Jean-Paul Sartre è morto a Parigi il 15 aprile 1980. Quarant’anni fa, dunque. Il 14 aprile 1986 lo raggiungeva nell’aldilà Simone de Beauvoir, compagna nella vita e nella ricerca appassionata di idee nuove per cinquant’anni. Un connubio non privo di contraddizioni, che però ha fatto epoca per sintonia e solidarietà non solo intellettuale.
Ricordo due incontri con la celebre coppia. In un pomeriggio di settembre 1977, scorsi Sartre e de Beauvoir seduti al tavolino di un bar a piazza Montecitorio, al lato del vecchio cinema Capranichetta (il bar non c’è più da anni). Stavano sorseggiando delle birre. Erano vestiti di bianco. Lei con un camicione e il solito foulard avvolto sulla testa, lui con una sahariana su una maglietta nera. Sartre inforcava degli occhiali scuri. Dalla fissità del viso s’intuiva che non vedeva quasi nulla. de Beauvoir aveva uno sguardo altero ed elegante. Io stavo andando al palazzo dei gruppi parlamentari in via Uffici del Vicario dove lavoravo. Mi fermai a osservarli.

Mentre li guardavo ammirato, arrivò Tano D’Amico con la sua inseparabile macchina fotografica. L’accompagnavano due redattori del quotidiano Lotta continua. Avevano un appuntamento con Sartre e de Beauvoir. Salutai Tano e mi fermai a vedere i suoi scatti e ad ascoltare qualche domanda e risposta. Il giorno dopo, parlando di quel casuale incontro con alcuni amici, scoprii che Sartre e de Beauvoir alloggiavano nell’Hotel Nazionale che ha sede proprio in uno degli angoli di piazza Montecitorio. Dormivano all’ultimo piano, in due camere separate. Erano clienti abituali dell’albergo dove passavano almeno una settimana ogni anno. Li si poteva incontrare a passeggio intorno al Pantheon.
Qualche giorno dopo, Luciana Castellina mi disse: “Ho un appuntamento con Sartre e de Beauvoir. Vieni con me?”. Non me lo feci dire due volte. L’appuntamento era fissato proprio nel bar all’angolo del cinema Capranichetta. Mi sedetti un po’ in disparte. Non ricordo molto di quella conversazione. Ero concentrato a seguire i movimenti dei due illustri francesi.
L’unico flash di quel dialogo pomeridiano che mi è rimasto in mente riguarda il modo con cui Sartre ci spiegò la sua abitudine di passare le vacanze visitando alcune città. La permanenza a Roma faceva parte di un’abitudine acquisita nel tempo. Del resto, l’ha scritto in La regina Albemarle. L’ultimo turista, dove compaiono i suoi appunti di viaggio italiani da Capri a Venezia.
Einaudi farebbe bene a ristampare La cerimonia degli addii di Simone de Beauvoir (la prima edizione è del 1983, l’ultima del 2008). È un libro imperdibile. Nelle prime centoventi pagine la scrittrice racconta, a mo’ di scrupoloso diario, gli ultimi dieci anni della vita di Sartre. Come una telecamera, l’autrice passa in rassegna appuntamenti, iniziative, tic, alti e bassi, decadenza psicofisica di Sartre che è ormai pago di quanto ha fatto e scritto.
Risulta faticoso, anche nell’ultimo decennio di vita, seguire la quantità di cose che Sartre fa, dice, scrive e che sono raccontate in questo libro. Lui non rinuncia alla dimensione pubblica del pensare e del fare. Non diserta le faticose riunioni della sua rivista, Les Temps Modernes, e non si apparta dal dialogo con i giovani collaboratori. Lo fa seguendo un comandamento ben riassunto dalla de Beauvoir: “Per tutta la vita Sartre non ha mai smesso di mettersi in discussione”.

Il Sessantotto – come il 1956 nel rapporto con il comunismo e l’Unione Sovietica – era stata l’occasione per rivisitare la propria teoria dell’intellettuale come “tecnico del sapere pratico”. L’Idiota della famiglia (l’ultima grande opera sartriana dedicata a Gustave Flaubert) servì a Sartre per compiere un affresco chirurgico sul prototipo di scrittore apolitico e borghese, proprio il contrario delle sue aspirazioni.
Quando vi ho conosciuto, mi avete detto che volevate essere al tempo stesso Spinoza e Stendhal. Un gran bel programma
ironizza a un certo punto de Beauvoir. Sartre replica dicendo che ci è riuscito solo in parte.
Questo ultimo dialogo tra Sartre e de Beauvoir si legge d’un fiato.


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