È un mese che siamo in quarantena confinati nelle nostre case, almeno quanti di noi non svolgono attività essenziali, e può essere che questa reclusione forzata stia mettendo alla prova la nostra capacità di gestire il tempo, oltre alle emozioni e i pensieri. È possibile che a tratti le giornate appaiano una sorta di partita a scacchi, quando c’è da trovare la tattica o la strategia giusta per non farsi vincere da una certa strisciante forma di stanchezza che può tramutarsi in noia, dall’ansia che può sempre fare capolino.
Ma tattica e strategia possono essere importanti anche in questioni pratiche: come lo scacchista prevede un certo numero di possibili scenari prima di fare la sua mossa, così stileremo la nostra lista della spesa cercando di valutare in anticipo di cosa avremo bisogno in cucina nei prossimi giorni, per non tornare dal negozio o dal supermercato e renderci conto di esserci dimenticati le uova o il prezzemolo o chissà che ingrediente inusuale per chissà quale ricercata ricetta con cui volevamo stupire e stupirci.
Perché stupirci, o sorprenderci, è importante quando i giorni si susseguono tutti uguali, ma non è sempre facile, e sono infatti ormai innumerevoli le attività che ci vengono proposte per distrarci. A quelle che si praticavano prima e si è riusciti a trasportare online se ne sono aggiunte altre, e allora via ad esempio con pilates e yoga a distanza, aperitivi via Skype o WhatsApp (o anzi, ancora meglio, Zoom) con gli amici… E poi chiaramente i tanti consigli su cosa leggere, cosa vedere, cosa ascoltare. Chi non vive da solo, è molto probabile abbia tirato fuori le carte, o i giochi da tavolo. E chissà, forse, gli scacchi.

Nati in India nel VI secolo e arrivati in Occidente attorno all’anno Mille (verso il Quattrocento raggiunsero un forma simile a quella odierna, mentre il regolamento attuale risale all’Ottocento), gli scacchi sono forse uno dei giochi più universalmente conosciuti. Un gioco affascinante, nobile, quasi mitico, addirittura esoterico, e non per niente Harry Potter, Hermione e Ron per raggiungere la pietra filosofale giocano una memorabile – per milioni, se non miliardi, di ragazzi (e non solo) – partita agli scacchi dei maghi. Anche se la partita a scacchi più famosa della storia del cinema è probabilmente quella giocata nel Settimo sigillo di Bergman, in un Nord Europa colpito dalla peste, tra la morte e il cavaliere Antonius Block (interpretato da un grande Max von Sydow, che ha da poco perso la sua partita: se ne è andato l’8 marzo scorso).

Se è dunque probabile che gli scacchi siano tra i giochi più conosciuti al mondo, è altrettanto plausibile che, se non in tutte, in molte case ci sia una scacchiera con i suoi 32 pezzi. Non è detto però che vengano usate. Se gli scacchi sono un gioco affascinante, al tempo stesso intimoriscono: si può tendere a considerarli troppo cerebrali, difficili, destinati a pochi eletti benedetti da un quoziente intellettivo elevatissimo. O, semplicemente, possono sembrare noiosi: un gioco dove si sta seduti e si pensa, e ogni tanto si compie giusto la fatica di sollevare un braccio e muovere un pezzo.
Eppure, un appassionatissimo di scacchi come Marcel Duchamp li definì “uno sport violento”. Sebbene, stando a Woody Allen, non lo fecero entrare nella squadra degli scacchi per via della sua statura, c’è da credere che il fisico per uno scacchista non debba poi contare più di tanto. Certo, lo sforzo cerebrale imposto da una partita di sicuro chiede un contributo anche al corpo, ma questo li rende uno sport? Ebbene, il Comitato Olimpico Internazionale li considera uno sport. Tuttavia sulla faccenda il dibattito è aperto, ed è improbabile che alle prossime olimpiadi vedremo uno scacchista come portabandiera di una qualche nazione. Anche se non sarebbe male: magari il portabandiera della Russia, che nell’immaginario collettivo è un po’ la grande potenza, il brasile – per usare una metafora calcistica – degli scacchi.
Ma sono già diversi anni che un russo non è più campione del mondo: l’ultimo fu Vladimir Kramnik, che nel 2007 perse il titolo contro l’indiano Viswanathan Anand che a sua volta, dopo essersi riconfermato per cinque anni consecutivi, dovette cedere nel 2013 lo scettro di re degli scacchi all’attuale campione del mondo Magnus Carlsen, norvegese. Carlsen, classe 1990, vinse all’età di 22 anni 11 mesi e 24 giorni, diventando così il secondo più giovane vincitore nella storia del titolo (il più giovane, Garri Kasparov, lo vinse a 22 anni 6 mesi e 27 giorni). Carlsen era un “predestinato”: nel 2004, quando aveva quattordici anni ed era già diventato Grande Maestro, qualcuno che – a ragion veduta – consigliava di tenerlo d’occhio, lo definì “il Mozart degli scacchi”.

Che Carlsen sia fortissimo lo dice anche lo stesso Kasparov, considerato a sua volta uno dei più grandi scacchisti di sempre. Campione del mondo dal 1985 al 2000, è famoso anche perché detiene un primato che nessun altro gli potrà mai soffiare: è stato il primo uomo a perdere contro un computer. Anche se, forse, si potrebbe ribaltare la cosa, e dire cioè che Deep Blue, programmato appositamente dalla IBM, fu il primo computer capace di battere un uomo. Era il 1997, “solo” 23 anni fa, che sembrano però anni luce se si pensa alla potenza dei computer: oggi ognuno di noi può installare sul proprio laptop un programma di scacchi capace di battere facilmente Deep Blue. E forse, oggi, a scacchi, tra computer e uomo non c’è più partita.
Questo non significa che si debba smettere di giocare tra umani, infatti si continua a farlo e le emozioni e i nuovi record continuano. Nell’ultimo campionato del mondo, nel 2018, Carlsen ha vinto per un soffio, sconfiggendo agli spareggi rapidi il numero due al mondo – l’italoamericano Fabiano Caruana – dopo che, per la prima volta nella storia, le dodici partite erano terminate in parità.

Ci si chiedeva come sarebbe andata quest’anno, se si sarebbe ripetuta la sfida tra Carlsen e Caruana, favorito tra gli sfidanti, ma sappiamo che quello che stiamo vivendo non è un anno normale. Il Torneo dei candidati, che determina lo sfidante del campione del mondo in carica, era iniziato il 17 marzo in Russia e sarebbe dovuto terminare ai primi di aprile, ma è stato sospeso il 26 marzo, ovviamente per il Covid-19. Per lo stesso motivo, il rientro dei giocatori non è stato semplice, come quello di Caruana a Saint Louis: ha corso il rischio di rimanere in Russia, ma è riuscito poi ad arrivare a Rotterdam con un volo privato – in deroga al blocco aereo – organizzato dal presidente della FIDE (la Federazione Internazionale degli Scacchi) Dvorkovich, amico personale di Putin.
Oltre al Torneo dei candidati, anche il campionato del mondo di scacchi è stato ovviamente rinviato. Bisognerà quindi attendere il prossimo anno per sapere come se la caverà Carlsen con il nuovo sfidante. Possiamo, nel frattempo, vederlo in azione mentre in meno di un minuto e mezzo liquida Bill Gates.

Perché anche la rapidità fa parte dell’immaginario del gioco degli scacchi: se da una parte abbiamo persone chine sulla scacchiera a rimuginare per ore e ore su una mossa, dall’altra ce ne sono che fulminee muovono i pezzi e stoppano il timer al loro fianco, in una lotta contro il tempo. E continuando a ripercorrere questo immaginario, come non menzionare il “simultaneista”, colui che gioca più partite in simultanea, passando di scacchiera in scacchiera? Come Bobby Fischer – considerato tra i più grandi giocatori di tutti i tempi e unico statunitense a essere diventato campione del mondo – che nel 1964 sfidò 50 avversari: vinse 47 partite, ne pareggiò due e ne perse una.
A questo punto, come non menzionare i bambini prodigio? Che magari giocano anche partite in simultanea, come Samuel Reshevsky: polacco poi naturalizzato statunitense, cominciò a giocare a quattro anni. A sei anni giocava già partite in simultanea e a otto le giocava contro avversari forti. A nove anni, Reshevsky fece un tour degli Stati Uniti giocando più di 1500 partite (non in simultanea, forse sarebbe stato troppo anche per lui) perdendone solo otto. Tutta un’altra classe rispetto a Bart, anche lui impegnato in una partita in simultanea su tre scacchiere in una mitica puntata dei Simpon…
Certo, se dovessimo tirare fuori la scacchiera in questi giorni, per molti i risultati più che a quelli di Carlsen o Kasparov si avvicineranno a quelli di Bart, ma non è questo il punto. Sarà stato un piacere anche solo tirare fuori la scacchiera e sistemarci sopra i pezzi, riavvicinandosi così anche solo per pochi minuti a un gioco che ha affascinato, coinvolto, intrattenuto per secoli milioni di persone in ogni parte del pianeta. I più fortunati troveranno anche qualcuno, con cui già condividono la casa e la vita quotidiana, che abbia anche voglia di sedersi a giocare, faccia avanzare i pedoni, saltare i cavalli, valuti le diagonali degli alfieri, protegga il re con le torri, liberi la potenza della regina, in attesa che si riesca finalmente a dare scacco matto al virus che ci tiene chiusi in casa.
Foto di copertina di sk su Unsplash

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