Viviamo in un tempo sospeso. Da quando ci ha raggiunto un’epidemia, della quale poche settimane fa ci giungevano nei tele o radio giornali “lontane” notizie dalla Cina. Ma la Cina è vicina. Se nel film di Bellocchio del 1967 era solo una scritta sul muro, oggi sono viaggi di affari, manager nostrani che vanno e vengono, cinesi che lavorano da noi.
E, cinquantatré anni dopo, da non si sa quale paziente zero, da due paesi del Veneto e della Lombardia l’epidemia di coronavirus è “sbarcata” in Italia, e in un mese ha dato al nostro paese alcuni primati mondiali (forse provvisori, certamente poco invidiabili): quello dei contagi, quello dei morti.
È arrivata al Nord portando al collasso le sanità regionali meglio organizzate (ma rivelando come i tagli alla sanità presentano alla fine il conto salato). Ha cominciato poi a diffondersi nel resto del paese. E poi in Europa. E poi nel mondo.
Pandemia. È la globalizzazione.
Siamo in un tempo sospeso. In Italia 64.000 infettati. Più di seimila morti. E siamo “solo” all’inizio della primavera. E non è ancora certo che sia stato raggiunto il picco del contagio. Con un tasso di mortalità attorno al dieci per cento, molto più alto di quello registrato nel resto del mondo. Anche se forse gli infettati sono molti di più di quelli rilevati, per una carente gestione delle politiche di individuazione dei casi, in particolare tra gli asintomatici.
Il governo è intervenuto, tagliando ogni occasione di incontro non necessario, per bloccare la diffusione del contagio. Perché contagio e morti sono più forti nelle zone più produttive, in Italia come nel resto del mondo. Ma si discute per quanto tempo “chiudere” e i sindacati si vedono costretti a minacciare uno “sciopero generale” per salvaguardare la salute dei lavoratori lasciandone a casa in questa fase il maggior numero possibile.
Come viviamo questi giorni? Alcuni, pochi, sono quelli che curano, assistono, stanno con i malati. O ci assicurano i servizi considerati essenziali, di cura, alimentazione, energia, rifiuti, informazione, comunicazione. Tentano un contenimento, rischiano di contagiarsi a loro volta, sono sottoposti a fatiche fisiche e morali estenuanti.

È partito, fin dove possibile, il lavoro che si può fare da casa. Per chi è abituato a farlo da sempre, come me, ma anche per chi deve inventarselo, quelli cui è affidato il tentativo di tenere in piedi l’istruzione e i servizi degli enti locali e mandare avanti le aziende. Ma il lavoro non sempre può essere “agile”. Chiedete a una cassiera di supermercato o a un manutentore della rete elettrica se non preferirebbero il lavoro agile da casa.
In ogni caso, una gran parte di noi è “costretta a casa”. Stiamo più fermi, possiamo leggere di più, abbiamo più occasioni per pensare, in questo tempo apparentemente sospeso. Quando ci si incontra – telefonicamente in due o in assemblee telematiche su piattaforme digitali (nelle ultime settimane ne ho frequentate più di qualcuna, dai venticinque ai sessanta partecipanti) – si coglie prima di tutto la preziosità del contatto. Poi ci si scambiano esperienze sul come si vive questa “nuova” condizione. Non si sa quanto durerà ma stiamo cercando di familiarizzarci, con più o meno fatica. Concentrandoci soprattutto sul non incontrare il virus, perché le notizie che ci arrivano dalle zone più colpite sono sempre più devastanti.
Cerchiamo di evitare la contaminazione stando a casa. Spesso mettiamo in comune le pratiche di solidarietà possibile (dalla spesa portata a casa all’auto-costruzione delle mascherine). E poi si pensa al futuro, alle idee, ai progetti. Ognuno di noi ha il suo “dopo”.
Ma credo che comune a tutti sia la convinzione che – comunque – “nulla sarà come prima”. Come deve aver pensato la generazione del dopoguerra. Desideri e idee di futuro devono essere “discontinui” per darci delle prospettive che evitino le condizioni per una “ricaduta”.
Non ho trovato sorprendente che per pulire l’aria nelle zone più inquinate del mondo la saggezza ambientale sistemica abbia dovuto utilizzare un virus e un salto di specie (probabilmente favoriti dalla restrizione di habitat dovuti alla deforestazione). Né che lo abbia veicolato attraverso la globalizzazione degli scambi e delle relazioni economiche e commerciali.
La natura ha dato in passato molte prove di essere capace di auto-rigenerazioni evolutive. Ora sembrava in difficoltà a fronte dell’aggressione all’ambiente associata a uno sviluppo economico talmente fuori controllo da aver dato il nome di “antropocene” alla nostra era geologica. Quella in cui le azioni umane rischiano di mettere in discussione le basi stesse della vita.
Invece, ancora una volta, la natura ha dimostrato di saper trovare, anche in una situazione compromessa, la forza per rigenerarsi. Ha utilizzato una pandemia che sta portando lutti (certi) e (parziali) disagi. Disagi a doppia faccia. Nicole Janigro spiega perché:
Il diktat del rimanere chiusi a casa propria, comprare quanto è essenziale, non frequentare nessuno e lavorare il meno possibile destabilizza chi è cresciuto con l’imperativo categorico di dover socializzare/produrre/consumare.
Il blocco di tutte le attività industriali, economiche e di servizio, non indispensabili alla cura e alla sopravvivenza, immiserisce la nostra natura di consumatori compulsivi. E siamo “storditi” da questo rallentamento, da questo silenzio.
Ma ci fa capire che senza fabbriche e senza usare i mezzi di trasporto si è arrivati in pochissimo tempo a sostanziali progressi in campo ambientale. La qualità dell’aria è migliorata. La corsa del riscaldamento globale – che sembrava inarrestabile – ha frenato.

Certo non sono dati definitivi, ma hanno portato in pochissimo tempo a una straordinaria inversione di tendenza e a risultati misurabili che nessuna campagna ambientalista, nessuna Greta, nessuna Cop, nessuna iniziativa degli stati, dell’economia o della finanza avevano mai potuto raggiungere.
In queste settimane abbiamo registrato un sostanziale calo di quelle immissioni (particolato fine Pm 2,5, ozono O3 e ossido di azoto Nox) che, stando al rapporto 2015 sulla qualità dell’aria in Europa, hanno provocato (nel 2012) più di 524.000 morti a livello continentale, 84.400 dei quali in Italia.
Un recente numero del mensile La nuova ecologia attesta che le immagini dal satellite diffuse dall’Esa rendono visibile l’effetto sull’inquinamento delle misure per fermare l’epidemia. Un’animazione diffusa dall’Esa mostra le fluttuazioni delle emissioni di biossido di azoto in Europa dal primo gennaio 2020 all’11 marzo 2020. Spiega Claus Zehner, responsabile della missione Copernicus Sentinel-5P dell’Esa:
Il calo delle emissioni di biossido di azoto nella Pianura Padana nel nord Italia è particolarmente evidente. Anche se potrebbero esserci lievi variazioni nei dati a causa della copertura nuvolosa e del cambiamento delle condizioni meteorologiche, pensiamo che la riduzione delle emissioni che possiamo vedere, coincida con il blocco in Italia che causa meno traffico e attività industriali.
Questo è un dato unanimemente condiviso dalla comunità scientifica, che appare anche concorde nel riconoscere (cito le parole di Carlo Carraro, ex rettore dell’università veneziana di Ca’ Foscari e presidente delle European Association of Environmental and Resource) che:
sono numerosi gli studi che dimostrano come la presenza di livelli di particolato – parliamo di Pm 2,5 e Pm 10 – sia un vettore che favorisce la diffusione dei virus. […] I livelli di inquinamento urbano più elevato accrescono quindi la diffusione del virus, anche indipendentemente dai contatti tra le singole persone.
Abbiamo capito che l’inquinamento atmosferico è un veicolo della trasmissione del virus, e che provoca ogni anno un numero di morti impressionanti. Forse superiori a quelli che provocherà il coronavirus; sicuramente non arrestabile da uno specifico vaccino come quello che si spera verrà reso disponibile entro pochi mesi e consentirà di arrestare la pandemia.
Abbiamo visto come in condizioni eccezionali esso possa essere sostanzialmente ridotto in poche settimane. Come tutti, non vedo l’ora di “tornare a vivere”. Di uscire dalla condizione di confinato, di poter passeggiare, lavorare fuori casa, viaggiare, andare in montagna.
Ma non voglio assolutamente tornare alla situazione “pre virus”. Non mi interessa ripartire dalla casella dove ero prima che i dadi mi facessero incontrare un “imprevisto”, come a Monopoly. Forse la pandemia da Covid-19 può dare una svolta all’antropocene, che la Treccani intende come:
L’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera.

La domanda è se si può passare a un cambio di fase, da un “antropocene uno” a un “antropocene due”. Il primo è stato caratterizzato dalla “crisi ecologica”: crescita degli effetti negativi dello “sviluppo globalizzato” che ha portato all’intaccamento del capitale naturale (risorse ed energia), alla crisi ecologica e da ultimo a quella sanitaria globale.
Il secondo potrebbe essere caratterizzato dalla “rinascita ecologica”. Se anche la nostra specie riuscirà – sotto l’impulso della spinta auto rigenerativa della natura che reagisce per salvarsi – ad autoregolarsi entro i limiti imposti dalla limitatezza delle risorse.
Proverò a ragionare su questo “antropocene due” in successivi contributi, toccando alcuni temi che spieghino come si potrebbe muoversi:
1) la lotta al cambiamento climatico (come i piani clima debbano investire città e territori);
2) un ripensamento dell’economia globalizzata (valutando il più globalizzato dei settori, quello turistico);
3) la centralità della relazione comunitaria per una riflessione su città, territorio e società.

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