Rinus Michels, il regista dell’Arancia meccanica olandese

Quindici anni fa moriva l’ex giocatore e allenatore maestro di Cruijff e di molti altri. Un uomo che ha dominato la scena, ha imposto un metodo e ha ispirato.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Quindici anni senza Rinus Michels non sono pochi. Ai più giovani, forse, questo nome dice poco o nulla, ma per chi ha avuto vent’anni ai tempi dell’“Arancia meccanica olandese”, quella meraviglia tecnica e tattica che abbagliò il Vecchio continente nei primi anni Settanta, Michels resta l’alfiere di un altro modo di intendere il mondo e lo sport.

Allenatore visionario, rivoluzionario in ogni singolo aspetto, fu lui a rendere grande prima l’Ajax e poi il Barcellona, sposando le proprie convinzioni innovative con il genio multiforme di un antipatico dal talento cristallino di nome Johan Cruijff. Nulla sarebbe stato possibile senza quel numero quattordici, sfrontato e istrionico come pochi, capace di trasformare un numero di maglia che prima di lui voleva dire riserva in un simbolo mondiale di rivolta pacifica.

Rinus Michels e Johan Cruijff

Rinus Michels ha portato ovunque il suo credo, si è affidato a giovani di belle speranze come Rep e Neeskens, ha plasmato ogni compagine, che si trattasse di club o di nazionale, a propria immagine e somiglianza ed è riuscito a convincere i suoi ragazzi e il mondo intero che fosse possibile giocare in un altro modo. Addio agli schemi del passato, alle antiche convinzioni, al modello tattico che fino a quel momento era andato per la maggiore e benvenuto calcio totale, con attacco e difesa pressoché interscambiabili, piedi buoni a grappoli, ciascun giocatore in grado di compiere sia la fase offensiva che la fase difensiva, fraseggi illuminanti e un gioco abbagliante dopo il quale nulla sarebbe stato più come prima.

Ha ragione chi sostiene che tentativi di calcio totale fossero stati compiuti già negli anni Cinquanta, ma si trattava, per l’appunto, di meri tentativi. Né la leggendaria Honvéd di Puskás, Kocsis e Czibor, né la Grande Ungheria che dominò, anche grazie alla fucina della Honvéd, la scena mondiale nei primi anni Cinquanta, perdendo tragicamente la Coppa del Mondo del ’54 contro la Germania Ovest, poterono affrancarsi del tutto dagli schemi allora in auge: vuoi perché i tempi non erano ancora maturi, vuoi perché per inventare occorre la democrazia e l’Ungheria, travolta dalle pressioni sovietiche e poi annientata dai carri armati che nel ’56 andarono a reprimere nel sangue le convinzioni di Imre Nagy, il Michels del socialismo reale, non costituiva un terreno fertile per chi aveva in mente di cambiare tutto.

L’Olanda liberale e libertaria, l’Olanda in cui veniva consentito alle mogli di andare in ritiro con i mariti, l’Olanda col sorriso sulle labbra, fior di biondoni che sembravano usciti da Woodstock o dall’Isola di White, l’Olanda di tutti i diritti e delle innumerevoli conquiste sociali e civili, quell’Olanda lì era, invece, il luogo ideale per sperimentare.

E Michels vi costruì il proprio miracolo, esportandolo contemporaneamente nella Catalogna anti-franchista, in quella Barcellona che resisteva da quarant’anni al regime e che aveva trovato nei colori azulgrana il proprio esercito disarmato ma efficacissimo, approfittando anche del fatto che il franchismo era ormai al tramonto e la democrazia faceva timidamente capolino fra le nubi della barbarie.

Michels e Cruijff, nel loro piccolo, neanche troppo piccolo a dire il vero, accelerarono il processo storico, ponendosi come protagonisti sportivi della transizione dalla dittatura alla democrazia, conducendo l’orgogliosa e fiera terra di Catalogna verso trionfi in grado di spezzare il dominio pressoché ininterrotto del Real Madrid di Bernabéu e regalando a quella gente, che aveva subito ogni angheria, il sorriso che le era stato strappato.

Cruijff e Michels sono stati accomunati dallo stesso destino: vincenti nei club, sconfitti in nazionale, a causa della solita e mai doma Germania Ovest, tutta grinta, tattica e ferocia agonistica, con qualche campione a illuminare la scena e molti solidissimi panzer incaricati di impedire alle farfalle in maglia arancione di conquistare i Mondiali del ’74 che ciascuno di noi avrebbe assegnato loro di diritto.

Sarebbero dovuti passare quattordici anni prima di vedere gli orange ballare felici sul tetto d’Europa. Sarebbero dovute entrare in scena le caviglie meravigliose e fragili del Cigno di Utrecht, al secolo Marco Van Basten, per concedere agli olandesi la rivincita sul destino, con un 2 a 0 nella finale di Euro ’88 inflitto a un’Unione Sovietica ormai prossima alla disgregazione.

Rinus Michels con la nazionale olandese vittoriosa agli europei del 1988 (si riconoscono Ruud Gullit e Marco Van Basten)

Non c’è dubbio che Michels sia stato un uomo di frontiera, spesso costretto a fare i conti con equilibri fragili e più grandi di lui, ad affrontare avversari tosti e caratterizzati da vicende geopolitiche che, il più delle volte, hanno finito col travolgere anche il calcio.

Michels ha resistito a tutto, ha dominato la scena, ha imposto un metodo, ha ispirato Sacchi, forgiato Cruijff e, a distanza, anche Guardiola, figlioccio di Cruijff, in un passaggio di testimone che ha scandito le generazioni e trasformato il Barcellona nel miracolo sportivo cui abbiamo assistito negli ultimi quindici anni.

L’unico rammarico è che Michels non si sia potuto godere praticamente nulla della meraviglia che lui stesso ha contribuito a formare. È stato il padre nobile della bellezza applicata al calcio e, a quasi cinquant’anni di distanza, i segni del suo passaggio sulla Terra sono ancora tangibili.

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Rinus Michels, il regista dell’Arancia meccanica olandese ultima modifica: 2020-04-01T14:39:44+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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