[…] per muovere un primo passo verso il nuovo fu necessario fermarsi.
Haim Baharier, Il tacchino pensante
Più volte in questi anni abbiamo cercato di proporre una riflessione che mettesse al centro l’estrema vulnerabilità di Venezia e del suo sistema economico e sociale locale, fortemente dipendente da due fattori a loro volta interconnessi: la rendita e il turismo. Quello che sta accadendo in questi drammatici giorni di sospensione della normale vita comunitaria, rende purtroppo questa fragilità ancora più evidente.
Due sono i motori in grado di mandare a gambe all’aria l’intero sistema di produzione, consumo e distribuzione: la globalizzazione e un modello fondato sullo sfruttamento economico del desiderio.
Il primo fenomeno è ormai ben conosciuto – e ha riempito in questi decenni centinaia di migliaia di pagine e milioni di ore di conversazioni e dibattiti: la globalizzazione, ovvero il fatto che una semplice stretta di mano da qualche parte sia in grado di produrre un terremoto finanziario da qualche altra parte del mondo. Vi sembra un’affermazione vagamente già sentita? Certo, avete ragione: è stretta parente di quel “un battito d’ala di una farfalla può causare un uragano dall’altra parte del pianeta”, che ricorre spesso quando si parla di ambiente e di fenomeni climatici. Essa rivela la medesima sostanza di fondo: l’interconnessione dei fenomeni e il fatto che questi abbiano una capacità di amplificazione del tutto imprevedibile e spesso ingovernabile.
Sulla decisione di una farfalla di battere in libertà le proprie ali, nessun umano può interferire; qualcosa invece possiamo fare rispetto all’amplificazione dei fenomeni naturali che ne derivano.

Sul rapporto tra una stretta di mano in Cina e il terremoto sociale, economico e finanziario che ne può derivare, abbiamo senz’altro responsabilità più evidenti.
C’è un principio che accomuna il buon senso di una massaia con le sofisticate tecniche di allocazione delle risorse che sottendono a una strategia di diversificazione del rischio: mai mettere tutte le uova nello stesso paniere. Eppure, se ci pensate bene, la conseguenza più evidente dei processi di globalizzazione – e, ancor più, quando questi sono stati preparati e messi in opera a velocità mai viste nel corso della storia umana – è, primo, di aver messo tutte le uova nello stesso paniere; secondo, di non essersi occupati minimamente delle condizioni di resistenza dello stesso. Quando questo cade, lo stiamo apprendendo in questi giorni: sono guai per l’intera umanità.
Il secondo fenomeno è meno evidente e spesso inafferrabile, ma sta alla base del nostro sistema di produzione e consumo. Premesse: il capitalismo ha due caratteristiche di base: l’accumulazione per l’accumulazione, ovvero la crescita per la crescita, e una congenita indifferenza al fatto che l’accumulazione di capitale accresca invece di ridurre le ineguaglianze di reddito e di ricchezza tra gli abitanti di una comunità o tra comunità diverse. Gli effetti di queste premesse sono molto pesanti: da un lato, il sistema non può smettere di crescere (e sappiamo che tutto questo è incompatibile con qualsiasi vincolo naturale e ambientale) e, dall’altro, per continuare a crescere deve adottare un modello di consumo non solo altamente iniquo ma che si basa, prevalentemente, soprattutto nel caso di economie avanzate, sulla produzione e distribuzione di beni immateriali e voluttuari, quali il turismo, il divertimento, gli spettacoli e i servizi legati al tempo libero. In una parola sola: lavora in modo pesante sui nostri desideri.
L’esplodere del contagio da Covid-19 è strettamente correlato a questi due caratteri della nostra economia: l’estrema mobilità delle persone in un’economia globale ha fatto sì che ci volessero pochissimi giorni perché un’epidemia scoppiata in Cina arrivasse in Europa e da qui in tutto il mondo. E ancora: anche quando era ormai evidente che alte concentrazioni di persone favorivano l’estendersi del contagio, ci sono volute settimane perché la gravità del fenomeno sanitario prevalesse su interessi e comportamenti di consumo consolidati e estesi. Gli stessi bar, negozi, stadi, ristoranti, eventi e spettacoli, in generale i luoghi della movida e del divertimento, sono diventati da comparti essenziali dell’economia di molte città europee in luoghi nemici della salute pubblica.
È ormai evidente a tutti che non siamo di fronte a un fenomeno transitorio: non lo è perché è qualcosa destinato a protrarsi per mesi, e che avrà conseguenze pesantissime per anni; non lo è perché questo tipo di pandemia potrebbe ripresentarsi anche nel futuro.
Se, come credo, non si può delegare la risoluzione di questo tipo di situazioni alla sola ricerca medica (la capacità di virus e batteri di modificarsi in una guerra permanente con vaccini e antibiotici è ormai assodata), ecco allora la necessità di avviare sin da subito una riflessione su come una diversa organizzazione sociale, culturale ed economica potrebbe rappresentare l’alleato più efficace del nostro benessere collettivo, sia sul piano della salute pubblica che del benessere economico e sociale.

L’importanza e urgenza nell’avviare questa riprogettazione delle nostre società non è contraddetta dallo stato di emergenza in cui versiamo: al contrario, proprio di fronte all’imporsi quasi incontrastato di uno stato di eccezione politico e di quasi-militarizzazione delle nostre vite, occorre tenere aperti più spazi di democrazia possibili, per non cadere in una spirale di involuzione autoritaria e recessione economica.
Se non riuscissimo a rialimentare una visione per il futuro in grado di motivare le persone e di dare senso allo sforzo che la ricostruzione richiederà, ecco che le lacerazioni sofferte dal tessuto sociale in questi giorni potrebbero non rimarginarsi affatto e la sequenza di conflitti materiali ed economici che questa crisi innescherà potrebbe rivelarsi letale.
Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di dibattito, di partecipazione, di confronto libero tra tutti i saperi cittadini disponibili. Guai a pensare che il nostro dovere sia quello di restare a casa e di ubbidire; guai a credere che da qualche parte ci siano scienziati e tecnici in grado di risolvere i problemi al posto nostro.
Due nemici sono in agguato, se non dimostreremo di avere pronta coscienza critica e capacità di reazione: il prevalere di un sistema istituzionale di tipo verticistico e una crescita esponenziale di modalità di comunicazione virtuale tese a sostituirsi in modo definitivo alle pratiche fisiche e alle relazioni sociali di prossimità.
La prima urgenza è avere visibilità su quanto accadrà nei prossimi mesi, perché nulla sarà più come prima ma la direzione che si imboccherà nella fase post-crisi potrebbe segnare pesantemente ogni sviluppo futuro.
Proverei a proporre due linee di ricerca e dibattito.
La prima. Se quanto detto sopra sulle cause della crisi e sulla mancanza di sostenibilità del sistema è condivisibile, ecco che il tema principale sarà, ovunque ma in particolare a Venezia, come creare le condizioni per diversificare l’economia e lo sviluppo locale.
Molto si è detto sul carattere pervasivo e onnivoro del turismo; in molti concordiamo sul fatto che il turismo premia strutturalmente la rendita a danno del lavoro; del resto, è la realtà a dirci oggi che quel modello non solo è insostenibile ma è fattualmente impraticabile anche sul breve periodo. Chi si illude che passata la crisi tutto tornerà come prima, commette un errore esiziale.
Ma, allora, da dove partire?
Innanzitutto, da quel pezzo di economia locale che ha resistito proprio in questi giorni, cioè dalla filiera agroalimentare, soprattutto quella di prossimità. Un primo importante passo sarà quello di riconoscerne la dimensione, l’articolazione e le dinamiche attraverso una mappatura e messa in rete dell’esistente.
Il modello Venezia-da-bere-e-da-bruciare di questi ultimi anni ha snobbato pesantemente questo comparto: sia gli operatori economici che politici erano convinti che la dipendenza logistica della città fosse un dato acquisito. Uno degli effetti collaterali, con ripercussioni ambientali ben note, è stata la pesante movimentazione di merci e persone in una sola direzione: dalla terraferma verso la città d’acqua. La tradizione agricola lagunare è stata pressoché cancellata e rimossa dagli usi e dagli interessi economici della rendita.
Se la priorità è la filiera agroalimentare e artigianale, allora occorrerà orientare in quella direzione il flusso di risorse pubbliche che auspicabilmente arriveranno per la ricostruzione.
È questo uno snodo centrale: se lasciassimo tutto in mano a una rete di intermediazione politica e finanziaria come quella che ha gestito la città sino ad ora, è scontato che la logica degli indennizzi e delle prebende renderebbe impossibile ogni riconversione verso la sostenibilità sociale e ambientale.
La battaglia per il controllo sociale delle risorse pubbliche destinate alla ricostruzione sarà decisiva.
Il flusso degli investimenti dovrebbe avere poche ma chiare priorità: la filiera agroalimentare, l’artigianato, la tutela e manutenzione del patrimonio culturale e ambientale, i servizi professionali tecnologicamente avanzati, l’innovazione sociale, culturale e scientifica.
La vocazione turistica – fortemente ridimensionata – dovrebbe essere declinata come parte e funzionale all’indotto economico dei comparti descritti sopra. Si tratterebbe insomma di rovesciare il paradigma per cui tutto quello che era utile al turismo di massa mordi e fuggi era lecito e tutto il resto doveva soccombere. Ora, si tratterebbe di considerare il turismo come una delle componenti di un sistema economico locale ricco e articolato. Le ovvie conseguenze di questo nuovo modello economico sarebbero: primo, una riorganizzazione dell’uso del patrimonio fisico urbano sia infrastrutturale e immobiliare. Il dopo-crisi vedrà comunque ridimensionati i flussi di merci e persone da e per il mondo. Uno dei banchi di prova su cui intervenire sarà come riprogettare la portualità mercantile e passeggeri nel rispetto dei vincoli ambientali e paesaggistici.
Secondo: un forte investimento nel welfare inteso come un insieme di servizi e competenze – dalla casa alla salute, dall’istruzione alla protezione sociale – per ricostruire e porre la dimensione dell’abitare al centro della comunità e della sua produzione di valore.
Alcune proposte per un uso alternativo e efficace del patrimonio pubblico urbano si iscrivono già in questa direzione. La logica praticata e teorizzata in questi anni che occorreva lasciare fare al mercato e agli investitori privati è fattualmente spazzata via da questa crisi.

Il filo rosso che dovrebbe tenere insieme nuove produzioni economiche e welfare dovrebbe essere un forte radicamento locale nella produzione del valore, privilegiando forme di reciprocità e di economia circolare ad alto impatto sociale. Non si tratta di esaltare forme di autarchia o di isolazionismo ma la ricerca di un giusto equilibrio tra dimensione globale e locale.
La sfida a cui lavorare potrebbe essere quella di come vivere in una comunità “porosa”, dove gli scambi sussistono e sono alimentati come fonte stabile e positiva di valore ma nel rispetto del corpo sociale della comunità, una comunità fiera della propria epidermide culturale e simbolica che sa riconoscere e gestire le connessioni senza farsene fagocitare e distruggere.
Ci riusciremo? Questo è il momento per pensare il domani.

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1 commento
Buongiorno Giampietro, ho letto e riletto il tuo articolo di cui condivido sia l’impostazione ideologica di base che le proposte, proposte che mi pare siano già da qualche anno venute fuori e verso cui, spero, ci si stia dirigendo; un piccolo appunto: qualche accenno/dettaglio concreto in più con una articolazione maggiormente attualizzabile/realizzabile delle proposte mi sarebbe piaciuto e penso sarebbe stato forse più utile alla comprensione da parte di una platea più grande, certamente senza far proclami come chi indossa sin d’ora i panni in pectore di nuovo sindaco… Apprezzo sempre in ogni caso il tuo parlare senza mai porsi come unico depositario di verità, ma sempre aperto al dialogo e al confronto, cosa più unica che rara.