discussione collettiva – si riflette oggi, anche alla luce dell’esperienza di un lavoro in emergenza – è assai diversa se fatta in videoconferenza o in telelavoro.

E già adesso non manca chi rileva che i giornali in cui c’è discussione e dialettica si riconoscono a occhio nudo e si differenziano da quelli in cui prevale l’operatività e il confronto è ridotto al minimo. I primi fanno scelte precise, hanno un centro, opinioni forti (la Repubblica), i secondi invece scivolano talvolta come sul ghiaccio, hanno minor presa, fatti o scelte in grado di orientare la barra (Corriere della Sera). O rischiando talvolta anche di essere algidi (La Stampa) anche a causa della loro paradossale foga ipertecnologica improntata alla logica del “digital first”.

Le prime pagine dei giornali all’inizio dell’epidemia di Covid-19

Poi invece segue la serie o categoria dei quotidiani cosiddetti “superflui”, cioè quelli di parte o partigiani, schierati secondo vecchie logiche di partito, polemici a tutti i costi e caratterizzati da una vis sempre sopra le righe e per questo “divisivi” proprio in un momento in cui invece il paese sembra chiedere e aver bisogno di unità, vuole scelte condivise e non invece che si aizzi o addìti chicchessia al pubblico ludibrio. Tra questi, Il Giornale, Libero Quotidiano ma in certe circostanze anche Il Fatto Quotidiano, quest’ultimo un po’ schiacciato tra la tesi del governo, e segnatamente di una sua forza (i Cinquestelle), e l’antitesi al mondo nel suo complesso.

In questo quadro, un po’ confuso ma al tempo stesso sperimentale, c’è poi il ritorno delle edicole. Nella loro centralità nel sistema editoriale come ha ricordato in più di un’intervista il sottosegretario con delega all’editoria Andrea Martella, rimaste aperte per garantire la diffusione dell’informazione attraverso i giornali. Edicole che, per altro, in tutti questi anni sono state ampiamente maltrattate perché ritenute quasi un “tappo” o comunque un limite a carattere monopolistico a un più ampio allargamento della diffusione dei giornali.

Ciò che ha portato a una progressiva politica di liberalizzazione dei punti di vendita della stampa che ora include anche i centri commerciali, i super e gli ipermercati. Con il risultato che, anche in forza della progressiva crisi dell’editoria, precipitata per l’affermarsi massiccio della fruizione da parte dei lettori del web, le edicole sono passate da 41.500 della fine degli anni Settanta alle attuali 25 mila in cui sono compresi anche i punti vendita di centri commerciali, super e ipermercati. Mentre l’apporto all’incremento in copie da parte di questi ultimi è stato appena del tre per cento. Dopo il Covid-19 di sicuro nulla sarà più come prima.

Covid-19. Una rivoluzione in chiaroscuro per l’editoria ultima modifica: 2020-03-19T11:31:53+01:00 da ALBERTO FERRIGOLO
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1 commento

Claudio sonzogno 19 Marzo 2020 a 12:38

Ciao alberto sempre sul pezzo condivido un caro saluto

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