Woody Allen nell’Olimpo dei trickster

In tempi di pandemia due bei libri fanno più di una suggestione: “Delitti senza castigo. Dostoevskij secondo Woody Allen” di Fabrizio Borin (Mimesis) e “Ridere degli dèi, ridere con gli dèi” di Maurizio Bettini, Massimo Raveri e Francesco Remotti (Il Mulino)
ROBERTO ELLERO
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Quando il gioco si fa duro, una risata vale più di un cazzotto. Potrebbe averla detta Woody Allen o una di quelle divinità che affollano il pantheon delle joking religions, le religioni umoristiche che volentieri relativizzavano prima che si imponessero i monoteismi, nemici acerrimi del lasciarsi andare con una barzelletta o un motto di spirito, specie nei loro riguardi. Una risata ci seppellirà? Sempre meglio che crepare di paura, per restare alla consegna.

Tutto è sempre relativo, d’altra parte. E siccome il caso, al suo solito, si fa malandrino, ecco che mi è capitato di leggere nei giorni scorsi due bei libri in tema. In parallelo, poco per volta, un po’ di questo e un po’ di quello, finendo per trovarvi analogie inizialmente impreviste.

Woody Allen, dicevo, che ultimamente non se la passa troppo bene per via dei trascorsi familiari e sentimentali. Nulla di acclarato per le vie giudiziarie ma dicerie, sospetti, pettegolezzi o vere e proprie accuse, che in epoca di #MeToo gli stanno costando censure ed esclusioni.

Uno che gli è rimasto fedele, ovviamente senza entrare nel merito delle presunte “colpe”, è Fabrizio Borin, già storico docente di cinema a Ca’ Foscari e alleniano di vecchia data, che per Mimesis manda ora in libreria Delitti senza castigo. Dostoevskij secondo Woody Allen, non esente peraltro da più di un interrogativo esattamente sui temi della colpa.

Sensi e complessi di colpa, colpe vere e proprie in forma di delitti, castighi scansati per cinica perfezione del crimine o soltanto per via del caso, della fortuna, che era pur sempre dea. Bendata. “Scherza coi fanti, lascia stare i santi” ti insegnavano da piccolo e “Non nominare il nome di Dio invano”, ti veniva intimato subito dopo, giusto perché non ti venisse in mente di fare lo spiritoso con i temi della fede. Uso l’imperfetto perché chissà se si dice ancora.

Resta che non c’è troppo da scherzare con certi “fedeli”: ricordate il castigo occorso ai giornalisti e vignettisti di Charlie Hebdo solo per aver disegnato il Profeta, facendosi beffe di lui?

Eppure “Ridere degli dèi, ridere con gli dèi” è stato ed è pur sempre possibile, per seguire il filo e il titolo della forbita e dotta (ma anche divertente) disamina condotta da Maurizio Bettini, Massimo Raveri e Francesco Remotti nell’omonima raccolta di saggi per Il Mulino, andando – nell’ordine di citazione degli autori – a rievocare l’umorismo religioso degli antichi greci e poi romani, ad analizzare in radice certe propensioni orientali per la risata anche sacra (specie nel Giappone shintoista, prima che intervenisse la severità imperiale dell’era moderna, per la quale l’imperatore è di per sé divino e dunque inviolabile al riso), infine a raccogliere sul campo le testimonianze essenzialmente orali di credenze africane e nordamericane (indigene, ovviamente), volentieri esposte all’irresistibile fascino del ridicolo, del caricaturale, del farsesco. Umani e divini in un unico esilarante abbraccio.

Mia Farrow in una scena di “La rosa purpurea del Cairo” (1985)

“Delitti senza castigo” accosta al grande russo, non di rado esplicitamente citato nei film di Allen, il corpus più visibilmente noir della vasta produzione del regista. Vale a dire “Crimini e misfatti” (1989), “Match Point” (2005), “Scoop” (2006), “Sogni e delitti” (2007), “Irrational Man” (2015) e “La ruota delle meraviglie” (2017). Per una ragione o per l’altra, ci casca sempre il morto. E talvolta più d’uno. Perché, ricorda l’autore, “delitto chiama delitto”, esattamente come ebbe a succedere al Raskolnikov di Dostoevkij, che una volta uccisa l’usuraia dovette metter fine anche alla di lei sorella.

“Dovette”, perché il delitto è avvertito, ad un certo punto, come un dovere: verso se stessi o i propri cari. E questo a prescindere dai castighi, se ci sono, quando ci sono. Prendiamo lo stimato oculista di “Crimini e misfatti”, Judah Rosenthal: mica sarà colpa sua, marito e padre esemplare, se l’amante decide di rivelarsi alla moglie tradita minandone famiglia e reputazione? Ricordava il regista:

Crimini e misfatti è un film su persone che non vedono. Non si vedono come le vedono gli altri. Non vedono cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Paradossale certo, il non vedere, per un affermato oculista… Ma è in buona compagnia, perché nei film citati ogni assassino ha i suoi sacrosanti motivi, ogni colpa ha la sua ragione e spesso evita il “giusto” castigo. Questione di fortuna, o se preferite di destino, cinico e baro nel doppio senso di circolazione: alla grande per il tennista pluriomicida di “Match Point” (è sufficiente che una prova del delitto caschi al di qua della “rete”, la ringhiera di un ponte, perché venga incolpato l’incauto clochard che la raccoglie), maluccio per il filosofo nichilista e assassino a “fin di bene” di “Irrational Man”, che inciampando su una banale torcia elettrica, comprata in precedenza, finisce nel vuoto dell’ascensore predisposto per la ragazza che aveva capito tutto…

Jonathan Rhys Meyers e Scarlett Johansson in una scena del film “Match Point” (2005)

Un mondo decisamente amorale, senza necessariamente giustizia in terra e forse neanche in cielo, a meno che gli dèi che vi abitano non siano stati costruiti dall’uomo a propria immagine e somiglianza… Avete capito bene: l’esatto contrario. E dunque giustizia auspicabile, per la quale spendersi, mica in automatico.

Sospettavamo da tempo che fosse andata così, con le prime religioni, quei politeismi per i quali serbiamo massimo rispetto. Pensate se Giuliano l’Apostata quella volta ce l’avesse fatta… Ma questa è un’altra storia, sulla quale l’amico Claudio Bondì voleva farci un film. Film che sono storie. E storie che nascono coi miti. Isacco vuole dire “ha riso”, un’ultima risata, lui che era stato messo al mondo da Abramo e Sara ultranovantenni. Che ridere… Che non succeda mai più, ecco scattare il divieto dei monoteismi, poi buono anche per la “tenuta” del potere, mentre sul conto dell’umorismo greco, indi romano, Maurizio Bettini è prodigo di annotazioni, a cominciare dalle corna del povero Efesto, per il sollazzo dell’Olimpo.

Ma dove la lettura si fa maggiormente divertita e istruttiva è in corrispondenza delle citate joking religions di cui si occupa Francesco Remotti (anche introduttore) nel terzo capitolo di “Ridere degli dèi, ridere con gli dèi”, laddove il riso stesso, in quanto tale, “ha un valore religioso e svolge una funzione religiosa”. Tramite propizio, anzi necessario, il trickster, che è figura divina del comico, “demiurgo trasgressivo” che mina dall’interno la sacralità degli dèi, prendendo per i fondelli anche se stesso e inducendo al riso gli umani. Un tipetto non sempre raccomandabile, noto qui da noi anche come “briccone divino”, visto che ne combina volentieri di tutti i colori, meglio evocabile di sera, quando fa buio, il filò intorno al fuoco acceso.

Il trickster – osserva conclusivamente Remotti – non elimina gli dèi (semmai, sono gli dèi che cercano di eliminare il trickster, e certamente un qualche dio – di nostra conoscenza – è riuscito nell’impresa): con il riso che provoca egli elimina il fideismo ingenuo di chi è così cieco da non accorgersi di avere a disposizione altre risorse.

Tornando al Woody Allen di Fabrizio Borin, la sua prolifica filmografia di attore e regista tiene insieme molti generi e venera tanti autori, prediligendo – lui ebreo newyorkese di stretta osservanza laica – le costanti della magia e del fake, della prestidigitazione e dell’inganno, una sospetta valanga di curiose coincidenze, l’iperbole e il paradosso del vivere, la poetica del loser come estremo rifugio dell’essere, una debordante immaginazione.

Martin Landau e Woody Allen in una scena del film “Crimin e misfatti” (1989)

Ne è puntuale rendiconto una apposita sezione del libro: Il magico mondo di Woody Allen ovvero il cinema stesso, in quanto tale, capace persino di sfondare la parete dello schermo per farsi immaginaria realtà fenomenica nel delizioso “La rosa purpurea del Cairo” (1985). Uno capace di ridere di tutto, per prima cosa di se stesso, ben sapendo che il dramma e la tragedia sono pur sempre dietro l’angolo.

A modo suo, anche Woody è un trickster. E in epoca di pandemia, con la scienza che non sa che pesci pigliare e con la sanità che fa soltanto ciò che può (moltissimo, intendiamoci), piace pensare che tanto pandemonio sia opera di uno spirito cattivello che s’è fatto prendere la mano, forse per inesperienza e forse per inettitudine. Così fosse, ci pensi qualche trickster più capace. E ci pensino bene anche gli altri dèi: senza di noi, fine dei divertimenti per tutti, loro compresi.

In copertina una scena di “Scoop”, film del 2006 di e con Woody Allen (nella foto con Scarlett Johansson)

Woody Allen nell’Olimpo dei trickster ultima modifica: 2020-03-19T18:20:17+01:00 da ROBERTO ELLERO
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