Forse ci siamo sbagliati a criticare il sindaco Brugnaro durante e dopo il suo non rendersi conto o il suo fingere di non capire che il virus, già operativo nel veneziano e nel resto del Veneto, avrebbe ben approfittato delle ondate di gente ammassate in strada dal Carnevale veneziano e dagli altri Carnevali in terraferma? E il presidente Zaia, che successivamente è parso determinato nel contrasto all’epidemia, a virus già circolante non avrebbe agito più responsabilmente se avesse “incoraggiato”, “sospinto” le autorità sanitarie regionali, in particolare quelle veneziane, nel rendersi più reattive nei riguardi del pericolosissimo, possibile innesco tra Carnevale e “quella” minaccia alla sicurezza della salute pubblica?
Forse che Brugnaro e i molti a spasso anche perché “non ce la facciamo più a stare sempre a casa” rinnovano un’antica incoscienza/insofferenza italica? Non ho voglia di andare a cercare se Machiavelli o Guicciardini abbiano usati termini più appropriati, che di sicuro ci saranno. Antica quanto quell’incoscienza? Da sempre, probabilmente, anche se Venezia, quella della Repubblica però, mai si distrasse inventando e reagendo in ogni modo alle devastanti epidemie della peste. Va detto comunque che Venezia con la sua lunga storia serenissima non rientra esattamente nel contesto “medio” di altre parti d’Italia. E questo lo si capisce chiaramente dal rapporto Peste/Venezia, nel senso sia delle risposte sanitarie sia delle forti ripartenze economiche, culturali, sociali, politiche, attuate dallo Stato marciano.
Fortunatamente disponiamo di un racconto dal valore universale, I Promessi Sposi, dove uno dei nostri più autentici progenitori, Renzo, l’italiano che verrà, a fin di bene certamente ma si muove nel contagio di continuo, non temendo più di tanto i rischi e i pericoli terribili della peste a Milano. E lo fa perché è alla ricerca di Lucia, costi quel che costi, attraversando gruppi di disperati alla caccia degli untori o nascondendosi tra i monatti. E per quei superstiti cittadini resi folli dalla paura e dall’odio contro tutti, Manzoni scrive:
Così l’ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora angustie alle angustie, e dava falsi terrori.
Tra gli ignoranti “coraggiosi” chi? Per esempio, stando al racconto manzoniano, “i gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una sporta in braccio, andare a comprare le cose necessarie al vitto”. Il promesso di cognome fa Tramaglino, che è il diminutivo di tramaglio, cioè di un intreccio di vari fili, di una rete intricatissima, una trappola. Una tendenza del carattere questa che non sembra appartenere a Renzo, nonostante lo si veda capace, in evenienze molto complicate, di sbrogliarsela perfettamente. Così nel caso del suo giungere al “lazzeretto, popolato di sedicimila appestati”. Nel mezzo di quello spettacolo infernale il nostro incontra padre Cristoforo cui rivela l’intenzione di voler trovare Lucia, immaginando che la promessa possa trovarsi in un luogo a parte, tra le donne. Vale la pena citare letteralmente il “dialogo all’italiana” tra i due.
“Non sai figliuolo, che è proibito d’entrarci agli uomini che non ci abbiano qualche incombenza?”
“Ebbene, cosa mi può accadere?”
“La regola è giusta e santa, figliuolo caro; e se la quantità e la gravezza dei guai non lascia che si possa farla osservar con tutto il rigore, è una ragione questa perchè un galantuomo la trasgredisca?”
L’interrogativo di padre Cristoforo è già la soluzione del pasticciaccio, infatti qualche riga più avanti il frate spiega al giovane il da farsi per non cadere nei guai del labirintico lazzaretto, con un suggerimento illuminante e non sconosciuto a generazioni di italiani in cerca di protezione, di aiuto: “Se però ti si facesse qualche ostacolo, dì che il padre Cristoforo ti conosce, e renderà conto di te”.
Come ognuno di noi sa, o quasi, il frate cappuccino è un personaggio eroico e coraggioso davanti alla peste e ai potenti, ma dimostrando santamente, nell’episodio di cui sopra, di conoscere come vanno le cose del mondo.

Venezia e l’Italia al tempo del colera nell’Ottocento. Si muore, e si muore anche tanto, ma l’Italia risorgimentale e preunitaria non sembra accorgersene affatto. Il colera falcidia migliaia e migliaia di persone da Nord a Sud, da Genova a Venezia, da Torino a Milano, da Trieste a Palermo, da Napoli a tutte le città venete, ma le istituzioni e i prossimi cittadini italiani incassano la moria e vanno avanti. Sono gli anni della guerra in Crimea dove a combattere ci sono i piemontesi quando, nell’estate 1855, dilaga il contagio coleroso in mezza Italia e una cronaca riporta che, nonostante la presenza del colera, il governo toscano ha fatto eseguire ieri e oggi (24 giugno) in Firenze le solite festività e cerimonie per San Giovanni. Intanto nel Lombardo-Veneto si proibisce in qualunque stagione la caccia alle lepri a rastrello, tanto se fatta con cani levrieri…
Le banche funzionano, il Papa Pio IX accompagna nella basilica di San Paolo il re del Portogallo. Nell’agosto del sempre coleroso 1855 a Venezia, nell’Accademia di Belle Arti, sono distribuiti i premi di vari concorsi artistici e vi si apre una mostra d’arte. Questo il 5 agosto, mentre il giorno prima c’erano stati tredici casi e sette morti, con Trieste che registra in quello stesso giorno 35 morti in un nord-est assai colpito. E gli storici ricordano che a dare il colpo mortale alla rivoluzione veneziana di Manin ci fu il colera del 1849: quasi quattromila morti, una strage seguita da una terribile epidemia di morbillo. Nuovamente colera negli anni ’55, ’66, ’69, ’73, ’86.
Immagino che ognuno sappia che si tratta degli anni decisivi del Risorgimento. Venezia procede tra cadute e riprese fino a quando già si lavora in vista di qualcosa che diverrà la Biennale del 1895, con l’avvio della Venezia dei grandi alberghi, degli stabilimenti balneari, dei ponti in ferro sul Canal Grande. E questo in una città dove il forestiere prova orrore davanti all’impietosa miseria e lo stato di abbandono in cui si vive in molte parti, da Castello all’Angelo Raffaele, dal Ghetto alla Giudecca.
Come si spiega questa strana incoscienza/insofferenza italica? Che non so se al momento sia solo sopita, dormiente, del tipo alla Brugnaro. Negli anni del colera morivano anche gli aristocratici, i principi, tra gli altri il principe di Lampedusa, dunque? Indifferenza e cinismo sociale verso i deboli, i poveri? Ci sarà pure stato un qualcosa del genere, ma questo non spiega il senso profondo di ciò che accadde nell’Ottocento, a partire dalle assidue epidemie di colera. O forse perché nessuno rispettava i divieti che non possono non esserci stati?
E da ultimo venne Italo Calvino che scrisse un brevissimo apologo “Chi si accontenta”, che inizia calvinianamente con “c’era un paese dove era proibito tutto”. Ai sudditi non era proibito solo il gioco della lippa. Spiega il narratore “siccome le proibizioni erano venute un poco per volta, sempre per giustificati motivi, non c’era nessuno che trovasse a ridire o non sapesse adattarsi”. Anno dopo anno, i connestabili capirono che non c’era alcuna ragione nel proseguire con le proibizioni e così mandarono i messi dai sudditi per avvertirli “che potevano fare quel che volevano”. Dissero: “non è proibito niente”. E i sudditi risposero “noi giochiamo alla lippa”. Messi e connestabili disperati continuavano a ricordare “loro quante occupazioni e belle e utili vi fossero cui loro avevano atteso in passato e cui potevano di nuovo attendere d’allora in poi”. A quel punto i connestabili proibirono il gioco della lippa. “Fu la volta che il popolo fece la rivoluzione e li ammazzò tutti. Poi senza perdere tempo, tornò a giocare alla lippa”.
Difficile sapere se alla fine di questa epidemia a essere “ammazzati” (politicamente) saranno i connestabili del governo che proibì tutto, o non piuttosto a finire molto male il popolo cui a volte sembra che basti solamente giocare alla lippa.
Dio, che bello sarebbe se ci fosse ancora Italo Calvino, con i suoi 97 anni, a spiegarci il vero senso del suo impietoso apologo.

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1 commento
Quel bel article! Merci à cette épidémie! En France on commence à lire “les fiancés” de Manzoni. Jusqu’ici on ne connaissait pas ce roman. Manzoni mérite d’être élevé au même rang que Cervantes, Tolstoi , Goethe ou Victor Hugo. Grâce au virus il s’exporte enfin.