Covid-19, per l’economia italiana (forse) è la volta buona

La struttura produttiva del nostro paese non è messa bene e le prospettive di sviluppo sembrano scarse. Dopo vent’anni di stagnante produttività anche la struttura delle esportazioni sembra deteriorata. Ma la crisi ci potrebbe obbligare a darci quella politica industriale che manca da decenni.
GILBERTO SERAVALLI
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Siamo alle solite. Pare proprio che nelle grandi disgrazie il realismo sia destinato a essere spazzato via dagli ottimisti a tutti i costi e dai pessimisti. Ma almeno questi sono costretti in qualche modo a motivare, a dire perché le cose andranno male, mentre gli ottimisti dell’“andrà tutto bene” possono farne a meno sfruttando il bisogno spasmodico della gente di sperare per il meglio. Si arriva all’ottimismo “dell’abracadabra”, come quello di Romano Prodi che dice

[…] quando l’Italia tornerà a vivere in una sostanziale tranquillità tutte le energie represse in questa fase torneranno a essere liberate come succede con le molle e se all’impulso che viene dato oggi all’economia seguirà anche una normalità dell’offerta sono certo che l’Italia potrà vivere una nuova primavera.

(Il Foglio, 20 marzo 2020, p.1)

Non mancano comunque motivi di ben sperare, a certe condizioni, e uno viene considerando con attenzione la struttura produttiva, come oggi si può fare. Sì oggi, perché soltanto quindici anni fa non si poteva. Risale infatti solo al 2007 il fondamentale saggio di C. A. Hidalgo, B. Klinger, A.-L. Barabási, R. Hausmann The Product Space Conditions the Development of Nations pubblicato da Science (27 luglio), un evento perché questa prestigiosa rivista non ha mai dato molto spazio agli economisti. Quell’articolo inaugurava un progetto di lunga lena che ha condotto il MIT’s Observatory of Economic Complexity a fornire una grande base dati e avanzati metodi di elaborazione, oggi in linea, per esplorare i nessi tra sviluppo e strutture produttive disaggregate fino a 5.300 prodotti, in centosedici paesi che rappresentano il 98 per cento del reddito e l’87 per cento del commercio mondiale. 

La struttura produttiva, ossia l’insieme variegato dei suoi processi produttivi, resta in ombra nei due approcci più praticati dell’analisi economica. L’approccio “micro” considera efficienza e soddisfazione dell’impresa, dell’acquirente del mercato. Nell’approccio “macro” si considera il sistema nel suo complesso e si giudica che l’economia vada bene se tutte le risorse di lavoro e capitale sono impiegate mentre progredisce la loro produttività.

L’analisi della struttura produttiva è invece propria di un terzo approccio, si potrebbe dire “meso”. Grandi economisti dello sviluppo avevano individuato un nesso tra sviluppo ed evoluzione della struttura produttiva notando che i paesi avanzati esportavano beni ad alto impiego di capitale, lavoro qualificato, infrastrutture, buone istituzioni, tecnologie complesse mentre i paesi arretrati esportavano beni ad alta intensità di terra e risorse naturali, lavoro poco qualificato, tecnologie semplici. Avevano perciò immaginato una sequenza continua di prodotti e processi con crescente complessità delle tecnologie e crescente intensità di capitale (fisico, umano, sociale) sicché le economie potevano andare avanti appena avessero avuto fattori o tecnologie adatti.

E siccome nei settori moderni il valore aggiunto sul fatturato era maggiore che nei tradizionali, si poteva stabilire un circuito virtuoso tra sviluppo e cambiamento strutturale. Si consideravano ostacoli allo sviluppo, quindi, le inerzie dovute a ritardi nell’adeguamento di fattori, tecnologie, istituzioni “automaticamente” provvisti più sulla base dei fabbisogni della struttura esistente che di quelli della struttura nuova.

Queste ipotesi trovavano riscontro nella realtà, si riteneva, dato che lo sviluppo appariva procedere da macro-settori tradizionali (come l’agricoltura) a moderni (industria e poi servizi) caratterizzati all’ingrosso dalle ipotizzate intensità fattoriali e (in parte) differenze tecnologiche. I dati più disaggregati necessari ad accertare davvero la tenuta di queste ipotesi non si avevano e non si hanno. Non era e non è pensabile accertare intensità fattoriali e indici tecnologici per i 1300 comparti produttivi della classificazione HS a quattro cifre per cogliere in modo esauriente le differenze, distinguendo per esempio tra vestiti da donna e da uomo i cui processi produttivi sono significativamente differenti. Non c’erano in realtà nemmeno dati di lungo periodo sul valore aggiunto settoriale se non per pochi paesi industrializzati. Il massimo che si può avere ancora oggi riguarda valore aggiunto e addetti di 10 settori (agricoltura, miniere, manifatturiero, energia, costruzioni, commercio, trasporti e comunicazioni, finanza, servizi pubblici, servizi privati) dal 1950 in undici paesi africani, undici asiatici, due del Medio Oriente, nove dell’America Latina, oltre a Stati Uniti, Germania, Danimarca, Spagna, Francia, Regno Unito, Italia, Olanda e Svezia.

Non poter accertare davvero la tenuta dell’ipotesi sui vincoli fattoriali e tecnologici (non parliamo poi di quelli istituzionali) è un problema. Potrebbe accadere infatti che sviluppo e cambiamento strutturale vengano rallentati o impediti non tanto o non solo perché mancano fattori e tecnologie più moderni, ma perché non si sa ancora combinarli in modo adeguato anche se ci sono, mentre si potrebbe anche andare avanti senza se si apprendesse il “saper fare” richiesto dai nuovi comparti produttivi. Essi potrebbero richiedere infatti non solo o non tanto tecnologie più moderne e fattori produttivi di qualità maggiore, ma solo diversi: diverse professionalità, per esempio, non tanto più “alte”, e diverse macchine, non tanto più avanzate.

È proprio sulla base di questa considerazione che ha preso avvio il progetto del MIT’s Observatory of Economic Complexity. 

Supponiamo che tutto quanto serve alla produzione sia specifico per un gruppo di prodotti. Ne deriverebbe che ciascun paese può allargare la sua struttura produttiva e crescere producendo nuovi prodotti “vicini” a quelli che produce, per i quali può utilizzare tutto quel che serve già in opera, mentre è più difficile fare “salti” verso comparti che richiedono tutt’altro. 

È questa una buona idea che permette di superare diversi a priori poco o per nulla verificabili. Nell’approccio settoriale i vincoli fattoriali e tecnologici erano assunti a priori ed erano definiti, come si è detto, in livelli. Se un paese non procedeva nello sviluppo e nel cambiamento strutturale era perché – si pensava – non aveva i livelli adeguati dei fattori e delle tecnologie a priori pensati indispensabili. La nuova idea non ha bisogno di questi a priori. Con le tecniche di calcolo e rappresentazione adeguate si può accertare quali siano i gruppi di prodotti per i quali un paese è specializzato e quelli più vicini verso i quali si muoverà, qualunque sia il complesso di fattori, tecnologie, conoscenze, istituzioni che ciascuno richiede.

Si giudicheranno perciò maggiori le opportunità di sviluppo dei paesi che hanno strutture produttive complesse, ossia con numerosi comparti già presenti che permettono avanzamenti in molte direzioni, rispetto a paesi con strutture produttive semplici che hanno davanti a sé poche strade. E non è solo questione di numero di strade aperte. Prodotti avanzati ad altissimo valore aggiunto, come potrebbero essere per esempio alcune macchine impiegate in medicina o i motori per aviazione, incorporano una varietà di conoscenze e sono il risultato di amplissime reti di persone e organizzazioni. Questi prodotti non si possono fare nelle economie più semplici nelle quali mancano segmenti rilevanti di queste reti. La complessità di una economia perciò, espressa dalla varietà della sua struttura produttiva, costituisce un potente fattore di sviluppo.

L’idea si può applicare concretamente utilizzando i dati del commercio internazionale che sono estremamente disaggregati e negli anni migliorati man mano che quasi tutti i paesi del mondo hanno adottato la stessa classificazione. Infatti è da tempo noto e sempre confermato che la struttura delle esportazioni di un paese ricalca abbastanza fedelmente quella del suo sistema produttivo. L’unico limite è che si trascurano i servizi in gran parte ancora interni e poco esportati.

Senza entrare nei dettagli tecnici, si possono riassumere in breve i risultati ottenuti al MIT’s Observatory of Economic Complexity: 1) si conferma che al livello mondiale le strutture produttive non sono affatto composte da un continuum di comparti ma da un assetto per gruppi nettamente individuabili; 2) si conferma che i paesi procedono allargando le produzioni nei comparti vicini agli esistenti, con l’eccezione dei paesi emergenti che hanno saputo fare salti. 

Riportiamo due rappresentazioni, una per i paesi ricchi, l’altra per il Sud-Est Asia e Pacifico in cui sono mostrati:

  • i) circoletti di varie misure a indicare la diversa consistenza dei comparti nelle esportazioni mondiali;
  • ii) linee che li connettono di diversa lunghezza e colore a indicare le diverse prossimità (rosse notevole prossimità, verde media, giallo-verde scarsa);
  • iii) quadratini a indicare – per i paesi ricchi e per il Sud-Est Asia e Pacifico – le presenze dei loro comparti nelle esportazioni mondiali.
Figura 1 – Rappresentazione del commercio internazionale.
Fonte: Nostra elaborazione su dati di Hidalgo, Klinger, Barabási, Hausmann (op. cit.). Per maggiori dettagli tecnici si veda nel libro in cui queste rappresentazioni furono già pubblicate: Luciano Boggio e Gilberto Seravalli, Lo sviluppo economico, fatti, teorie e politiche – seconda edizione; Il Mulino 2015.

Lo spazio produttivo si rivela tutt’altro che omogeneo presentando piuttosto una struttura centro-periferia. Al centro si trovano prodotti in metallo, macchine, elettromeccanica, mezzi di trasporto, una parte della chimica e una forte propaggine elettronica. In periferia si hanno diversi gruppi: prodotti tropicali, petrolio, prodotti della pesca, cereali e materie prime agricole, legname, prodotti minerari, allevamenti, tessile, abbigliamento e arredamento. 

Così concludono Hidalgo, Klinger, Barabási, Hausmann:

Le economie crescono aggiornando il tipo di prodotti che producono ed esportano […]. Molte produzioni ad alto valore aggiunto si trovano collocate in una densa area centrale dello spazio produttivo mentre prodotti a minor valore aggiunto occupano una periferia molto meno densa […]. I paesi tendono a muoversi verso le produzioni vicine a quelle in cui sono già specializzati, il che permette a quelli che si trovano nelle parti più dense dello spazio produttivo di migliorare la propria struttura produttiva e delle esportazioni più in fretta.

(The Product Space Conditions the Development of Nations, p. 482]

E, in un altro saggio del 2009, Hidalgo e Hausmann dimostrano che è definibile una misura di complessità delle esportazioni (ECI) la quale appare nella media di diversi paesi capace di predire lo sviluppo fatte salve circostanze che paese per paese favoriscono o rallentano il processo per cui le conoscenze legate alla complessità generano ulteriori conoscenze capaci di sostenere sviluppo ed esportazioni. 

Nel 2017 – ultimo dato disponibile – era il Giappone in testa alla complessità su cento e sette paesi (al quarto posto per valore delle esportazioni), seguito al secondo posto dalla Svizzera (esportazioni 18°), al terzo dalla Germania (esportazioni 2°), quarto Singapore (esportazioni 15°), quinto Svezia (esportazioni 31°), sesto Corea del Sud (esportazioni 5°), settimo Stati Uniti (esportazioni 3°). L’Italia veniva al 20° posto per complessità e al 7° per valore delle esportazioni. Regno Unito complessità 11° esportazioni 10°, Francia complessità 14° esportazioni 6°, Olanda complessità 18° esportazioni 8°, Spagna complessità 29° esportazioni 16°. La Cina era al 34° posto per complessità ma al primo per valore delle esportazioni.

Come si vede, la graduatoria per complessità è spesso marcatamente diversa da quella per valore delle esportazioni. Tuttavia a parte il caso estremo della Cina il cui enorme valore delle esportazioni non corrisponde alla complessità che è piuttosto bassa, tra i primi sette grandi esportatori Giappone, Germania, Corea del Sud e Stati Uniti hanno anche elevata complessità. Non l’Italia che, settima per valore delle esportazioni, è solo ventesima per complessità; una differenza che si ha anche in Francia, meno marcata ma comunque sensibile. La Francia è sesta per esportazioni e quattordicesima per complessità.

Anche dal punto di vista della struttura produttiva, dunque, l’Italia non sembra messa bene e le sue prospettive di sviluppo sembrano scarse. Dopo vent’anni di stagnante produttività anche la struttura delle esportazioni sembra deteriorata, come infatti emerge se si considera l’andamento nel tempo dell’indice di complessità ECI.

Al chiaro e forte progresso della Cina dalla metà degli Novanta del secolo scorso ha fatto riscontro una sostanziale tenuta dell’indice di complessità delle esportazioni in Germania e una riduzione in Francia ma soprattutto in Italia.

Ma il discorso non si chiude così. 

Nel luglio 2017 viene pubblicato un nuovo lavoro del MIT’s Observatory of Economic Complexity (Saleh Albeaik, Mary Kaltenberg, Mansour Alsaleh, Cesar A. Hidalgo, Improving the Economic Complexity Index) nel quale si dimostra che un indice di complessità migliorato (ECI+) riesce a predire lo sviluppo ancora meglio dell’indice ECI. Il nuovo indice tiene conto della “difficoltà ad esportare” dando maggior peso ai prodotti che un paese esporta per i quali nel mondo vi sono pochi esportatori. Se si esamina l’andamento di questo nuovo indice la condizione dell’Italia appare migliore. Il progresso della Cina appare adesso ben più marcato e, di contro, si vede un regresso anche della Germania, mentre l’Italia si difende meglio, anche rispetto alla Francia.

Tutto sta quindi nella differenza tra ECI ed ECI+. E tale differenza si deve al fatto che nella composizione delle esportazioni italiane vi sono significative quote di prodotti “esclusivi” per i quali non vi sono molti concorrenti nel commercio globale.

Ma quali sono questi prodotti? 

La lista è lunga e se prendiamo quelli per i quali è maggiore anche il saldo attivo dell’interscambio sul valore delle esportazioni (più del 30 per cento) abbiamo in ordine di “esclusività” prodotti appartenenti ai comparti: Pasta, Articoli in pelle diversi da borse e valigie, Piastrelle di ceramica, Lenti e occhiali, Lavapiatti, Macchine per imbottigliamento e inscatolamento, Lattine e macchine per la loro fabbricazione, Vino, Tubi, Macchine per l’industria alimentare, Calzature, Barche da diporto, Borse e valigie, Attrezzature e macchine per la cottura, Articoli di gioielleria, Rubinetti e valvole, Macchine per la lavorazione di gomma o plastica, Mobili, Frigoriferi e congelatori, Pompe idrauliche, Macchine di sollevamento e movimentazione, Piccoli elettrodomestici, Vari articoli di ferro o acciaio, Alberi di trasmissione cuscinetti e ingranaggi, Componenti per macchine, Medicinali, Pompe ad aria o vuoto, Navi, Sedie, Veicoli a motore per il trasporto di merci, Parti e accessori dei veicoli a motore.

Con questa lista si arriva a un terzo di tutte le esportazioni. Prendendo prodotti “esclusivi” con saldo attivo dell’interscambio fino al 10 per cento delle esportazioni la lista si allunga e resta similmente caratterizzata con aggiunte importanti di semilavorati e componenti. In questo modo si arriva al 50 per cento delle esportazioni.

C’è dunque il “made in Italy”. Ma c’è anche la nostra meccanica – articoli finiti e componenti – i prodotti di quell’industria nazionale fatta di piccole e medie imprese che hanno saputo sostenere le esportazioni italiane in tutti i lunghi anni dell’ascesa della Cina come “manifattura del mondo”. E, stando ai risultati dell’Osservatorio Mit, sono queste le industrie che ci potranno dare un forte contributo allo sviluppo anche dopo la crisi. 

La pandemia, una grande disgrazia per l’economia nostra e di tutto il mondo, potrà – se saremo all’altezza – trasformarsi in un’opportunità proprio partendo da questa struttura produttiva. Diversi prodotti subiranno cali delle vendite severe nell’immediato e sarà dunque decisivo evitare che le imprese siano costrette a chiudere.

Ma la crisi avrà conseguenze durature sull’assetto del commercio internazionale e sui suoi canali. Il costo dei prodotti avrà meno peso in rapporto alla resilienza delle reti di subfornitura che in tutto il mondo si stanno già rivedendo, verso abbreviazione, differenziazione, garanzia di continuità e qualità, possibilità di monitoraggio fine dei fornitori. La nostra industria è coinvolta sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta di subforniture. Dovrà rivolgersi di più a fornitori nazionali e potrà avere maggiore domanda da committenti esteri.

Se fino a oggi si è difesa riducendo i salari da domani dovrà garantire più affidabilità, qualità, adattabilità alle specifiche esigenze dei clienti. Servirà finalmente una politica industriale che da decenni non abbiamo. Ma servirà probabilmente soprattutto trattare meglio i dipendenti e pagarli di più perché quella affidabilità, qualità, adattabilità si potranno avere solo se essi saranno coinvolti con convinzione nelle sorti delle imprese. 

Covid-19, per l’economia italiana (forse) è la volta buona ultima modifica: 2020-03-27T15:34:00+01:00 da GILBERTO SERAVALLI
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