Silent Spring è un libro del lontano 1962. L’autrice, la biologa americana Rachel Carson, immaginava appunto una primavera priva dei consueti suoni stagionali, in primis il cinguettio degli uccelli, sterminati – questa era l’accusa della Carson – dall’esasperato inquinamento da pesticidi. Oggi viviamo una primavera silenziosa in un certo senso rovesciata, in cui a mancare sono i rumori e le voci umane. Incapsulate in una quarantena che ci permette solo di vedere il “cielo in una stanza”, per usare le poetiche parole di Gino Paoli.
Eppure ciò che la pandemia potrebbe già porci come motivi di riflessione è un materiale abbondante. Otto anni fa il divulgatore scientifico David Quammen scrisse nel suo libro Spillover che la futura grande pandemia (chiamata “the Next Big One”) sarebbe stata causata da un virus zoonotico trasmesso da un animale selvatico, verosimilmente un pipistrello, e sarebbe venuto a contatto con l’uomo attraverso un qualche mercato in Cina. E ciò perché molte specie animali sono portatrici di forme di virus uniche. Così, quando interferiamo con i diversi ecosistemi abbattendo foreste, scavando pozzi e miniere, catturando animali per venderli, scombiniamo questi equilibri naturali liberando nuovi virus.
C’è poi un secondo aspetto di interesse ambientale. Nel 2013 un gruppo di ricercatori cinesi ha analizzato una porzione di particolato atmosferico consistente in microrganismi inalabili, cioè batteri, virus e funghi, e ha mostrato che al crescere delle concentrazioni di particolato si verificava un incremento dei microrganismi nell’aria. Ovvero più erano elevate le concentrazioni di inquinanti nell’aria maggiori erano le quantità di microrganismi patogeni sospesi.

Se ciò fosse confermato, si potrebbe supporre che, giunto in Italia fra il 2019 e il 2020, il virus abbia trovato soprattutto in Lombardia terreno, anzi aria, purtroppo ben fertile per la sua diffusione. Si aggiunga poi l’ovvio legame tra inquinamento e vulnerabilità polmonare, con insorgenza di patologie respiratorie e maggiore suscettibilità al contagio e allo sviluppo di complicanze.
Un terzo punto è di rilevanza demografica e sanitaria. È già stata colta la correlazione tra l’invecchiamento dell’Italia (in cui quasi un quarto della popolazione è anziana o grande-anziana) e il tasso di letalità da coronavirus, che cresce sensibilmente (soprattutto tra i maschi) a partire dai settant’anni per sfiorare il trenta per cento tra gli ultranovantenni.
Ciò comporta due sfide. La prima deriva dal dover gestire il cosiddetto double burden of disease, dove appunto al burden della cronicità tipico di una popolazione invecchiata e longeva (solo il trentanove per cento degli anziani è libero da patologie croniche, il venticinque per cento ne ha due o più, la cosiddetta comorbidità) si aggiunge ora inopinatamente quello infettivo, che perversamente si lega alle fragilità del primo, come si è detto.
La seconda sfida, consequenziale, sta nel fatto che i sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto ippocratico di patient-centered care mentre una epidemia (così come lo stesso invecchiamento della popolazione, un fenomeno pure del tutto inedito ma non certo imprevedibile) richiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care.
In altre parole il sistema sanitario si è finora sviluppato in un senso fortemente ospedale-centrico, tralasciando a valle tutto il discorso della medicina preventiva e territoriale e a monte quello delle post-acuzie e delle riabilitazioni.
Scrive l’economista sanitario Fabrizio Gianfrate che in concreto la patient si esprime soprattutto nella struttura ospedaliera e nell’iperspecializzazione quale optimum della cura, la community invece si realizza maggiormente sul territorio, prevenzione inclusa (voce di spesa questa per la quale l’Italia è da sempre tra i più avari paesi dell’area Ocse). La community, rispetto alla patient che è più indirizzata alla diagnosi e cura del singolo, meglio si combina con le possibili sinergie decisionali e organizzative tra sanità e società locale (ed anche ambiente), come si è visto per certe misure di prevenzione epidemiologica adottate in Germania, dove grazie alle azioni preventive sul territorio si sono abbattuti i ricoveri in terapia intensiva e quindi i decessi. Ma anche nell’integrazione sociosanitaria più attiva in alcune regioni italiane, come il Veneto, la Toscana e il Lazio.

Ancora: la patient mette al centro la figura del medico che eroga prestazioni per il paziente e il management per gestire domanda, offerta e spesa sanitaria; la community coinvolge maggiormente anche epidemiologi ed esperti di programmazione e organizzazione dei servizi, comprese le tematiche di igiene e di prevenzione ambientale, naturaliter collettive, come si sa.
Se la pandemia potrà arricchirci di esperienza per imparare a cambiare gli occhiali con i quali vediamo la realtà, allora le lezioni da trarre sono molte. Di sicuro riguardano la salute dell’ambiente (e quindi anche la nostra), la vita dei numerosi anziani longevi ma fragili e i nuovi paradigmi di cura, facilitati dalle tecnologie della medicina a distanza e della digital health. La pandemia sarà stata utile nella misura in cui affronteremo velocemente le novità e le insufficienze che ci ha evidenziato con particolare crudezza.

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