Per Moacir Barbosa, di cui ricorre il ventesimo anniversario della scomparsa, nessuno ha mai speso una parola gentile. Non c’è stata tregua né pietà né perdono. Il portiere del Brasile era colpevole del reato più grave agli occhi dei suoi connazionali: non essere riuscito a prendere i due tiri imparabili di Ghiggia e Schiaffino, al cospetto del monumentale Maracanã gremito oltre ogni soglia di sicurezza e assetato di gloria e, infine, di rabbia.
Era il 16 luglio del ’50, settant’anni fa, e il leggendario Brasile di Ademir, capocannoniere di quell’edizione della Coppa del mondo, si presentò alla sfida decisiva contro l’Uruguay con un intero stadio (e che stadio!) a favore e i pronostici unanimi, con la stampa brasiliana che si lasciava andare a proclami di una presunzione e di un’arroganza senza pari e il prefetto del distretto federale, il generale Ângelo Mendes de Morais, che non resistette alla tentazione di rivolgersi alla squadra e al pubblico assiepato sugli spalti con un’affermazione inquietante:
Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo. Voi, giocatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti. Voi, che non avete rivali in tutto l’emisfero. Voi che superate qualsiasi rivale. Siete voi che io saluto come vincitori!

È in questo momento che prende forma la leggenda di Obdulio Varela, il capitano della Celeste che il giorno prima aveva pisciato pubblicamente su uno dei giornali che annunciava il trionfo dei brasiliani e preso per il collo un dirigente uruguaiano che sosteneva, in maniera alquanto incauta, che una sconfitta senza un eccessivo scarto di reti sarebbe stata più che onorevole.
Rivolgendosi al resto della squadra, Varela pronunciò una frase che sarebbe entrata nell’immaginario collettivo dell’Uruguay: “¡Los de afuera son de palo!”, quelli là fuori sono pezzi di legno. Sapeva, infatti, che quel Maracanã rigonfio di passione popolare, di voglia di vincere e di amore per la squadra brasiliana sarebbe stato in grado di incutere il terrore a chiunque. Sapeva che tutto le era contro ma che proprio questo poteva trasformarsi in un clamoroso vantaggio per una squadra che non aveva niente da perdere al cospetto di chi, invece, rischiava di essere schiacciato dal peso di dover vincere a tutti i costi.
Il Brasile è davvero uno squadrone ma nel primo tempo non trova il vantaggio: un gol che arriva solo a inizio ripresa con Friaça ma che sortisce l’effetto opposto a quello auspicato dalla folla smisurata in attesa di festeggiare il primo titolo mondiale. Anziché fiaccare la resistenza della Celeste, il gol brasiliano esalta Varela e compagni e Schiaffino trova il gol del pari, prima che Ghiggia, approfittando di un errore oggettivo del portiere Barbosa, faccia ammutolire l’intero stadio. Non a caso, proprio Ghiggia una volta ha dichiarato: “A sole tre persone è bastato un gesto per far tacere il Maracanã: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e io”.
Per il Brasile fu una tragedia nazionale. Basti pensare che alcune persone morirono d’infarto, altre si suicidarono. Il clima complessivo fu tremendo per giorni e lo stesso centrocampista Danilo tentò il suicidio, per fortuna non riuscendoci. Ary Barroso, il compositore di “Aquarela do Brasil”, che quel pomeriggio aveva svolto la radiocronaca dell’incontro, abbandonò poco dopo l’attività giornalistica per dedicarsi interamente alla musica. La maglia bianca, considerata dannata, fu sostituita dalla celebre divisa verdeoro.
Il giornalista e scrittore Nelson Rodrigues parlò di “Nossa Hiroshima”, la nostra Hiroshima e un altro scrittore, José Lins do Rego, scrisse su O Jornal dos sports:
Ho visto un popolo a testa bassa, con le lacrime agli occhi, senza parole, abbandonare lo stadio come se tornasse dal funerale di un amatissimo padre. Ho visto un popolo sconfitto, e più che sconfitto, senza speranza. Questo mi ha fatto male al cuore. Tutto l’entusiasmo dei minuti iniziali della partita ridotto a povera cenere di un fuoco spento.

Chi ebbe la sorte peggiore fu, come detto, il povero Barbosa: scelto come capro espiatorio, non ebbe pace per il resto della vita. Considerato il principale responsabile della sconfitta, a distanza di oltre trent’anni veniva ancora additato al pubblico ludibrio, tanto che sosteneva, con disperata autoironia:
Se non avessi imparato a smettere di irritarmi quando la gente mi rimproverava il gol di Ghiggia, adesso sarei in prigione o al cimitero.
Nel ’93 gli venne persino impedito di incontrare i giocatori della Seleção, in ritiro per le qualificazioni ai Mondiali del ’94, al punto che commentò, sconfortato:
In Brasile il massimo della pena per un delitto è trent’anni. Io da quarantatré anni pago per un delitto che non ho commesso.
In compenso, il suo dirimpettaio in maglia celeste, Máspoli, non solo ebbe ogni fortuna, umana e professionale, ma vinse persino due volte la lotteria nazionale.
Scrisse nelle sue memorie Jules Rimet, l’allora presidente della Fifa, cui era intitolata la coppa che veniva assegnata all’epoca: “Era tutto previsto, tranne la vittoria dell’Uruguay”.
Una ferita mai rimarginata, neanche a distanza di settant’anni. Alcides Ghiggia, per uno scherzo del destino, se n’è andato, a ottantotto anni, il 16 luglio 2015, nel giorno in cui ricorreva il sessantacinquesimo anniversario della tragica vittoria del suo Uruguay. Era l’ultimo superstite di quella storia indimenticabile. Da allora quella partita si gioca in cielo.
In copertina la foto del gol di Ghiggia.

Grazie al tuo contributo ytali sarà in grado di proseguire le pubblicazioni nel 2020.
Clicca qui per partecipare alla sottoscrizione


Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!