Ce lo dissero i maestri, ce lo dissero filosofi, scrittori, poeti, pittori, anche i musicisti lo dissero con la bellezza della loro arte che parla moltissimo. Così da sempre noi sappiamo che c’è una “relazione originaria tra l’uomo europeo e il paesaggio”. Lo disse con lucido sentimento storico lo scrittore e filosofo George Steiner, scomparso lo scorso febbraio, che pose alcuni punti fermi nel definire una certa idea d’Europa, tra cui:
I suoi caffè, un paesaggio su scala umana e percorribile, la strada e i quartieri che prendono il nome da statisti, scienziati, artisti, scrittori del nostro passato.
E nel ricordare caffè come il Café Central, Il Deux Magots o Il Florian, Steiner riprende un pensiero di Walter Benjamin:
Finché ci saranno locali come questi l’idea di Europa avrà un contenuto.
L’Europa, spazi e tempi umanizzati, la terra dei viandanti, dei camminatori, dei pellegrini, la passeggiata quotidiana di Kant, il suo cronometrico attraversamento di Königsberg, le meditanti camminate di Rousseau, il vagabondare di Kierkegaard dappertutto a Copenaghen, appartengono alla leggenda dell’Europa.

Come non sorprenderci allora quando sui giornali o per tv o sui nostri cellulari ci raggiungono le immagini emblematiche di città vuote, di un vuoto che ci lascia solo supermercati, farmacie, ospedali e non più le istituzioni culturali, le librerie, le sale da concerto, i teatri, i caffè? Da quando non ci sono più i caffè dove si potevano osservare Italo Calvino, Montale, Pound, Arbasino, Sartre, Parise e “il tutto” che ospitarono in certi momenti locali come l’Harry’s bar, la Colomba, all’Angelo, Montin?
Ci sono tanti modi di vivere e affrontare il vuoto e magari ci fosse solo il vuoto delle piazze, delle strade. Per esempio c’è il vuoto di idee per il Dopo, di che cosa si farà a partire dal giorno Dopo a Venezia, ed è un vuoto di idee che sembra appartenere al sindaco Brugnaro, muto per un mese dopo aver sperato che il virus fosse una specie di scherzo di Carnevale. Comunque quel vuoto di idee per il futuro non appartiene solo all’attuale sindaco di Venezia, purtroppo.
Dunque Venezia, dove le strade e le piazze hanno i nomi di antichissimi mestieri, di botteghe e arsenali spariti da secoli, di famiglie che fecero la città, di comunità di genti giunte da più parti d’Europa, di Santi che vollero le loro chiese e di Parole create dalla fantasia di coloro che qui vissero e si stupirono con aggettivi per dare memoria delle loro esperienze di vita e di lavoro.
Ma quel vuoto che spaventa più di qualcuno, a Venezia sembra mostrarsi meno vuoto rispetto ad altre città, e questo per l’irrompere dalla laguna del popolo degli uccelli, di anatre, di cormorani, di cigni addirittura, seppure stando a San Trovaso non si capisce dove siano finiti i gabbiani. In un certo qual modo Venezia città rientra nel paesaggio o forse è il paesaggio che si riappropria di tutta la città, dei suoi nuovi, severi silenzi, con i suoi nuovi residenti fino ad ora marginali. Residenti occasionali venuti dalle foci dei fiumi, dalle valli da pesca o da cieli e acque ancora più lontane. E noi che dobbiamo e vogliamo stare a casa lo vorremmo vedere questo nuovo paesaggio, che nient’altro è che il paesaggio più originario di questo angolo d’Europa e se ci fossero i maiali del convento di Sant’Antonio in giro per i campi e le calli avremmo ritrovata la Venezia delle origini, con i compositi paesaggi del suo silenzioso, millenario arcipelago.

Almeno per un po’, per quanto durerà questo tempo inatteso, speriamo breve, ma che cesserà quando torneremo a non voler vivere, a non voler capire l’opera d’arte che è Venezia e come lo è qualunque città antica d’Italia o come lo sono i Colli Euganei o la Val d’Orcia o la Sila, eccetera, eccetera. Le immagini delle città vuote, desertificate, angoscianti (De Chirico dipinse più volte piazze d’Italia angosciose), hanno richiamato in uso la parola surreale.
Trattandosi di immagini è corretto rifarsi al Surrealismo perché immagini
assolutamente verosimili, addirittura ovvie, vengono associate e combinate in un contesto scandalosamente incongruo, inesplicabile, assurdo (Argan).

E l’assurdo è stato colto da Sandro Veronesi, scrittore assai bravo, che pochi giorni fa ha accostato tra loro il famosissimo quadro di Magritte “Golconda” e la fotografia di file e file ordinatissime di persone in coda per entrare, in stile cinese, in un supermercato a Prato. Prato, la città più cinese d’Italia e che sembra aver retto meglio di altre al diffondersi del contagio. Lasciamo a Magritte ciò che è di Magritte e prendiamoci da Veronesi quanto la sua fulminea intelligenza critica ha scritto per noi:
Perché, evidente quanto la parentela con Magritte, in quella foto c’è un che di cinese che affratella: qualcosa di cui fino ad oggi noi, in quanto italiani, davamo per scontato di essere incapaci, qualcosa di militaresco, certo, e dunque di pregiudizialmente incompatibile con la vulgata delle libertà al plurale che prolifera in seno alle democrazie occidentali. E invece….
Noi a Venezia intanto teniamoci caro il Magritte surrealista che mette assieme il banale e il mistero per meglio scandalizzarci, nel tentativo di farci comprendere il fascino di una città e di un paesaggio e di spazi e di tempi finalmente disposti ad accettare la banalità di essere una vera città, essendo immersa nel mistero di un paesaggio connaturato a quella certa idea d’Europa. Tra l’altro, quando sarà finita, troverei surreale non invitare Sandro Veronesi da Prato per osservare assieme a lui “L’Impero della luce”, che dalla Guggenheim illumina i giorni e le notti di libere attese. Libere, perché senza paure.
La foto d’apertura è di Andrea Merola

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