Da Fukushima al Covid-19. Quando la storia si ripete

Nove anni dopo la tragedia del terremoto, dello tsunami e dell’incidente nucleare, il Giappone si trova ad affrontare una nuova emergenza, quella del Coronavirus. Commettendo gli stessi errori.
PIO D'EMILIA
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[TOKYO]

Sono appena tornato da un viaggio nel Tohoku, la regione maggiormente colpita dallo tsunami del 2011 (quasi ventimila morti) e nella zona di Fukushima, dove l’emergenza nucleare, con tre reattori tutt’ora in azione, milioni di tonnellate di acqua contaminata in attesa di essere scaricata nell’oceano (di fatto pare stia già accadendo, e non da oggi) e quarantamila persone ancora in attesa di rientrare nelle proprie case, è tutt’altro che “under control”, come ebbe il coraggio di affermare, mentendo, il premier Shinzo Abe a Buenos Aires, in occasione dell’assegnazione dei Giochi Olimpici. Giochi Olimpici che come da tempo immaginato e auspicato anche su questa rivista non si dovevano fare e alla fine probabilmente non si faranno. 

A Yokohama, giapponesi in fila per assistere alla lettura delle sentenza di condanna a morte do Satoshi Uemura

Impossibile non tornare con la mente a nove anni fa, quando milioni di giapponesi colpiti dal terribile tsunami restarono poi in balia – molti ancora lo sono – delle scarse, contraddittorie, se non false e manipolate informazioni sull’incidente nucleare in corso a Fukushima. Esattamente come sta succedendo in questi giorni, a proposito del virus e della sua gestione “strategica”. Un tragico e irresponsabile déjà vu, un’arrogante scommessa che il premier Shinzo Abe, nel suo disperato tentativo di salvare le Olimpiadi, sta facendo sulla pelle dei suoi cittadini e degli stranieri che vivono qui. 

Per carità. Non siamo scienziati, né medici. E a questo punto ci auguriamo che il premier abbia ragione, che esistano, come qualcuno comincia a sostenere, due ceppi diversi del virus, o che i giapponesi abbiano in qualche modo acquisito un’immunità genetica (anziché di gregge…), e che basti lavarsi bene le mani e immergersi nelle rigeneranti onsen per tenerlo alla lontana e magari addirittura sconfiggerlo nel caso si venisse contagiati (consigli che vengono dati sui media locali). 

In effetti radiazioni e virus hanno qualcosa di terribile in comune: la loro invisibilità. Ma con qualche differenza. Le prime ti restano addosso tutta la vita, e in genere provocano danni permanenti. I secondi invece sono molto meno “affettuosi”. Arrivano, fanno quello che devono fare, ma poi spariscono. Le radiazioni ti accompagnano per tutta la vita e ti ricordano continuamente della loro esistenza: per chi le ha subite, è una guerra quotidiana, una ferita aperta. I virus ingaggiano invece solo una – spesso furibonda – battaglia. O la vincono (e si crepa) o la perdono, e alla fine ci si scherza su.

Entrambi creano ansietà: la gente ha bisogno di certezze – vere o presunte – non sopporta né sa gestire l’incertezza. Sono stato contaminato? Contagiato? Questo mal di testa da dove viene? Quel tipo in metro con cui ho chiacchierato era un portatore sano? Fondamentale dunque, per gestire al meglio le emergenze e combattere il “nemico” assieme e con il consenso della popolazione è la capacità che un governo ha di comunicare, fornire informazioni reali, credibili e univoche, e di instaurare un rapporto di fiducia con i suoi cittadini. Questo in Italia, udite udite, sembra stia finalmente avvenendo e sta aiutando, come già successo in tempi e modalità diverse in Cina e soprattutto Corea del Sud, governo e autorità locali a concentrarsi sull’aspetto sanitario.

Il mancato rispetto delle regole da parte dei giapponesi, evento strano per un popolo tranquillo e ubbidiente, è una responsabilità del governo nazionale (foto di Raffaella Cittadini)

Non succede invece in Giappone, nonostante i giapponesi siano un popolo tranquillo e ubbidiente, abituato a rispettare le autorità, e persino a sopportarne i soprusi. Basterebbe che al governo ci fossero persone serie, competenti, oneste e i giapponesi se ne starebbero tranquillamente a casa, senza nemmeno bisogno di decreti, minacce, sanzioni e esercito per strada. E invece no, una classe politica che definire “casta” sarebbe un complimento, formata da figli, nipoti e pronipoti di gente che a suo tempo provocarono la tragedia della guerra, sta tenendo in ostaggio, e non da oggi, un paese bloccato, immobile, ancorato a un passato che non esiste più e senza alcun futuro.

Basta vedere la sua progressiva, triste – ma ahimè giustificata dalla sua mediocre leadership – diminuita “presenza” e della sua immagine internazionale, che nessuna Olimpiade avrebbe avuto la capacità di rilanciare in pochi giorni. 

E così il Giappone, anziché sfruttare la terribile esperienza di Fukushima e darci una “lezione” di gestione delle emergenze – come ha fatto la Cina (ma è una dittatura!) e in modo ancor più sorprendente la Corea del Sud (che è una solida democrazia) – sta diventando, e anzi a mio modesto parere è già diventato, il paese obiettivamente più “pericoloso” tra tutti quelli colpiti dal virus. Un paese dove la vita scorre come se nulla fosse, dove treni, ristoranti, locali pubblici sono strapieni e dove migliaia di contagiati, inconsapevoli di esserlo, continuano a rischiare la propria vita e quella degli altri.

Il tutto perché il Giappone non è in grado – o meglio non vuole, visto che il governo stesso ha ammesso di operare a un sesto delle proprie capacità – di effettuare i test. E non parliamo di quelli per tutti, come da tempo avviene in Corea, ma anche per i sintomatici: per potersi sottoporre ai test, occorre una richiesta del medico e l’accettazione della stessa da parte di una speciale commissione. Che in un migliaio di casi l’ha addirittura rifiutata.

Ci troviamo così a quasi due mesi dalla “partenza” ufficiale del virus in Giappone con appena trentaduemila test effettuati (oltre la metà dei quali sono ripetuti sulla stessa persona, quindi il totale al 20 marzo sono circa quindicimila), rispetto ai duecentoventimila effettuati in Italia e agli oltre trecentomila in Corea del Sud. Dove i test – a differenza di quanto ha sostenuto in un suo tweet Walter Ricciardi, probabilmente per giustificare la “frenata” italiana e bloccare la richiesta della Regione Veneto e della Toscana – sono gratuiti e disponibili per tutti. Ci sono addirittura i drive through, postazioni mobili dove si può effettuare il test senza scendere dalla macchina, aumentando così efficienza e sicurezza per gli operatori sanitari.

L’arroganza e irresponsabilità del governo è arrivata al punto di rifiutare – definendola “inutile e inopportuna” – l’offerta del miliardario Masayoshi Son, Ceo del colosso Softbank e sorta di locale Bill Gates, che in un suo prezioso tweet (il primo dopo tre anni) aveva offerto pubblicamente di provvedere alla fornitura di un milione di tamponi per il test e di un milione di mascherine (introvabili in Giappone, assieme, pensate un po’, alla carta igienica). Dopo essere stato ridicolizzato dai media e “ammonito” dal governo (un ministro l’ha incontrato spiegandogli che in questo modo le strutture ospedaliere del paese avrebbero rischiato il collasso) ha ritirato entrambe le offerte. 

Scaffali vuoti in alcuni supermercati giapponesi

Direte, ma i numeri sono numeri: puoi sottostimare, nascondere, manipolare il numero di contagi, mascherare (o rifiutare, come pare succeda) i ricoveri, compresi quelli in terapia intensiva. Ma non puoi nascondere i morti. Che a oggi, 18 marzo, sono “appena” ventinove, compresi quelli legati alla vicenda della Diamond Princess (che la stampa locale conta sempre separatamente, come i passeggeri locali sbarcati dopo aver effettuato un primo test, senza mai essere stati ricontrollati e comunque seguiti). Noi abbiamo superato i quattromila. Possibile sia colpa, come ci stanno ricordando oramai quotidianamente i media locali, dell’inadeguatezza del nostro sistema sanitario? Del fatto che i nostri medici, incuranti delle possibilità di contagio, continuano a dare la mano ai pazienti e a non rispettare le distanze di sicurezza? O dello scarso numero di posti in terapia intensiva?

Attenzione: qui i media giapponesi hanno preso un granchio. Contrariamente a quanto riportato su questo grafico (più volte utilizzato da un’emittente locale), ne abbiamo più noi di loro e già da prima del recente potenziamento dovuto all’emergenza. In Italia ne abbiamo una decina ogni centomila abitanti. In Giappone esattamente la metà. Il dato indicato nel grafico, per quanto ricorda il Giappone, si riferisce ai posti “letto” (che spesso sono minuscole brandine separate da una tendina) in generale, non in terapia intensiva. Qualcuno nasconde i numeri? O ci gioca?

Il grafico – che è apparso in numerose trasmissioni televisive giapponesi – mette a confronto i posti letto in terapia intensiva in Giappone e in Italia.

In Giappone ogni anno muoiono di polmonite circa centrotrentamila persone. Non è che – non facendo i tamponi – si continua a morire ufficialmente di polmonite quando invece c’è lo zampino del virus? Questo lo si potrebbe facilmente capire verificando se – sopratutto per la popolazione anziana – da dicembre a marzo quest’anno ci fosse un aumento considerevole dei decessi. Ma per quanto ci abbia provato, non sono riuscito a trovare questo dato.

La lezione di Fukushima

Ma torniamo a Fukushima, e agli sconcertanti elementi in comune con l’attuale emergenza. Il primo segnale di irresponsabile recidività istituzionale risale ai primi giorni della vicenda Diamond Princess, la nave bloccata nel porto di Yokohama per oltre un mese. Senza entrare nel merito della decisione (da molti contestata, ma sulla quale non ce la sentiamo di esprimere opinioni) ci limitiamo a segnalare che fin dal primo giorno, quando cominciò il via vai di personale sanitario e di servizio da e per la nave, molti autisti e addetti a vari servizi sono stati trovati positivi. Ma essendo asintomatici (tranne due) hanno continuato a lavorare.

Questo però si è saputo dopo circa un mese: nessuna informazione ufficiale sul momento, e nessuna indagine seria da parte dei media locali, che pur di mezzi e risorse umane ne hanno sempre avute, e continuano ad averne, parecchie. Non basta: nessuno degli oltre seicento passeggeri locali “liberati” dopo l’effettuazione del primo test (rivelatosi più che fallace, visto che molti passeggeri stranieri, una volta rientrati in patria, sono stati trovati positivi) è stato ricontrollato e “seguito”. La maggior parte è sbarcata dalla nave ed è tornata a casa con i mezzi pubblici.

Shinzo Abe si sta giocando il proprio futuro politico nella gestione della crisi del Covid-19

Secondo l’epidemiologo Kentaro Iwata, che dopo essere salito in incognito sulla nave ne ha denunciato le inadeguate condizioni di bio-continemento (è possibile seguire qui la sua conferenza stampa organizzata dalla stampa estera di Tokyo) è molto probabile che molte di queste persone siano state contagiate, e che dopo oltre un mese di vita “normale” abbiano inconsapevolmente contagiato centinaia, se non migliaia, di altre persone. 

Assieme a molti colleghi, sia stranieri che locali, abbiamo chiesto conto di questa situazione al ministero della salute ma ci è stato risposto che erano dati riservati, che le leggi sulla privacy non consentono non solo a noi giornalisti (e ci sta) ma nemmeno alle autorità di “controllare” i movimenti delle persone. E questo, francamente, non ci sta. 

L’esempio della Corea del Sud: tecnologia e buon senso

Ci sono momenti in cui l’interesse pubblico può e deve prevalere, e questa storia di considerare i giornalisti, soprattutto durante le emergenze, come avversari, anziché “alleati” attraverso i quali comunicare e informare correttamente i cittadini, francamente è insopportabile. Quanto alla privacy, è facilmente superabile. Basta coniugare tecnologia e buon senso, trovando un compromesso.

Il premier Abe presiede la commissione nazionale sul virus (e poco dopo l’abbandona)

In Corea del Sud – che come ricordavamo prima è diventata negli ultimi anni una delle più solide e avanzate democrazie del mondo (assieme a Taiwan) – il problema è stato brillantemente risolto grazie a una efficacissima app e alla collaborazione dei cittadini. A chiunque venga trovato positivo al tampone viene chiesto di poter accedere ai suoi dati personali, cellulare, carta di credito, scontrini di locali, tipo supermercati, negozi, ristoranti, per ricostruire i suoi movimenti negli ultimi giorni. A tutte le persone e locali potenzialmente coinvolti arriva quindi una segnalazione, con l’invito a presentarsi per effettuare a loro volta il test. Gratuito. Inutile dire che il sistema ha funzionato, riducendo sin dall’inizio il numero dei decessi rispetto ai contagi (a oggi, “appena” centodue su quasi novemila) e negli ultimi giorni anche il numero dei contagi tout court.

E uno si chiede: perché anche il Giappone non lo fa? Difficile immaginare che in un paese dove si aggiornano continuamente le app che possono inseguire on line le piroette virtuali dei pokèmon o che propongono le più bizzarre perversioni sessuali non sia possibile approntarne una, da distribuire gratuitamente alla popolazione, sul modello sudcoreano. Né immaginare che la terza economia del mondo non sia in grado di aumentare la capacità di effettuare i test (attualmente di settemila tamponi al giorno, ma di fatto ne effettuano meno di mille). Quanto alla collaborazione dei cittadini, mi sento di dire che sarebbe totale e probabilmente entusiastica. I giapponesi vanno in tilt quando non sanno cosa fare, non quando c’è qualcosa da fare. Anche se sbagliata, e in questo caso non lo sarebbe.

Il timore di perdere le Olimpiadi

Un altro aspetto che accumuna l’emergenza nucleare di nove anni fa a quella attuale per il virus è che, in assenza di precise e vincolanti “regole” internazionali, ciascun governo è libero di fare quello che gli pare. E questo quando si tratta di emergenze “globali” crea grossi problemi. Soprattutto, consente ai governanti di turno di anteporre i (presunti) interessi nazionali (leggi personali) a quelli universali.

Ed è esattamente quello che sta succedendo oggi in Giappone: dove il terrore di perdere le Olimpiadi, ritenute, forse con un eccesso di ottimismo, l’unico modo per rilanciare l’oramai da lungo tempo stagnante economia locale, ha portato il governo a rimuovere l’emergenza, nel tentativo di silenziarne, quanto meno a livello mediatico, la diffusione. E a questo punto non possiamo che augurarci che questa scommessa venga vinta, altrimenti Shinzo Abe passerà sì alla storia, ma sullo stesso lato di suo nonno, da quello sbagliato (Nobusuke Kishi, nonno di Abe, fu arrestato come criminale di guerra subito dopo la resa del Giappone, nel 1945). 

Tutto questo avrebbe potuto essere evitato e sarebbe tuttora evitabile se, anziché a esperti più o meno improvvisati, governo e istituzioni si affidassero, quanto meno per la comunicazione, a veri professionisti. Gente che ha studiato specificatamente la materia e sa come spiegare, raccontare, istruire e convincere le persone nel momento giusto, in modo da evitare perplessità e panico e ottenere la massima collaborazione possibile.

In Giappone crescono i timore per la possibile cancellazione dei giochi olimpici

È quello, ancora una volta, che stanno facendo in Corea del Sud, Singapore, Malesia e Taiwan, dove esistono “numeri verdi” efficaci, formando i quali è possibile parlare 24 ore su 24 con persone esperte, in grado di metterti subito in contatto con medici o funzionari. E dove i giornalisti, sia locali che stranieri, hanno canali privilegiati e particolarmente efficienti con le istituzioni. Passi per l’Italia, affetta – non senza ragione – da un’atavica sfiducia nelle istituzioni (di qui l’esigenza di schierare addirittura l’esercito per far rispettare le leggi), ci si chiede come mai il Giappone, nonostante possa contare su una popolazione “obbediente” e mass-media più o meno addomesticati, per la seconda volta in meno di dieci anni stia di nuovo sbagliando tutto.

Fukushima ci ha insegnato che l’assenza e/o contradditorietà delle informazioni ufficiali provoca incertezza e ansia, che a loro volta possono facilmente trasformarsi in panico e disponibilità a rincorrere anche i più idioti consigli e a credere alle più fantasiose fandonie. E infatti, esattamente come ai tempi di Fukushima, in Giappone sono sparite le mascherine (inefficaci, a meno che non siano quelle speciali, sia per le radiazioni che per il virus), disinfettanti vari e perfino, come si diceva, la carta igienica. Mentre una pletora di improvvisati esperti di cose italiane, tra i quali un medico che dice di aver a lungo soggiornato a Torino, spiega in questo suo blog il vero motivo per cui la situazione in Italia sarebbe precipitata. Perché da noi si usa il bero (bacio in bocca, umido) mentre nel resto d’Europa (!) il chu (bacio secco, “a stampo”).

Quanto al motivo per cui i nostri medici e infermieri si infettano è evidente: perché abbiamo tutti il vizio di toccarci, dalla stretta di mano alle pacche sulle spalle. Su questo ultimo dettaglio forse qualcosa di vero, in effetti c’è: in Corea, dove i test vengono effettuati per la maggior parte all’esterno, addirittura attraverso il finestrino della macchina, il personale sanitario contagiato è molto minore. In Giappone questo dato manca, anche perché i test, come abbiamo visto, non li fanno, o non li fanno a sufficienza. 

Immunità di gregge o lockdown. La scommessa di Abe

Nei prossimi giorni si dice che il governo giapponese prenderà nuovi e più stringenti provvedimenti. Vedremo. Per ora, notiamo ancora una volta la stato confusionale che la nuova emergenza ha provocato, esattamente come nove anni fa. Dopo aver ripetutamente annunciato che la situazione era “under control” (quanto gli piace, quest’espressione) il premier Abe ha improvvisamente ordinato la chiusura di tutte le scuole.

Una decisione apparsa affrettata, inutile (non sono certo le scuole, né i giovani i luoghi e le persone più a rischio) e inopportuna. Al punto che alcune prefetture (le nostre regioni) si sono rifiutate. Una decisione che ha creato enormi disagi alle mamme lavoratrici, costrette a restare a casa e quindi a licenziarsi. Pare che presto verrà riconosciuta un’indennità: ma si parla di dodicimila yen, meno di cento euro. Un’elemosina che non risolverà di certo la perdita di un reddito spesso indispensabile per andare avanti.

Per il resto, tutto come prima: il governo ha solo “suggerito” di cancellare eventi sportivi e manifestazioni pubbliche, ma senza vietarle. In occasione della fioritura dei ciliegi, come abbiamo avuto modo di verificare di persona, tutti i parchi erano strapieni di persone, che hanno disatteso in massa i “suggerimenti” delle autorità. Mancanza di senso di responsabilità individuale, certo: ma come ho già avuto modo di scrivere, questo è un paese dove un “suggerimento” vale come un ordine. Il fatto che non sia stato rispettato dipende anche dalla scarsa credibilità, e dall’assenza totale di controlli.

Gli abitanti di Tokyo al parco Yoyogi per la fioritura dei ciliegi (foto di Raffaella Cittadini)

Del resto perfino l’arcigna governatrice di Tokyo, Yuriko Koike, si era lasciata scappare nei giorni immediatamente precedenti la fioritura, in diretta tv, un invito a non disertare il tradizionale hanami, l’evento nazionale che ogni anni porta milioni di giapponesi a osservare la meraviglia dei ciliegi in fiore e farci baldoria attorno. “Sarebbe come impedire agli italiani di abbracciarsi”, ha detto la Koike senza evidentemente sapere che in Italia abbracci, baci e strette di mano sono da tempo fuorilegge.

Il governo non ha nemmeno imposto alle aziende di ricorrere, ove possibile, al tereboruku ( lo smart working, lavoro da casa, fenomeno praticamente sconosciuto in Giappone) né “consigliato” di starsene il più possibile a casa. Stazioni, treni, autobus e ristoranti continuano a essere strapieni, e i media locali, anziché fare opera di sensibilizzazione, ci scherzano su. 

Il ritardo con cui il governo Abe sta affrontando l’emergenza virus, vale la pena ricordarlo ancora una volta, richiama quello di nove anni fa. Anche allora il governo, totalmente impreparato a una emergenza nucleare (considerata impossibile) attese lunghi giorni prima di ordinare l’evacuazione. Che venne poi effettuata in modo confuso e inadeguato, con gente anziana e malata che poteva e doveva essere lasciata sul posto e che invece è morta durante il trasferimento forzato e improvviso. Gli errori di allora (quarantamila persone ancora in attesa di rientrare) sono sotto gli occhi di tutti, ma sembra che le autorità non ne abbiano tratto alcuna lezione. Speriamo bene.

Gli abitanti di Tokyo al parco Yoyogi (foto di Raffaella Cittadini)

Se in Asia il nuovo virus ha provocato un’ondata di sentimenti anti-cinesi (ma dopo il recente e speriamo non troppo affrettato annuncio di “vittoria” il fenomeno è decisamente in calo) in Europa il “dagli all’untore” è stato esteso a tutti gli asiatici. Cittadini filippini, bengalesi, “orientali” in genere sono stati vittime di aggressioni, insulti, discriminazioni varie. Abbiamo visto di peggio.

In Giappone, paese dove la violenza (sia verbale che fisica) è poco diffusa, il fenomeno è rimasto circoscritto ad alcuni isolati episodi, soprattutto a bordo di treni. È stato comunque un po’ scioccante – ma istruttivo – leggere di casi in cui a cittadini italiani è stata rifiutata l’entrata in un ristorante di Tokyo e persino in un albergo di Nagoya. Certo, dà fastidio, ma ogni tanto fa bene ritrovarsi dalla parte dei diseredati, discriminati, stranieri di “serie B”. 

Ma anche qui, l’impatto sarà a lunga scadenza e non sarà di poco conto. Esattamente come ancora oggi le persone che vengono dalla zona di Fukushima – e i prodotti agroalimentari di quella regione – sono oggetto di dubbi e perplessità, così è lecito immaginare che nei prossimi mesi, forse anni, i cittadini europei (e in particolare noi italiani, nostro malgrado i più colpiti dal contagio) e i nostri prodotti subiranno un – in parte giustificato e certamente subito sfruttato dalla concorrenza – calo di popolarità. Ma c’è ben altro di cui preoccuparsi, oltre al destino del nostro olio di oliva e dei nostri prosciutti.

La fine di Abe e il rischio Giappone

La caparbietà – o irresponsabilità – con cui il premier Shinzo Abe sta cercando di portare a casa le “maledette” Olimpiadi (il termine è stato usato nei giorni scorsi dal suo vicepremier e ministro delle Finanze, Taro Aso, durante una seduta parlamentare, ricordando l’edizione del 1940, quando le Olimpiadi, assegnate al Giappone, vennero annullate a causa della guerra) non è certo legata al suo amore per lo sport. Settore per il quale ha sempre dichiarato di non aver particolare interesse (a differenza di molti suoi predecessori, non assiste nemmeno ai tornei di sumo, lo sport nazionale).

Per lui, divenuto senza troppa fatica il leader più longevo del dopoguerra, è oramai una questione personale, di sopravvivenza politica. Resosi conto che non riuscirà a passare alla storia come il premier che è riuscito a realizzare la riforma costituzionale (ne ha da tempo i numeri in parlamento, ma si è convinto che il progetto non passerebbe l’ostacolo del referendum popolare, richiesto dalla costituzione stessa) vuole almeno legare il suo nome alla resurrezione economica del paese. Un obiettivo che si era posto sin dal suo ritorno al potere, nel 2012, ma che alla fine dei conti, e ben prima che arrivassero i colpi del virus, non è stato raggiunto.

Nonostante la fanfara di cui ha goduto, in patria e all’estero, la sua Abenomics non ha prodotto quello che ci aspettava: il paese continua a galleggiare, alternando periodi di crescita “zero virgola” a fasi, come quella attuale, di vera e propria recessione. Nell’ultimo trimestre del 2019 – ben prima dunque dell’impatto del virus – il Pil giapponese ha denunciato il calo più grave degli ultimi otto anni: meno 6 per cento. Se anche il primo trimestre del 2020 denuncerà un ulteriore calo, come sembra oramai certo, il Giappone entrerà di nuovo in piena e formale recessione.

In un tale contesto, perdere le Olimpiadi, che tra costi sostenuti e mancati guadagni valgono oltre venti miliardi di dollari, non rappresenta solo un danno immediato, ma un colpo mortale per il futuro. Uno studio della Banca centrale del Giappone spiega con grande chiarezza che a preoccupare, in caso di cancellazione delle Olimpiadi, non sono tanto i soldi già spesi o stanziati per la realizzazione di nuove strutture e la ristrutturazione di quelle già esistenti – parzialmente sottoscritti dal CIO e da vari sponsor e che comunque insieme valgono meno dello 0,2 per cento del Pil – quanto il continuo calo della produzione industriale (sempre meno competitiva rispetto alla Cina, alla Corea e ad altri paesi del Sud-Est asiatico) e il probabile crollo dell’industria dei servizi, negli ultimi tempi divenuta sempre più determinante.

Taro Aso, vicepremier e ministro delle finanze. Ha parlato della maledizione che incombe sulle Olimpiadi ogni quarant’anni (1940, guerra, 1980, boicottaggio Usa, 2020, virus)

Pensiamo al turismo. L’anno scorso il Giappone ha ospitato quasi quaranta milioni di turisti (soprattutto cinesi) che hanno speso oltre quaranta miliardi di dollari. Quest’anno, e sono solo previsioni, saranno meno della metà, ed il calo per ora è dovuto solo a causa del virus. Se saltano le Olimpiadi, le presenze saranno ulteriormente dimezzate. Forse è per questo che non solo politicamente, ma anche fisicamente, Shinzo Abe non si concentra sul virus. Kao wo dasenai, come si dice qui: non ci mette la faccia.

Oltre a essere l’unico leader a non essersi mai rivolto direttamente alla popolazione, limitandosi a un paio di conferenze stampa come al solito “addomesticate” da domande concordate, ha partecipato solo saltuariamente e per pochi minuti alle numerose, ma di fatto inconcludenti, riunioni della commissione nazionale di esperti da lui stesso istituita. Il 16 febbraio, quando venne confermata la prima vittima ufficiale del virus, lasciò la riunione dopo il saluto di rito, preferendo andarsene a cena con Tsuneo Kita, Ceo del gruppo editoriale Nikkei e suo grande supporter (anche se negli ultimi giorni il giornale sembra essere molto preoccupato per il crollo della Borsa e comincia a esprimere, nei suoi editoriali, qualche dubbio sulle capacità del governo di gestire l’emergenza).

Da allora vi partecipa solo per pochi minuti, come se la cosa non lo riguardasse: atteggiamento curioso, se si pensa che Abe, a differenza della maggior parte dei suoi predecessori, ha sempre voluto mostrare il suo carattere decisionista, di leader politico capace di assumersi le proprie responsabilità. E in effetti sembra stia preparando un bel colpo di scena. Un taglio alla – questa sì “maledetta” per chiunque abbia avuto a che farne – shohizei, cioè l’Iva. Una tassa che ai giapponesi non va giù, che ha fatto cadere governi su governi (pensate, fino a vent’anni fa era appena del 3 per cento e ora è arrivata, lasciando molti cadaveri per strada, al 10 per cento) e che ora Abe sta meditando di ridurre. Basterà? 

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Da Fukushima al Covid-19. Quando la storia si ripete ultima modifica: 2020-03-21T12:52:07+01:00 da PIO D'EMILIA
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2 commenti

Katsuya 22 Marzo 2020 a 5:49

Pio, grazie.
Sarebbe bellissimo poter avere questo articolo anche in Inglese (certo, posso tradurmelo, ma non sarebbe ufficiale).
Credo vada letto da molti, non solo italiani.

Reply
Simona Stanzani 22 Marzo 2020 a 16:11

grande Pio. condivido [in tutti i sensi]

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