Sono tornati i colori. Netti, precisi, che paiono incisi in una pellicola di qualità. La Venezia dei colori, della linea dell’acqua sempre presente e cara a Le Corbusier è riapparsa. I due elementi che qui sono costitutivi – acqua e aria – sussurrano la loro vendetta e mi sono tornate alla mente le annotazioni del pellegrino domenicano Felix Faber di Zurigo che visitò Venezia tra il 1483 e il 1484 sia prima che dopo il suo viaggio per la Terrasanta. Colpito dallo splendore della città scrisse che essa aveva
per pavimento il mare, per tetto il cielo e per pareti il flusso delle acque.
Nei giorni precedenti a questa emergenza, ero intenta a scrivere un saggio sulla storia delle emozioni affettive che ci legano ai luoghi e in particolare a questo in cui mi vivo, Venezia. E in queste mie carte, che faccio adesso fatica a proseguire e concludere, annotavo la predominanza dello sguardo, della percezione della luce che si riflette nell’acqua e si specchia nel cielo e la loro impronta performante il paesaggio lagunare. Quella linea dell’acqua, che segna l’incontro con l’aria, così acutamente descritta dalle parole di Sergio Bettini, e che è sempre rintracciabile dallo sguardo, rifondando continuamente la coscienza di trovarsi in una città d’acqua. Questa magia, riflettevo nei giorni scorsi scrivendo, non era sparita ma da troppo tempo era offuscata, come la bellezza della città, trasandata e maltrattata.

Guardo ora l’acqua del mio canale, di solito opaca. Vedo il fondale e piccoli pesci scivolare via, le alghe muoversi pigramente perché non ci sono motori a turbare l’andamento delle maree. Da quanto non vedevamo i colori della nostra città così esatti, perfino grafici, l’acqua tornata acqua che scorre e porta ossigeno ed energia alle calli, alle fondamente.
Le case si specchiano con nitore e la Venezia dei canali si sdoppia, parte in acqua e parte in terra. In questi giorni di sereno la trasparenza è così imprevista che quasi ferisce gli occhi ed è saggio munirsi di occhiali da sole. I colombi si sono fatti audaci, zampettano domandandosi cosa mai sia successo che permette loro di divenire padroni dei campi. Anche i suoni sono diversi. Ora ci svegliamo col silenzio. Niente lancioni, motoscafi, motori che ruggiscono, ascoltiamo soltanto i rumori dei vicini, dei dirimpettai e i rarissimi passi sul selciato.
La città è tornata a essere di una bellezza che morde le viscere perché ci ricorda che ne abbiamo permesso lo scempio. Ed è una bellezza che ci è proibita. Prima era fagocitata dall’orda turistica e dall’avidità di chi voluto svenderla senza limite, adesso tocca sbirciarla frettolosamente nel breve tragitto che ci porta all’edicola o al forno aperto vicino a casa. E in questi giorni in cui tento di continuare a scrivere, di fissare pensieri ed emozioni, sperando che tutto questo abbia senso, mi interrogo sulla bellezza che non salva, che è nuda, povera e solitaria, e non ha rimedi da offrire a chi è stolto o semplicemente distratto. E mi sorprendo a offrire in una preghiera laica tutto questo – il silenzio, la costrizione dei corpi, il pieno delle case e il vuoto della strada, le ferite nei corpi e nelle anime, la bellezza della città rubata dalla mascherina e riposta in tutta fretta nella borsa della spesa e nelle mie note – a un risveglio del domani in cui i colori non abbiano il retrogusto della nostalgia e si accompagnino a quanto abbiamo dimenticato di preservare della vita.


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