Tra decreti e circolari, sono una quarantina i provvedimenti extra-ordinari presi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte in quest’ultimo mese. L’inedita emergenza ha costretto il governo al reiterato ricorso ai decreti, atti normativi di carattere provvisorio aventi forza di legge, emettendone quasi quotidianamente e così determinando una condizione di costante eccezionalità senza precedenti. Inevitabile adottare forme di coinvolgimento del parlamento e delle forze politiche che non si limitino alla regolare rendicontazione, e giusto consentire al governo di reiterare le misure prescrittive fino al 31 luglio senza ricorrere a ulteriori decreti, dotando il governo di maggiore agilità di risposta senza per questo esautorare o ridimensionare il parlamento.
Sarebbe ora che la politica desse prova di senso di responsabilità, impegnandosi in un dialogo necessario al suo interno e con il paese, per il superiore interesse pubblico e il bene comune. Il senso di responsabilità che viene richiesto al paese non trova infatti riscontro nella politica che ad ogni livello è ancora dedita alla polemica e a comportamenti ondivaghi, dettati sia da disorientamento sia – e specialmente – da esigenze di marketing elettorale (ormai siamo in perenne campagna elettorale) che alimentano pericolose conflittualità.

Per accaparrarsi quote di consenso sul mercato nazional-popolare dei consensi, volubile e volatile, bisogna: ricercare visibilità sparandola più grossa degli altri, attirare l’attenzione prendendo posizione prima degli altri, cambiare posizione repentinamente stando sempre a favore dei venti dominanti nell’opinione pubblica. Tutto a scapito dell’interesse pubblico che richiederebbe lucidità, stabilità, ponderatezza.
Anche questo è fenomeno globale contagioso: basti pensare a Trump e Johnson, o a chi come Bolsonaro e un governatore messicano hanno affermato che gli indios e i poveri sono immuni. Oltre ad anziani e malati meglio provare a far fuori i poveri e le minoranze. Il fattore pericoloso è che la demagogia è un piatto che va condito con un pizzico di ovvietà per essere verosimile e risultare credibile.
Ma non basta. Questo è il momento per lavorare oggi alla costruzione di un domani ancora inimmaginato. Se sono state fermate anche le guerre vuol dire che la situazione è delicata sul serio, evidentemente ci si è resi conto che gli interessi economici che stanno dietro ai conflitti non danno più certezza di rientro degli investimenti in armamenti. Se si vuole evitare di cadere in tentazioni autoritarie per ragioni d’emergenza (già ventilate da qualcuno) occorre avviare un’azione politica larga e con il contributo di tutti, elaborare una visione strategica che dia risultati articolati su piani diversi con azioni progressive.
- Oggi: intervenire contemporaneamente sul piano sanitario, economico e sociale; avviare subito un grande processo di studio ed elaborazione di proposte per il domani, un grande laboratorio interdisciplinare del sapere con l’obiettivo di stabilire gli orientamenti da seguire.
- Domani: avviare la raccolta, valutazione e finanziamento di progetti per rilanciare l’economia in relazione alle peculiarità delle condizioni locali, che seguano gli orientamenti stabiliti per intervenire su scala locale e incidere sulle problematiche su scala globale.
- Dopodomani: dipenderà dall’impatto che avrà ciò che faremo sulle circostanze, tutto da vedersi.
Oggi
Le risorse vanno destinate innanzitutto a sostegno di un sistema sanitario che è stato scientemente indebolito. L’assunzione di personale sanitario va nella direzione giusta a condizione che non sia misura solo d’emergenza ma inversione di tendenza.
C’è poi la dotazione sanitaria (dpi, tamponi, medicine, attrezzature) che se reperita sul “libero” mercato dev’esserlo a prezzo politico. Andrebbero prese misure sul piano anche nazionale e internazionale per contrastare la speculazione e l’arricchimento indebito di chi si trova improvvisamente in posizione favorevole, come la grande distribuzione (che strangola i produttori di base) e le industrie chimico-farmaceutiche (che sono potenti quanto e più dei petrolieri) dove anche la scienza ha le sue responsabilità: anche qui – come in ogni altro campo del sapere – è il profitto a dettare legge, specialmente per quanto riguarda la ricerca applicata, la proprietà intellettuale, brevetti e diritti. Il profitto nelle attuali condizioni dovrebbe essere il bene comune e la pubblica utilità.
Che sia l’occasione per riformare le relazioni tra mercato, scienza, politica, società? Difficile si riesca, ma si potrebbero studiare misure temporanee. Perché per ragioni di pubblica utilità si possono precettare i lavoratori che scioperano nei servizi essenziali e non grandi aziende e multinazionali? Dobbiamo attenuare il senso di frustrazione che i privilegi provocano nel cittadino. È il momento di opporsi alle spinte centrifughe disgregative facendo prevalere la solidarietà e alimentando il senso di appartenenza alla comunità degli uomini, cittadini del mondo più che dei singoli stati nazionali. Invece, in Europa i paesi più ricchi cercano di speculare su quelli più deboli riproponendo lo scenario visto nei confronti della Grecia, un insulto al senso di solidarietà e di comunità europea.
Ormai è chiaro che non si tratta di un momento difficile e che la soluzione non è solo questione di tempo (che sarà lungo e di durata imprevedibile). Arginare il contagio è la priorità ma le misure restrittive non possono avere durata illimitata; è improponibile fermare il paese, l’Europa, il mondo, aspettando che l’emergenza passi. Bisogna contenere il dilagare del contagio economico-finanziario oltre che sanitario. Anche qui ecco il primo della classe (politica) proporre la fine delle restrizioni prima di Pasqua, una scadenza non fondata su valutazioni ma buttata lì, mentre si deve procedere per gradi ponderati con la autorità sanitarie. Per esempio, fin d’ora ci si può attivare per formare i lavoratori da casa e per attrezzarsi adottando misure tali da consentire per quanto possibile di riavviare progressivamente le attività produttive (limitare al minimo indispensabile la circolazione, sanificazione di ambienti di lavoro e mezzi pubblici, dotazione di dpi). Non solo.
Finalmente, dopo avere affrontato le emergenze sanitaria ed economica, si sta portando l’attenzione sull’emergenza sociale, indispensabile se si vuole per evitare che economia e politica vengano spazzate via da uno tsunami che travolgerebbe anche qualunque precauzione sanitaria diventando questione di ordine pubblico, con seri rischi per la democrazia. Oggi, a differenza che nel passato, la spinta alla protesta non sarebbe sostenuta da ideologie – con il loro carico di visionario di speranza di cambiamento verso un mondo migliore – ma dalla loro assenza quindi solo da un atavico istinto di sopravvivenza d’individui in difesa di sé stessi, con evidente rischio di derive populiste.
A tutto ciò si aggiunge il rischio d’infiltrazioni malavitose in termini di ordine pubblico e di riciclaggio del fiume di denaro sporco. La malavita organizzata cerca sempre di consolidare il proprio potere nel territorio e di sostituirsi allo stato, non solo a Sud, nel Nord Est il suo ingresso in numerose aziende in crisi è ampiamente documentato. A Sud, ha già cominciato a cavalcare la protesta e chi ne farà le spese saranno i veri disperati, non possiamo abbandonarli e non bastano le azioni caritatevoli una tantum, occorre un’azione sistematica d’interventi.

I sindacati fanno giustamente gli interessi dei lavoratori ma qui va tutelata la cittadinanza nel complesso. Cassa integrazione? Sì, ma… Lo stipendio è una unità di misura poco significativa, talvolta mantiene una persona singola, più spesso famiglie intere con un unico stipendio; per non parlare dai nonni (di cui li virus fa strage) che quando hanno quattro risparmi e non solo pensioni da fame aiutano come possono, altrimenti vengono anch’essi aiutati. Perché tutelare solo chi ha/aveva uno stipendio e non invece garantire immediatamente il minimo sostentamento a tutti? Compresi i tanti, troppi, che si sono progressivamente impoveriti a causa di un sistema economico-finanziario che ha fatto gli interessi dei più forti a danno dei più deboli e di quelli che deboli non erano ma che, gioco forza, lo sono diventati (classe media).
Vanno aiutati tutti, non solo gli stipendiati ma anche i precari e i professionisti, le partite iva e i disoccupati, perfino i lavoratori in nero, perché c’è chi l’evasore fiscale che non vuole pagare le tasse e c’è il lavoratore “irregolare” che sarebbe felice di pagare le tasse ma non può perché gli è proprio impossibile. Come fa costui ad acquistare da mangiare? Come fa a pagare le bollette che, per inciso, hanno subito un aumento di consumi a causa del colpo di coda invernale? Nel tanto lavoro sommerso e in nero ci sono tante sfumature di grigio, oltre agli evasori duri e puri (che trattengono per sé l’intero guadagno ma pretendono servizi) ci sono i tanti deboli e impuri che non possono fare diversamente, alcuni lavorano in nero perché vengono sfruttati (extracomunitari e non, come i lavoratori nei campi, colf, badanti, babysitter), altri perché il datore di lavoro non è in condizione di pagare allo stato i contributi necessari a metterli in regola e dà loro una remunerazione in contanti. Bene ha fatto il governo a riconoscerli.
Economia viene dal greco oikos (casa) + nomos (regola, legge), quindi è l’arte di bene amministrare i beni di famiglia, che ha assunto anche il significato di oculatezza, risparmio. Più che a interventi assistenziali in termini di liquidità come il reddito minimo, ci si si potrebbe orientare su una logica completamente diversa, di economia dell’emergenza, nella doppia accezione di massimo risparmio e di buona amministrazione dei beni di famiglia. Mentre di giorno in giorno si allarga la schiera di quanti entrano in crisi di liquidità (lo ripeto: non solo tra chi è in miseria ma anche nella ex classe media), alcuni nostri politici che fanno? Soffiano con responsabile irresponsabilità sul fuoco dell’inevitabile malcontento procedendo in ordine sparso: reddito d’emergenza e di cittadinanza, “mille euro a tutti subito, di umilianti buoni acquisto non se ne parla” tuona Giorgia Meloni, “Fuori tutti i soldi necessari o in Italia scatta la rivolta” le fa eco Salvini.
È giusto che si guardi a tutti gli abitanti, senza privilegi di sorta, il che non vuol dire elargire contributi a pioggia, impegnando somme ingenti e bruciando le poche risorse disponibili con risultati incerti. Distribuire soldi è misura utile più a fini demagogici che a garantire sopravvivenza e rilanciare l’economia.
I consumi sono azzerati, le spese voluttuarie soffocate, restano le spese vive per funzioni vitali, cioè cibo e utenze (telefonica e per internet, energia elettrica, gas per cucinare e riscaldamento per il ritorno di fiamma invernale). Meglio sarebbe: coprire i costi delle utenze, concordando con i fornitori condizioni più possibile vantaggiose; distribuire direttamente beni di prima necessità, cioè ingredienti di base tali da garantire il corretto apporto nutrizionale (e quindi adeguato sostegno al sistema immunitario) in rapporto al numero dei destinatari. Sarebbe utile e bello per approfittare dell’occasione per promuovere una cultura alimentare, ma se non vogliamo arrivare a tanto (troppe diete, troppi orientamenti diversi e contrastanti) è sufficiente basarsi sulla sana dieta della piramide alimentare mediterranea facilmente rinvenibile, riportata tra gli altri sul web dalla Fondazione Umberto Veronesi per il progresso delle scienze.


Il modo migliore d’esser d’aiuto è aiutare ad aiutarsi, organizzare e sostenere forme di auto-sostegno civico e popolare, coinvolgendo ogni tipo i soggetti civici e di volontariato, dalle ong alle onlus e perfino ad associazioni come la bocciofila, la remiera o i boy-scout e le parrocchie. A costoro ha fatto riferimento il governo ma per una sorta di azione caritatevole, eccezionale, invece si dovrebbe organizzare un’azione sistematica, che impegni il numero necessario di persone opportunamente formate e messe in condizione di gestire tale attività in condizioni di sicurezza. Ci sono peraltro strutture già organizzate a cui far ricorso, mi riferisco ai gas (gruppi di acquisto solidale) che hanno una rete di rapporti diretti con i produttori, in questo modo si potrebbe fare economia saltando la distribuzione, se necessario utilizzando per il trasporto le Forze Armate come servizio civile.
Non si tratta di un’indicazione creativa campata in aria, l’ho appresa e personalmente sperimentata in India, dopo l’approdo dello tsunami nel 2004 con i monaci del Bharat Sevashram Sangha, e l’anno successivo in Sri Lanka per la nostra Protezione civile impegnata nella ricostruzione.
In India ci era stato assegnato un villaggio e abbiamo stilato una lista degli abitanti presenti, degli irreperibili e delle vittime accertate. A ciascuno abbiamo dato un materasso/tappetino imbottito, delle tele di cotone (usato in mille modi: turbante, asciugamani, tunica, lenzuolo, ecc.), una ciotola in metallo per cucinare (al posto dei piatti si usano foglie di banano e si mangia con le mani), poi ogni tre giorni fornivamo una scorta riso, verdure, frutta, farina, ecc. Ciascuno aveva una tessera in modo che potessimo avere contezza degli aiuti dati destinati solo ai nostri “assistiti”.
Quando abbiamo avuto il permesso di ristrutturare le case ci siamo organizzati senza dare soldi a nessuno, ma acquistando i materiali (cemento, sabbia, mattoni, bambù, ecc.), raccogliendoli in un deposito e poi distribuendoli in relazione al fabbisogno. Gli uomini lavoravano alla costruzione della loro povera casa (poco più di una capanna) e venivano pagati come operai, mentre i lavori erano realizzati con la soprintendenza di lavoratori edili esperti. Come architetto giravo per i siti, vigilando che tutto procedesse ordinatamente e che nessuno sottraesse nulla. Gli approvvigionamenti avvenivano man mano che v’era necessità di materiali. Si ottenne massimo risparmio, efficacia e assenza di spreco.
Terzo esempio, volevo comprare reti e barche per consentire di riavviare l’attività di pesca. Prelevai il massimo possibile con le carte di credito e andai dal monaco chiedendogli come fare a comprare barche e reti. “Una volta comprate – mi chiese – a chi le dai?”. “Ai pescatori, quelli che vanno in mare a pescare” risposi un po’ piccato. Pazientemente mi spiegò che chi va a pescare è un poveretto nullatenente, a cui viene affidata la barca per andare a pescare e riportare indietro il pesce al “padroncino”, che gliene lasciava una parte, non per mangiare (troppo lusso, meglio riso e legumi) ma da rivendere. Dargli una barca l’avrebbe trasformato in padroncino, pronto a sfruttare un altro poveretto.
Sulla costa orientale dello Sri Lanka, il problema era invece che non c’erano attrezzature per la conservazione e il trasporto del pesce, insieme alle ong venne preparato un progetto per dotare di frigoriferi e di camion refrigerati per trasportare il pesce e venderlo anche nella parte turistica occidentale. L’orientamento fu di non concedere finanziamenti individuali, ma di far formare cooperative, in modo che beni e attrezzature restassero di proprietà collettiva.
Domani
Bisogna vedere come evolve lo scenario, ma a fronte di un calo del pil che sarà ben oltre il dieci per cento di cui si sente parlare occorre raccogliere idee ed elaborare proposte e progetti, preferibilmente collettivi.
Sul turismo, ad esempio, occorre un profondo ripensamento. È impensabile che torni ad essere la gallina dalle uova d’ora com’è stato considerato fino ad ora. Le circostanze hanno dimostrato che puntare sul turismo come attività unica o prevalente è suicida. Non può neanche continuare ad essere la formula uno della gentrificazione delle nostre città, per le quali sarà utile tornare alla plurale multifunzionalità che è alla base della qualità dei centri storici italiani.
A Venezia abbiamo avuto prima l’acqua alta di novembre poi, insieme al carnevale che doveva rappresentare la ripresa, è arrivato il coronavirus a dare il colpo di grazia. Non sarà la promozione turistica a risolvere il problema, ci vogliono idee, strategie, progetti, che concilino finalmente ambiente, salute, lavoro, altro che marketing servono idee, spunti interessanti li abbiamo visti anche qui, sulle colonne di ytali negli articoli sulle prospettive “green” di Mario Santi o negli indirizzi di rinascita indicati da Giampietro Pizzo.
Dinnanzi all’epocale sequenza di crisi di ogni genere che si sono susseguite è sacrosanto chiedere aiuto a tecnici, seppure sarebbe meglio ascoltarli prima e adottare misure preventive e non dopo che gli eventi sono accaduti per cercare contenere i danni. Questo è accaduto per la questione ambientale, ampiamente prevista ma ignorata o contrastata da chi continua a negare l’evidenza, come Trump o Bolsonaro per la cui inerzia si potrebbe ipotizzare il delitto di crimini contro l’umanità. I tempi sono maturi per avviare una riflessione generale di natura politica e culturale e sociale sugli orientamenti da darci, tanto in sede nazionale che negli organismi di rilevanza internazionale, raccogliendo e accorpando i diversi contributi specialistici delle varie discipline per avere una visione allargate e multipla, senza prenderli in considerazione uno per volta.
La politica deve smetterla di farsi dettare l’agenda dalla finanza e dalle banche quando c’è crisi economica, dall’industria farmaceutica per affrontare le crisi sanitarie: la politica deve prima ascoltare e far sintesi, poi decidere e orientare. Per farlo occorre ripartire dalla cultura politica, binomio a cui dare senso rinnovato.
Dopodomani
Imagine…
Quello immaginativo è generalmente considerato un esercizio poco utile, un’attività speculativa e astratta della mente, confinata nell’ambito onirico tra sogno e incubo trascurando che l’immaginazione è una forma del pensiero sintetica eppur significativa. Quel visionario di John Lennon ce la cantò per bene e per tempo, peccato che anziché progetto lungimirante di speranza, il suo canto sia stato sterilizzato riducendolo a una melodica licenza poetica, gravida d’utopia e d’illusione. Oggi, più che mai, immaginare è una necessità, antidoto alla disperazione, forse non l’unico ma certamente efficace.
Immaginare è mettere a fuoco nella mente una situazione generale dai contorni sfocati grazie a dettagli nitidi: ciò che conta è il senso complessivo, rivelato da piccoli particolari insignificanti quando non inquadrati in una logica d’insieme. L’immaginazione non è passività ma azione di disvelamento e rivelazione a è disposto a vedere, in questo senso può essere considerata attività pericolosa, non perché fuorviante ma perché toglie il velo dell’illusione (maya) e veicola l’intuizione. Può avere il carattere dell’auspicio, del presagio o della premonizione, oppure farsi strumento di previsione e progetto, anticipazione e preparazione della realizzazione.

Quindi? E poi?
Nulla sarà più come prima e il dopo sarà certamente rivoluzionario.
Talvolta uno stesso termine ha significati opposti. Rivoluzione è uno di questi. Viene dal verbo latino revolvere formato dal prefisso ri- aggiunto a -volgere, dove però il prefisso può assumere i significati opposti di “nuovamente” oppure di “contro”. Rivoluzione sta quindi per volgere indietro, tornare su sé stesso (è questo il caso del moto degli astri che tornano al punto di partenza) oppure può assumere valore di rivoltare, volgere contro quindi sconvolgere (opposto di coinvolgere che è avvolgere insieme). Questa che stiamo vivendo è una rivoluzione, ora dobbiamo capire se vogliamo considerarla come restaurazione e ritorno al passato, al punto di partenza, oppure come un ripartire da zero, valorizzando la crisi come elemento di discontinuità, opportunità di ripensamento in chiave di risorgimento e rinascimento.
Il tempo è maturo per una rivoluzione culturale ad ampio raggio. La direzione? La conosciamo, è stata tracciata nella seconda metà del Novecento, ma poi accantonata come una inutile speculazione teorica, sterilizzata nella dimensione dell’utopia inapplicabile. Mentre gli stati nazionali si dedicavano a saccheggiare il pianeta, l’Organizzazione della Nazioni Unite (Onu) attraverso il suo braccio culturale, avviava un percorso di riflessione intorno alla riforma del pensiero e del sapere che oggi può tornare quanto mai utile dopo essere stato troppo a lungo riposta nel cassetto delle buone intenzioni. Lo studio dell’Unesco è stato ignorato allo stesso modo in cui sono state ignorate le istanze ambientali e gli allarmi della scienza, a cui si fa appello solo quando è troppo tardi, chiedendo miracoli immediati come quello di una terapia e di un vaccino contro il Covid-19. È interessante notare che gli autori dei passaggi fondamentali sono personaggi diversi, accomunati dall’impegno politico.
Per una scienza umanistica
La riflessione avviata dall’Unesco ha avuto momenti di sintesi progressivi e complementari, tappe di un orientamento e di un approccio metodologico enunciato ma mai compiutamente seguito e applicato, che però ha creato terreno fertile per un cambiamento necessario e non più rinviabile.
Il primo passo è stato il rapporto Learning to be: the world of education today and tomorrow (Imparare ad essere: il mondo e l’educazione oggi e domani) prodotto dalla Commission on the Development of Education coordinata da Edgar Faure nel 1971. Fu in seguito sottovalutato e trascurato, forse considerato viziato come frutto della rivoluzione culturale e sociale del Sessantotto.
Negli stessi anni lo scienziato Ilya Prigogine (premio Nobel per la chimica nel 1977 e studioso dei sistemi complessi) pubblica La Nouvelle alliance. Métamorphose de la science (1979) che può essere considerato di filosofia della natura. Qui auspica un’alleanza di sintesi tra gli approcci scientifici e umanistici, a partire dalla due distinte concezioni dell’universo su cui scienziati e filosofi si confrontano fin dall’antichità: la fisica dell’essere e la fisica del divenire.
Negli anni Novanta altre tappe fondamentali, espressione di un clima maturo a cui non si è dato seguito, con contributi che non sono stati valorizzati come si sarebbe dovuto a causa della cultura dominante che da allora in poi è stata quella economica di stampo liberista. Interessante notare che i rapporti qui citati, sono la punta dell’iceberg dei contenuti di un patrimonio fatto di rapporti, ricerche, pubblicazioni, un giacimento di grande attualità dal quale attingere.
L’Europa ha dato il proprio contributo con il Libro bianco su istruzione e formazione per la Commissione Europea dal titolo “Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva” redatto dalla Commissaria per la ricerca, l’istruzione e la formazione Edith Cresson nel 1995.
Praticamente coevo è Learning the treasure within (Nell’educazione un tesoro), il rapporto della Commission Internationale sur l’éducation pour le XXIe siècle dell’Unesco coordinata da Jacques Delors nel 1996.
Determinante è l’opera del filosofo e sociologo francese Edgar Morin che nella sua vasta produzione indaga e approfondisce tra gli altri argomenti il metodo (sei tomi) e la trasmissione del sapere, a cui approda dallo studio della complessità. A proposito di riforma del pensiero, su commissione dell’Unesco nell’ambito del Programma internazionale dell’educazione scrive nel 2000 “I sette saperi necessari all’educazione del futuro” che si aggiunge a La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (1999), due testi in cui teorizza il superamento della separazione tra cultura umanistica (“che affronta la riflessione sui fondamentali problemi umani, stimola la riflessione sul sapere e favorisce l’integrazione personale delle conoscenze”) e cultura scientifica (“separa i campi della conoscenza, suscita straordinarie scoperte, geniali teorie, ma non una riflessione sul destino umano e sul divenire della scienza stessa”). Il suo approccio si colloca nel solco tracciato dallo scienziato Ilya Prigogine.
In Relier les connaissances. Le Defi Du XXIeme Siecle (1999) Edgar Morin raccoglie il resoconto delle “giornate tematiche”, un ciclo di laboratori di pensiero organizzati nel marzo 1998 sotto l’egida del ministro della pubblica istruzione francese, Claude Allègre, con l’obiettivo di rispondere alle due principali sfide che ritiene la conoscenza debba affrontare sempre più durante il terzo millennio:
- la sfida della globalità, posta dalla discrepanza tra conoscenza (frammentata e compartimentata tra discipline) e realtà multidimensionali, globali e transnazionali;
- la sfida dell’aumento di conoscenza, che complica l’organizzazione della conoscenza intorno ai problemi essenziali.

Torniamo a Prigogine e a La Nouvelle alliance. Métamorphose de la science, che si configura come un trattato di filosofia della Natura a partire dalle due opposte concezioni ontologiche e dell’universo: l’essere e il divenire. Prigogine riprende le teorie di Jacques Monod (biologo molecolare e premio Nobel nel 1965) secondo cui la scienza moderna ha avuto la pretesa di separare verità oggettiva e valori producendo l’angoscia. Scrive Monod:
l’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente l’universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre.
Aggiunge Prigogine:
Là dove la scienza ci aveva mostrato una stabilità immutabile e pacificata, comprendiamo invece che nessuna organizzazione, nessuna stabilità è, in quanto tale, legittima o garantita, nessuna si impone, sono tutte prodotte dalle circostanze e sono tutte alla mercé delle circostanze… È morta e sepolta l’antica alleanza, l’alleanza animista…. Ma il nostro mondo non è nemmeno il mondo della moderna alleanza. Non è il mondo silenzioso e monotono, abbandonato dagli antichi incantesimi, il mondo-orologio sul quale ci era stata assegnata la giurisdizione. Jacques Monod aveva ragione: è ormai tempo che ci assumiamo i rischi dell’avventura umana. Ma se oggi possiamo farlo è perché, ormai solo così possiamo partecipare al divenire culturale e naturale, perché questa è la lezione che ci impartisce la natura, se vogliamo davvero ascoltarla. Il sapere scientifico sbarazzato dalle fantasticherie di una rivelazione ispirata, soprannaturale, può oggi scoprirsi essere ascolto poetico della natura e contemporaneamente processo naturale nella natura, processo aperto di produzione e di invenzione, in un mondo aperto, produttivo e inventivo. È ormai tempo per nuove alleanze, alleanze da sempre annodate, per tanto tempo misconosciute, tra la storia degli uomini, delle loro società, dei loro saperi e l’avventura esploratrice della natura.
Questa crisi può essere un’opportunità. Un atto rivoluzionario sarebbe quello di avviare una stagione di riforme raccogliendo i contributi di esponenti e personalità di rilievo e chiara fama nei diversi campi del sapere e della società: dalla scienza alla letteratura, dalla politica alla sociologia, dalla tecnica all’arte, dall’economia alla filosofia e perfino dalla poesia al teatro perché è proprio da qui che arrivano intuizioni e sintesi efficaci e lungimiranti.
Senza dimenticare la dimensione spirituale, da cui possono arrivare contributi di grande interesse quando non la si riduce all’adesione fideistica e all’atto del legare (religione, da re-ligere, è legare insieme) con approcci dottrinali che stanno sopra tutto e oltre tutto. Basti pensare allo zero (sunya in sanscrito, sinonimo di vuoto), impensabile per la razionale cultura classica occidentale e che la cultura indiana ha potuto concepire e indagare grazie a coscienza e conoscenza della dimensione meditativa. Una delle più antiche università è in India quella di Nalanda (V sec. a.C.), questo centro di elaborazione del sapere era in realtà un monastero buddista, con abati e insegnanti come Nāgārjuna (patriarca di tutte le scuole del buddismo mahāyāna e vajrayāna) o Vasubandhu.
In questo importante centro religioso e culturale si insegnavano discipline sia teologiche (buddhiste e brahmaniche) che scientifiche (quali medicina, matematica e astronomia), si praticava la meditazione e la cura del corpo insieme al non attaccamento. L’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo nella Grecia classica (V secolo a.C.) era la kalokagathìa (crasi di kalòs kai agathòs che vuol dire bello e buono) affermando con ciò che il bello se non è anche buono non è neanche bello, e viceversa.
“Ben-essere” non è accumulazione, agio o ricchezza, allo stesso modo in cui la cultura non è erudizione ma produzione di valori e così di valore. Smettiamo di accumulare: il sapere è come l’acqua e l’amore, una volta che l’abbiamo ricevuto in dono non si può trattenere per sé, bisogna lasciarlo andare altrimenti ristagna e muore, l’unica possibilità è farlo scorrere, lasciarsi attraversare dal flusso benefico e poi ri-metterlo al mondo da cui ci è venuto. Non lasciamoci andare, lasciamolo andare.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!