Di questi tempi, col senno di poi (di cui restano piene le fosse, ancora Manzoni, sempre lui). Prendiamo i due massimi campioni delle patrie lettere poliziesche, seriali e contemporanee: il vicequestore Rocco Schiavone per la penna di Antonio Manzini e il commissario Salvo Montalbano del compianto Andrea Camilleri. Negli ultimi capitoli delle loro avventure (nell’ordine Ah l’amore l’amore e Il cuoco dell’Alcyon, entrambi Sellerio, come sempre) li troviamo doloranti e spiazzati, malfermi e incartati. Per una ragione o per l’altra, a pezzi. E a leggerli adesso, con quel che che va accadendo, pare quasi che il loro disagio fosse un presagire… Si sa: la tirannia del morbo la misuri per prima cosa sul tuo cervello. Comunque, Rocco in una camera d’ospedale, con un rene in meno per via di un recente conflitto a fuoco, e Salvo mobbizzato dai superiori, in ferie forzate e forse in via di licenziamento. Non sono cose di tutti i giorni. Poi, certo, i seriali finiscono sempre bene, se non altro per affetto (e interesse). Ma quanta fatica…
Il guaio con i gialli – film o romanzi che siano – è che, scrivendone, rischi di dire troppo o troppo poco, lo spoiler o le generiche. La via di mezzo resta nel ritratto dei personaggi eponimi, che nel caso di Schiavone e Montalbano finiscono inevitabilmente per avere le fattezze degli attori che ne hanno inverato l’esistenza sullo schermo di casa. E dunque l’ispido ma in fondo romantico Marco Giallini e l’energico, gaudente ma in fondo melanconico Luca Zingaretti, l’uno profondamente romano de Trastevere, sia pure di stanza per punizione ad Aosta, e l’altro sicilianissimo di nascita e pure di elezione, ché persino volarsene a Genova, per andare a trovare la morosa Livia, sarebbe un problema. Eroi diversissimi, naturalmente, ma entrambi fieramente borderline per il mestiere che fanno, e dunque a modo loro antieroi, chi con la canna di Maria sempre nel primo cassetto e chi con le irresistibili triglie di Enzo o le ‘ncasciate di Adelina sulla tavola. Più reprobi che ossequiosi ai comandi, l’altissimo senso di giustizia che li anima va al di là dei doveri d’ufficio, specie se per essi si intende la consueta liturgia del credere e obbedire, anche soltanto fingendo. Combattere poi, certo che sì, ma alla loro maniera.

L’ultimo combattimento, come s’è detto, è costato una nefrectomia a Schiavone, che incontriamo ancora febbricitante, ma inquieto e già incazzatissimo, sul letto d’ospedale. Per di più indispettito da un compagno di stanza lamentoso, che proprio non sopporta, uno di quelli che non paga le tasse e poi magari protesta perché la pasta della sanità pubblica è un po’ scotta. E siccome proprio non è capace, Rocco, di fare il buon paziente, ecco che il caso giunge a dargli una mano, mettendo malamente fine in sala operatoria ad un industrialotto della zona. Per un banalissimo errore, parrebbe, trasfusione di sangue incompatibile. Costernato e un po’ rassegnato il chirurgo, che però è persona davvero per bene, lo stesso che in precedenza aveva operato Schiavone (altro che malasanità); inferocita e già per mano di avvocati la famiglia, non altrettanto per bene, con qualche guaio finanziario alle viste e un erede che dà sul viziosetto. Insomma, vuoi per senso di giustizia (eccolo!), vuoi perché senza far niente il vicequestore convalescente proprio non è capace di stare, se i conti non tornano sarà meglio cominciare ad indagare. E in fretta, perché manca poco alla fine dell’anno. Non che Schiavone ci tenga molto, alle feste, nono livello di rompimento, ma insomma starsene in ospedale con il lamentoso sarebbe un po’ troppo. Roba da decimo e ultimo livello.


Ordinaria amministrazione a Vigàta. Non fosse per l’ammazzatina di un disinvolto imprenditore locale in procinto di liquidare l’azienda lasciando a spasso gli operai. Non si sognassero, peraltro, di indagare sul loro conto, perché la rabbia dei lavoratori magari mena ma non uccide. Mentre dal profilo del defunto emergono abitudini azzardate e lussi fuori serie, comprese due pupe d’alto bordo che vanno e vengono per la passerella dell’Alcyon, una goletta fantasma che ogni tanto fa la sua apparizione al porto, per poi sparirsene in fretta. Montalbano comincia a ragionarci su quando, d’improvviso, apprende che deve lasciare il commissariato per le troppe ferie arretrate non godute. Proprio non gli piace, questo sbrigativo modo di fare del Questore, ma cerca di farsene una ragione, magari per passare, finalmente, qualche giorno da Livia, a Boccadasse. Dove però apprende che i superiori ne hanno approfittato per allontanare anche i suoi collaboratori (Augello, Fazio, persino Catarella), mentre sul suo conto già si parla di un possibile allontanamento dal corpo di polizia. E che avrà mai fatto per meritarsi una simile camurria? Questo nuovo capitolo, forse l’ultimo data la dipartita, nel frattempo, dell’autore, lo coglie “sessantino”. Potrebbe andarsene in pensione anticipatamente, ma non è da lui. Confuso sì, arreso mai.
In aggiunta ai guai, c’è un’altra curiosa convergenza, che il lettore andrà scoprendo nella lettura “parallela” delle due strane inchieste, come sempre ben congegnate ed avvincenti (quella di Camilleri pressoché interamente in comprensibilissimo dialetto). Ed è la micidiale presenza del fuoco amico, quell’essere sparati da chi mai t’aspetteresti. Sta in testa al racconto di Manzini (ma verrà beffardamente accertato solo strada facendo), in coda a quello di Camilleri, dopo un radicale make up sul volto di Montalbano, per segretissime ragioni di servizio. Fuoco che rischia comunque di mandarli al creatore, o eterno riposo che dir si voglia.
Leggiamo per “straviarci” ma specie con polizieschi et similia – che ai tempi nostri finiscono sempre per diventare “letteratura sociale”, come ama ripetere Petros Markaris – le analogie con l’esistente non cessano mai di stupire. Funzionava prima, in tempi di “normalità”, figuratevi adesso che il nemico s’è fatto ubiquo e invisibile. Fuoco amicissimo, purtroppo, visto che nessuno può davvero scommettere su se stesso. E questo, Rocco e Salvo meno ancora lo potevano sapere.

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