Per ripopolare le piazze vuote non basta guardare al passato

“Quando parlo di restituire vitalità, non immagino ricostruire la vita di una volta, sarebbe impossibile perché la socialità è cambiata, il mondo è cambiato e noi stessi siamo cambiati. Bisogna immaginare una nuova comunità”. Intervista con Vito Teti, docente di antropologia culturale all’Università della Calabria.
ENZO MANGINI
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L’intervista che qui di seguito pubblichiamo appare nell’ultimo numero monografico (1/2020) della rivista Arel dal titolo “Piazze”, di prossima uscita. Continua così la nostra collaborazione con la rivista fondata da Beniamino Andreatta.

Non ricordo bene quando ebbi per la prima volta la sensazione che i luoghi avessero un loro senso, un loro sentimento; immagino sia accaduto molto presto, nella mia infanzia. Nel paese della mia fanciullezza i luoghi avevano un nome, ed erano tutti speciali. Avevano un segreto.

Così scriveva Vito Teti nel 2004 in un testo ancora fondamentale, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli). Il paese della sua fanciullezza è San Nicola da Crissa, sulla soglia meridionale dell’istmo della Calabria, tra Vibo Valentia e Serra San Bruno. Un paese che oggi ha poco meno di 1300 abitanti.

Docente di antropologia culturale all’Università della Calabria, Teti da oltre quindici anni ragiona, s’interroga e ci interroga su “quel che resta” dell’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, per usare il titolo di un altro suo libro, del 2017.

Che cos’era la piazza in un paese come San Nicola da Crissa?
Rispondo con un aneddoto. Alla fine degli anni Settanta andai a Toronto, a trovare il “paese doppio” dei miei compaesani emigrati in massa in Canada.

Il loro luogo di ritrovo era un posto chiamato Plaza. Anche loro, come me, vivevano una sorta di spaesamento mentale: questo non-luogo nordamericano, che poi era un posto dove sostanzialmente non c’era nessuno, avrebbe dovuto sostituire il pieno e la complessità della piazza del paese di partenza, per quanto piccola fosse la comunità lasciata.

La piazza era il luogo di concentrazione delle persone, perché attorno alla piazza ruotavano tutte le principali attività commerciali, le piccole botteghe, le sartorie, i fruttivendoli, gli alimentari. Sto descrivendo un piccolo paese, diciamo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta: la piazza era anche il luogo degli incontri e degli appuntamenti, dei bar e delle cantine. E poi, in genere, attorno alla piazza ruotavano altri due luoghi simbolo del paese, che erano la farmacia e il barbiere. Tanto l’una quanto l’altro erano luoghi di attesa, di ritrovo, di dialogo, di informazione, di chiacchiera e pettegolezzo, di litigi e scontri.

Nelle nostre comunità, l’organizzazione dello spazio paesano in genere colloca la piazza al confine della chiesa principale o vicino alla chiesa principale. La chiesa, nel nostro ordine spaziale e mentale, era il centro del mondo, l’axis mundi, per dirla con De Martino, un punto di riferimento che ordina e organizza la memoria, il ricordo e scandisce anche il calendario.

Tutto questo nella quotidianità. Ma la piazza era anche il luogo degli eventi eccezionali, dei rituali collettivi: della festa del paese, e, quindi, delle bancarelle, delle luminarie. Era anche il luogo dei festeggiamenti civili, delle bande, dei cantanti che venivano in paese. Era il luogo delle rappresentazioni delle farse di Carnevale e delle celebrazioni religiose, dei comizi, delle competizioni elettorali, delle proteste. Nella piazza si sedimentavano iniziative culturali, simboliche, produttive, politiche, rituali che la rendevano un inevitabile punto di riferimento e anche un inevitabile luogo della memoria. Per cui, per l’emigrato lontano, il ricordo principale era proprio il campanile della chiesa, la piazza, il crocevia di innumerevoli incontri, relazioni, eventi piccolissimi e grandi, di fatti.


Quella che ha descritto, però, è una socialità molto maschile. C’era posto in piazza per le donne?
Sicuramente quella era un tipo di socialità molto maschile, perché in qualche modo gli spazi urbani, anche di giorno, erano prevalentemente spazi degli uomini. Più ancora di notte, la piazza era uno spazio degli uomini. Le donne andavano ai negozi, per le compere. E c’erano luoghi di socialità femminile, soprattutto le botteghe delle sarte, che erano un luogo esclusivamente femminile, da cui gli uomini erano esclusi e in cui gli uomini cercavano di “passare”, per cercare le ragazze, rubare un appuntamento. La chiesa, e soprattutto alcuni momenti della religiosità, era anche uno spazio più “femminile” rispetto alla piazza, di cui però erano anche spesso il confine. Un confine poroso in molte circostanze, tanto quotidiane, quanto rituali.

Con la grande emigrazione del dopoguerra e del boom economico, quando mancano gli uomini, le cose cambiano e le donne si sostituiscono a loro in tutte quelle mansioni che non erano più svolte dai mariti, figli o fratelli partiti per il Nord dell’Italia o per Altrove più lontani. E allora cambia anche la piazza.

Cosa resta oggi, di questa piazza, per esempio in un paese come il suo.
La piazza del mio paese oggi è completamente vuota. I balconi che, in quelle occasioni che ho descritto sommariamente prima, diventavano i palchetti affacciati su un palcoscenico popolare, sono deserti. Questo deserto è causato da due ordini di motivi: i paesi si sono spopolati, vale per il mio come per centinaia di altri, e, nello stesso tempo, i centri storici sono stati abbandonati. Palazzi anche di una certa importanza architettonica, con una loro bellezza, sono stati abbandonati per costruire fuori dall’abitato storico. Spesso, in Calabria come altrove, si sono riempiti male gli spazi vuoti attorno ai paesi, lasciando vuoti gli spazi pieni dei centri storici. Capita spesso che le zone morte, desertificate, abbandonate, siano al centro del paese, che ormai è periferia, se non in senso geografico almeno in senso culturale, un posto dove non c’è motivo di andare perché non c’è nessuno, né niente da fare. Se usiamo la metafora del paese come corpo, allora il cuore, in molte parti d’Italia, non batte più.

Per questo, qualche tentativo che viene fatto per recuperare vecchi palazzi, o sistemare qualcosa, in assenza di un progetto complessivo rischia di diventare controproducente e quasi di amplificare il senso di vuoto. Il problema del recupero della piazza o del centro storico, allora, è un problema più ampio di rivitalizzazione dei paesi, di “appaesamento”.

La piazza di San Nicola da Crissa

L’Italia sembra sempre oscillare tra nostalgia e indifferenza, rispetto al passato dei suoi paesi: nostalgia per quei microcosmi e indifferenza rispetto alla situazione attuale di centinaia di piccoli centri, specialmente nelle aree interne. Perché secondo lei?
Mi sembrano due facce della stessa medaglia. Ridare vitalità a un luogo non significa ricostruire la piazza così com’era, ma significa innanzitutto costruire una nuova comunità. Offrire dunque, spazi di scambio e socializzazione, di cultura, di insediamenti produttivi, luoghi di ritrovo, innanzitutto per i giovani. Nei paesi mancano del tutto i luoghi di incontro che abbiano preso il posto della sartoria, del barbiere, della farmacia.

La nostalgia della piazza e del microcosmo la definirei come una nostalgia per conto di terzi, perché è custodita da persone che non hanno curato quei luoghi, non li hanno vissuti, e, quindi, hanno un’immagine retorica, edulcorata, della vita del paese di una volta. E poi perché questa nostalgia, anziché porsi il problema di come rendere abitabile un luogo, tende a vederlo in maniera esotica, estetizzante, quasi come possibile punto di attrattiva e specchio delle nostre ansie, solitudini, nostalgie, inquietudini. Non un luogo reale, dunque, ma un luogo immaginario.

Non ci si pone, quindi, quasi mai il problema di come renderli vivi, questi luoghi, come ri-abitarli.

La questione di come rivitalizzare i paesi dovrebbe essere accompagnata da una nostalgia non retrospettiva, ma propositiva, che guardi al presente. La sfida è di recuperare e custodire i luoghi della memoria e, allo stesso tempo, inventare un nuovo mondo. Se la piazza vuota diventa un oggetto di contemplazione, diventa, forse, un luogo dove cercare risposte al proprio malessere, al bisogno di un Altrove, non certo un luogo per cui immaginare un futuro possibile.

Quando parlo di restituire vitalità, ovviamente non immagino ricostruire la vita di una volta, sarebbe impossibile perché la socialità è cambiata, il mondo è cambiato e noi stessi siamo cambiati. Bisogna, come dicevo prima, immaginare una nuova comunità. È una scommessa, chiaramente, il cui esito è incerto. Credo che l’atteggiamento debba essere quello di una consapevolezza critica, verso il patrimonio materiale e immateriale racchiuso nei paesi e rappresentato dalla piazza. D’altra parte, bisognerebbe porsi il problema di come creare attività produttive, come attrarre nuovi abitanti o ex abitanti che potrebbero voler tornare.

Golden Mile Plaza, Toronto, anni Sessanta

Questo atteggiamento nostalgico retrospettivo incide anche sulla qualità degli interventi urbanistici, quando pure ci sono?
Un altro errore che si commette, secondo me, è quello di voler recuperare gli abitati così com’erano, per come erano. Penso che sia qualcosa da valutare caso per caso, perché è evidente che non è possibile pensare di rendere ri-abitabili i centri storici dei piccoli paesi senza intervenire per rendere le case adatte alla vita contemporanea, per le famiglie, per i bambini, per i giovani o anche per gli anziani. Il rispetto per l’armonia e l’estetica del passato va bene, ma non deve diventare un freno agli interventi non solo necessari, ma in molti casi inevitabili per impedire che il declino continui e diventi, alla fine, sparizione.

Ci sono modi per intervenire in maniera intelligente, rispettando, per esempio, i materiali e le tecniche di costruzione di ciascun luogo. Quello che vedo, invece, è che spesso si evita di mettere mano per rendere i centri storici più confortevoli, e quindi attraenti, per paura di alterare uno sfondo, appunto, estetizzante e idealizzato, corrispondente a un’immagine del paese del passato, autentico, puro, genuino, che non esiste più e che forse non è mai esistito.

Quello che dice mi fa venire in mente un altro rischio, cioè quello della trasformazione dei centri storici dei paesi in quinte teatrali, in set, solo per il consumo turistico mordi e fuggi. È un rischio reale?
È un rischio reale e, direi, anche una conseguenza di quello che abbiamo detto finora. Faccio ancora un esempio preso dal territorio della Calabria.
Trovo dissennato aver cementificato le colline o i dintorni dei paesi, con case che a volte restano vuote o sono piene solo per poche settimane all’anno. Si è creato, spesso, un doppio vuoto: quello storico, del centro antico, e quello nuovo, delle marine o delle case costruite lungo le statali. Mancano però i collegamenti con l’interno, le strade dalle marine ai centri collinari e montani sono tremende. Le stesse marine vivono ormai un mese all’anno e per il resto sono di nuovo vuote. La mancanza di cura e di politiche per i centri interni ha diversi effetti negativi. Dal punto di vista della cura del territorio, quando la montagna è abbandonata, la valle soffre. Soffre in termini di dissesto idrogeologico, ma soffre anche in termini di perdita di senso.

Senza il rapporto con l’interno, infatti, senza il rapporto con la memoria e il territorio, cosa resta?

Solo il mare, ma a quel punto, un mare vale l’altro, perché venire in Calabria e non andare in Grecia, Spagna o Croazia? Sono zone del Mediterraneo con servizi migliori, mare altrettanto bello magari, e sono collegate meglio. Il nuovo, poi, si somiglia un po’ dovunque, è un nuovo che riduce le differenze, specie nel Mediterraneo, e risponde a criteri di uniformità di servizi, perfino di paesaggi e di gusti. A questo punto, almeno per un turismo mordi e fuggi, un posto vale l’altro. Non c’è attenzione per l’anima del luogo che, comunque, si è in gran parte persa. Ecco allora che tra la nostalgia retrospettiva e idealizzante e l’omologazione dell’offerta, e perfino dell’immagine dei paesi, a uso e consumo di un turismo soltanto predatorio c’è un rapporto stretto, quando al contrario si dovrebbe andare in un posto, oltre che per il mare, magari anche per quello che di unico, irripetibile, quel posto ha da offrire.

Paesi vuoti, Calabria: l’esempio di Riace e di altri comuni della zona jonica, che hanno cercato di ripopolare i centri storici grazie ai migranti, è un possibile percorso?
Che i centri storici possano acquistare nuova vita, con ritorni o nuovi arrivi, di cui i migranti sono senz’altro una componente, è fuor di dubbio un pezzo del ragionamento, ma secondo me non basta. C’è bisogno di una politica sistemica e di politiche che favoriscano l’insediamento e il re-insediamento. Per esempio, di politiche demografiche intelligenti e di sostegno concreto alle famiglie, di politiche di sostegno ai giovani che vogliono stabilire delle attività produttive. In Trentino, per dirne una, ci sono fondi per i giovani che vogliono tenere aperte le piccole botteghe di prossimità, in modo che si possano salvare dalla voracità dei grandi centri commerciali.

Un’altra cosa che vedo è che i figli, o i nipoti, di quelli che sono andati via potrebbero perfino voler tornare o investire nel paese dei loro nonni, ma non c’è niente su cui investire, non c’è un progetto. Se anche vengono in visita, non sanno dove stare e, quindi, alla fine non tornano più. Ci vorrebbe una politica fatta di tanti piccoli tasselli, di investimenti culturali, abitativi, produttivi, calibrata caso per caso sulla base delle peculiarità di ciascun luogo per cercare di invertire una tendenza che dura ormai da sessant’anni. Non si tratta di ricostruire il paese presepe, ammesso che sia mai esistito, ma provare a sperimentare una nuova possibilità per i paesi e i loro abitanti.

Anche perché le cose continuano a peggiorare: la crisi demografica va avanti, la fuga dai paesi non si è fermata.

Bisogna tenere conto, ormai, anche della differenza di percezione rispetto ai luoghi di cui stiamo parlando. Per me, la piazza che ricordo da bambino è quella che ho cercato di descrivere all’inizio; per le nuove generazioni, invece, per quei pochi giovani che nascono e crescono nei paesi, la piazza è già un deserto. Sono cresciuti in un tessuto sociale vuoto, in un paese svuotato. Non c’è quindi nostalgia, per loro, non c’è volontà di restauro perché il luogo non è legato ad alcuna sedimentazione di storie, di incontri, di eventi. Si vive negli stessi luoghi, a volte, ma si vivono i luoghi in modo completamente diverso. Anzi, il paese diventa il non-luogo, vuoto, mentre la modernità che entra attraverso i media, i social eccetera, è il luogo per loro riconoscibile. Un po’ il contrario di quello che avveniva per i compaesani a Toronto negli anni Settanta.

Quindi le nuove generazioni spesso partono e non tornano per mille motivi, ma anche perché il paese che loro lasciano è un paese vuoto. Il paragone tra quello che si ha e il posto che si è lasciato è tutto a svantaggio del secondo, mentre per la vecchia generazione di emigranti, il ricordo – vero o inventato che fosse – era un mondo popolato, pieno di storie e di senso, da confrontare con il vuoto delle plaza delle città dove erano andati a vivere.

Certo, bisogna distinguere tra piccoli paesi, città di provincia e grandi città, ognuno alle prese con i propri problemi di spopolamento e le proprie emergenze abitative.

Il problema, anzi, quasi ovunque in Italia è proprio quello di ri-abitare i luoghi, che spesso vuol dire abitarli per la prima volta, costruire nuovi rapporti comunitari, non immaginare di ripristinare quello che c’era nel passato, ma dare un nuovo senso ai luoghi; farne dei posti dove sentirsi a proprio agio, con dei punti di riferimento e di orientamento. Posti dove sentirsi, di nuovo o per la prima volta, “appaesati”.

In queste settimane di quarantena di piazze obbligatoriamente deserte, molti italiani hanno fatto esperienza di cosa possa significare un paese svuotato e contatti sociali rarefatti. La differenza è che, per quanto lunga e faticosa, questa fase è passeggera per la gran parte del paese, mentre in decine di piccoli centri è la condizione permanente. Che ne dice?
Qui, nei paesi, il vuoto è quello di sempre. Solo che adesso, magari, la gente se ne accorge, lo capisce e, magari, prende coscienza che la fine dell’antico paese, la comunità, era già avvenuta da tempo.

Non ha senso, in questi casi, affermare che “tutto tornerà come prima” o che “bisogna tornare come prima”. A parte il fatto che non si torna indietro, il prima non era poi così esaltante ed è quel prima che ci ha portato all’oggi.

Se tutto questo passerà, come speriamo, bisogna inventare qualcosa di diverso di prima, riempire con saggezza e progettualità i vuoti già esistenti, magari interrogandoci su come si potrebbe ripartire anche con quelli, tantissimi, che sono tornati, dal Nord, nei paesi. E se la scelta e le possibilità di restare fossero portate avanti nella normalità e non in caso di catastrofi. Tutto potrebbe diventare meglio di prima, ma solo se prendiamo atto che il “virus” è all’interno del mondo che noi abbiamo ereditato e costruito e, forse, era ed è all’interno di noi. Tutto potrebbe diventare “peggio di prima”, se non si raccoglie, assieme al senso e al valore tanti dolori, sacrifici, generosità, voglia di bellezza e di vita di moltissime persone, anche quella che suona come una delle ultime drammatiche avvertenze date all’Homo Sapiens che, finora, non si è accorto che potrebbe correre verso la fine.

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Per ripopolare le piazze vuote non basta guardare al passato ultima modifica: 2020-03-30T19:04:10+02:00 da ENZO MANGINI
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