In quest’epoca di vite cambiate ci si esercita molto su quello che non sarà più come prima. Dalla psiche all’economia, dalle abitudini quotidiane alla politica. Non saranno più importanti le cose che sono importanti oggi o che lo erano ieri. I no vax non emettono neanche una sillaba. Gli esperti imperversano dagli schermi televisivi.
Persino la globalizzazione non sarà più la stessa. Forse il mondo capirà di essere troppo fragile per giocare a farsi le guerre l’uno contro l’altro. Per intanto questi effetti non si vedono, al contrario, per ora lo scenario è di violenza e di guerra, ciascuno per sé, si chiama accaparramento. Gli aiuti hanno tutta l’aria di avamposti per la creazione di futuri protettorati. Riemerge a tradimento un verso di Dante:
Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!
No, non siamo a questo punto, ma non sempre dominiamo le nostre connessioni emotive e cerebrali.
Insomma, si parla tanto, si scrive anche di più, si riflette. Esigenza professionale o sfogo personale.
Al nuovo clima ci siamo ormai abituati. E anche al cambiamento di ritmi e condizioni di vita, cui per ora siamo costretti. Ma certo, qualche cosa di profondo è successo.
Ed è la percezione del mutamento di prospettiva che l’ingresso tra noi del virus, con questa estensione, con questa facilità di diffusione e con questa dose di letalità, ha prodotto, anche se non ne siamo ancora completamente consapevoli.
Mutamento di prospettiva, mi spiego: prima il tema era il rapporto tra noi umani e il pianeta terra, l’incidenza che l’opera dell’uomo aveva prodotto nel tempo sull’ambiente, l’alterazione del clima e i rischi, peraltro serissimi, che ne derivano. Un tema in cui il dominus era pur sempre l’uomo; se pur si trattava di censurarne l’operato, di temere per il futuro del pianeta, l’uomo era pur sempre in posizione dominante, il dominus della situazione, che poteva continuare come prima o correggersi. Ora il tema è la lotta tra l’uomo, il genere umano, e i virus, in cui non è affatto detto che sia l’uomo il dominatore.
È presto per dire quali saranno le conseguenze sui nostri comportamenti, a cominciare dalla globalizzazione, l’ultima delle globalizzazioni. E dai rapporti tra paesi, niente affatto facili.
Certo è che la percezione della nostra debolezza – rimediabile forse, ma non è detto – induce a ripensare molti dei nostri comportamenti, colloca tutto in altra, appunto, prospettiva.
Qui vengono in soccorso due recenti rapporti che trattano della nostra capacità di difesa, di reazione a un attacco dei virus, A World at Risk (OMS e Banca mondiale, settembre 2019) e Global Health Security Index (Johns Hopkins University, ottobre 2019). Rapporti che tra l’altro, molto altro, smentiscono l’idea che questa epidemia non fosse prevedibile.

È stata l’epidemia di Ebola (2014-2016), a far decidere l’OMS e la Banca mondiale alla predisposizione di una vigilanza mondiale per le emergenze sanitarie, attraverso il Global Preparedness Monitoring Board (GPMB) e i suoi esperti, l’uno e gli altri indipendenti dai due committenti. L’OMS ha accertato tra il 2011 e il 2018 una successione di 1483 focolai epidemici in 172 paesi. L’influenza, la SARS (sindrome respiratoria acuta severa), la MERS (sindrome respiratoria del Medio Oriente), l’ebola, lo zika, la peste, la febbre gialla, per citare le principali. E ne ha dedotto che si poteva prevedere un nuovo periodo caratterizzato da una maggiore frequenza di focolai dalle conseguenze nefaste, a propagazione rapida, ogni volta più difficili da controllare. Il GPMB è stato incaricato di predisporre dei rapporti annuali sul rischio epidemico, il primo dei quali è stato pubblicato nel settembre 2019, con il titolo A World at Risk. Lo scopo, prevedere le emergenze sanitarie e mitigarne gli effetti.
Il rapporto si basa sulla ragionevole previsione di un’imminente pandemia provocata da un virus delle vie respiratorie potenzialmente letale.
Preparing for and managing the fallout of a high-impact respiratory pathogen pandemics; lessons learned and persistent gaps revealed by recent outbreaks of Ebola virus disease in Africa.
E considera gli effetti sanitari, economici e sociali. Neppure tre mesi dopo quel tipo di virus era già in circolazione.
Nello stesso periodo (ottobre 1919) è uscito il GHSI, Global Health Security Index, secondo il quale
national health security is fundamentally weak around the world. No country is fully prepared for epidemics or pandemics, and every country has important gaps to address. [i sistemi sanitari nazionali sono fondamentalmente deboli nel mondo. Nessun paese è del tutto preparato a epidemie e pandemie, e ogni paese ha considerevoli lacune da affrontare]
Il rapporto costituisce la prima valutazione completa basata su analisi comparativa in merito alla sicurezza sanitaria e capacità correlate di 195 paesi che fanno parte dell’OMS. L’indice GHS – quantificando i profili di ogni singolo paese – cerca di mettere in luce tali soggettive lacune per incentivare sia la volontà politica che i finanziamenti per colmarle a livello nazionale e internazionale.
Il punteggio complessivo medio del Global Health Security Index è di 40.2 su un punteggio possibile di cento. Di qui la conclusione: No country is fully prepared for epidemics or pandemics, and every country has important gaps to address.
Pare che i paesi asiatici aspettassero la nuova epidemia mortale fin dal 2003, l’anno della SARS. Noi stiamo imparando adesso.
Il rapporto A World at Risk suggerisce metodi e comportamenti, con particolare riguardo alla collaborazione tra paesi e alla pianificazione dei rischi economici insieme a quella dei supporti medici. L’approccio One Health considera interconnessi salute umana, animale e ambientale, da affrontarsi insieme per far fronte alle pandemie. Per questo occorre la disponibilità di professionisti con accesso a una formazione specializzata. Mentre l’istruzione medica tradizionale non comprende una formazione estesa su temi di sicurezza sanitaria quali la bio-sicurezza, la prevenzione e il controllo delle malattie infettive. Ma soltanto il cinque per cento dei paesi dispone di un piano o politica di condivisione di dati genetici, campioni clinici e/o materiali biologici isolati che si estendano al di là dell’influenza (virus). E solo il 28 per cento dei paesi dimostra pubblicamente di incorporare epidemie e pandemie nella propria strategia nazionale di riduzione del rischio o di disporre di una strategia nazionale autonoma di riduzione del rischio per le pandemie.
Non si può che restare stupefatti – da comuni cittadini – di fronte a documenti di questo tipo e contenuto, il primo commissionato dall’OMS, quindi anche da noi, che non hanno prodotto alcuna iniziativa di prevenzione, protezione, organizzazione, o almeno non se ne ha notizia. Certo, è passato pochissimo tempo tra la previsione dell’evento, nel senso della sua probabilità, e l’evento stesso. Ma non crediamo di sbagliare dicendo che le cose non si sarebbero svolte diversamente se il virus fosse comparso a inizio 2021 anziché ad inizio 2020.
Conclusione: non c’è consapevolezza e quindi non c’è prevenzione. Meno ancora c’è collaborazione, prevista, pianificata, organizzata. Meno che mai c’è la disponibilità ad autotassarsi – come suggerisce il primo dei due rapporti – per aiutare i paesi più poveri. Non c’è la consapevolezza della sfida che i virus costituiscono per la nostra vita e il nostro sistema economico e sociale. Per ora c’è l’accaparramento.

Nell’immagine d’apertura accampati all’aeroporto moscovita Vnukovo diverse centinaia di cittadini del Tajikistan e dell’Uzbekistan dopo la chiusura delle frontiere.

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