Coronavirus. Vivere con il coprifuoco a Beirut

SAAD KIWAN
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[BEIRUT]

Corona in latino (in italiano e in tutte le lingue) e il serto di lauro, tradizionalmente e storicamente simbolo di successo: la laurea a compimento dell’università, il riconoscimento all’atleta vittorioso e, in  epoca romana, al comandante vittorioso. Ma anche il simbolo di un’occasione triste, la corona di fiori, estremo omaggio al defunto. Simboleggia nello stesso tempo gioia e tristezza, vita e morte. Forse perché, come sostiene il filosofo Jacques Derrida, s’equivalgono o perché sono interdipendenti?

La corona racchiude in un certo senso sentimenti, gioie e tristezze, futilità e fatalità, pazzie e paure delle persone! I cinesi danno il nome di corona al virus spuntato nella loro terra, non certo per il suo essere simbolo di successo e di vita, visto le vittime che ha già mietuto finora e per l’orrore che sta provocando in tutto il mondo. O forse per il suo essere simbolo di tristezza e morte? Sapevano quindi che avrebbe chiuso interi popoli nelle loro case e che li avrebbe tenuti col fiato sospeso? Oppure volevano punire un certo paese secondo quello che è raccontato alla povera gente? O addirittura hanno perso il controllo di questo maledetto virus, che ha preso la fuga andando lontano per annidarsi nelle case e mettere la gente alla prova fisicamente, psicologicamente e nella solidità dei nervi?

Coronavirus rispecchia davvero la realtà della gente in giro per il mondo, confinata ormai da più di due mesi in casa. Essere isolato in casa senza uscire ti fa perdere il senso del tempo e del luogo. Ti mette davanti a un difficile compito di ridisegnare un regime e un modello di vita che diventa col passare dei giorni monotono e noioso. Non vedi nessuno, non puoi salutare nessuno, non puoi parlare con nessuno, non puoi discutere con nessuno, non puoi scambiare un’idea con nessuno, non puoi litigare con nessuno e quindi non puoi sfogarti con nessuno! Non puoi misurarti con l’altro e di conseguenza non puoi realizzare te stesso. Ti rimane quell’oggetto miracoloso, il cellulare, al quale rimani attaccato perché ti permette almeno di sentire la voce dell’altro. Quel cellulare che già nella vita normale, prima ancora dell’attacco del coronavirus, ti rendeva schiavo perché occupa gran parte del tuo tempo, della tua attenzione, delle tue capacità mentali e della tua concentrazione.

Cosa fai allora per rimediare? Cerchi aiuto nella lettura. Comincia la mattina con la lettura dei giornali, online ovviamente (anche se internet di queste parti è debole, anche se il ministero delle telecomunicazioni aveva promesso di rafforzare e velocizzare in tempo di confinamento, senza farlo), poi passi alla lettura dei libri che non hai avuto tempo di leggere prima. o ti rimetti a leggere libri come La peste di Albert Camus o L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez o ancora Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. E tra una cosa e l’altra ascolti il notiziario per sentire le ultime novità su quel maledetto virus che dilaga in Europa, negli States, nei paesi arabi e in Iran, e quante vittime ha già fatto, e come Trump accusa la Cina di aver nascosto il contagioso virus, mentre Khamenei accusa lo stesso Trump di “aver voluto contagiare l’Iran con un coronavirus speciale”. 

Una mimosa lungo l’autostrada deserta. Un carretto di fragole. La desolazione di #Beirut ai tempi del #coronavirus. [Lorenzo Trombetta @TrombettaLorenz

Per svagarti un po’ ti sposti in cucina cercando di dare una mano a tua moglie, cosa che normalmente non fai o fai raramente, allora ti tocca fare i piatti, ma dopo un’ora ne esci con il mal di schiena. Ti sposti in casa e ti senti come circondato dal virus ovunque, da una stanza all’altra, e a ogni momento. Cominci ad annoiarti e a stancarti, soprattutto psicologicamente, allora ecco tuo figlio che spunta con una delle sue fatidiche domande sul rapporto tra politica e potere e il perché delle “masse che seguono ciecamente il capo”. Devo dire qui che mio figlio sta ancora vivendo l’esperienza come uno degli organizzatori della rivolta popolare scoppiata l’ottobre scorso contro una classe politica arrogante, irresponsabile e corrotta. Una rivolta durata circa quattro mesi, prima che coronavirus li costringesse a chiudersi in casa. E adesso stanno scaldando i motori per tornare in piazza, appena si viene a capo di questo vile e invisibile virus.

Allora come devi rispondere alla domanda del figlio che spesso ti mette alla prova? Cerco di illustrare la dialettica del rapporto tra potere e massa dal punto di vista storico e sociologico, ma il figlio vuole risposte rapide e veloci alla “fast food”, risposte con il segno dei tempi della generazione internet che non ha la pazienza di sentire analisi di sapore ideologico, idee e ragionamenti sui quali ti sei formato e di cui hai acquisito una coscienza politica e fatto la tua esperienza politica. Il dialogo sfocia in una calda discussione che diventa poi tra sordi. Il figlio vuole imporre le sue idee e il suo modo di ragionare e non rispetta neanche il rapporto tra padre e figlio, vuole mettersi alla pari. Ma il tuo orgoglio da padre non ci sta e rischi di perdere le staffe. Allora chiudi la discussione e vai a preparare un caffè per calmarti.

Prendi il caffè insieme alla tua compagna di vita, e così nasce una chiacchierata sulle cose quotidiane, dalla chiusura in casa alla sua preoccupazione per i figli che ripetono spesso di voler andare a cercare il loro futuro all’estero, perché ormai disperati delle opportunità qui in Libano, che non ne offre alcuna. Poi la discussione si sposta sui parenti e gli amici e sulla necessità di adempiere ad alcuni oblighi sociali, tipo fare gli auguri a una coppia di sposi che ci ha invitato alle nozze ma non ci siamo andati. Tocca quindi andare a trovarli e portargli un regalo, allora la discussione comincia ad accendersi su cosa portare e quali vestiti indossare. E quindi finisce male come spesso accade e non si decide nulla. 

Musicisti della ONG Ahla Fawda (Grande caos), su una piattaforma di un gru, suona per il personale sanitaria per i pazienti all’ospedale Rafic Hariri, dove è curata gran parte dei casi di coronavirus

A questo punto cerchi di cambiare umore, decidi di uscire per quel poco permesso per andare a fare un po’ di spesa al supermercato, per poter continuare a resistere e passare le serate con film dei bei tempi che furono come La caduta dell’impero o Il buono il brutto e il cattivo e la sua bellissima colonna sonora. O ancora il nuovo film Due papi. Ovviamente accompagnato da una bottiglia di vino italiano.

Esci e trovi fuori per strada un clima triste, con un senso palpabile di solitudine violato da uomini della sicurezza che vigilano su un camuffato divieto di circolazione. Davanti al supermercato ti devi mettere in coda e sincerarti di avere già i guanti e la mascherina altrimenti non ti lasciano entrare. Due cose che ti fanno quasi mancare il respiro. Ti fermi davanti al reparto carne e salumeria con l’incubo del contagio, allora tiri fuori il tubetto per la disinfezione che hai infilato in tasca prima di uscire, ti sposti verso il reparto agrumi con la stessa paura. Esci di corsa illudendoti di aver trovato una scappatoia al confinamento, e davanti alla porta di casa, prima di entrare, ti devi nuovamente disinfettare.

Ed eccoti di nuovo alle prese con quella routine che puoi reggere un po’ di giorni o un paio di settimane, ma di più i tuoi giorni diventano noiosi, insopportabili, quasi mortali. Non perché fossi abituato a uscire spesso, ma perché quel che dà fastidio, ti toglie quasi l’ossigeno, è questo divieto che ti costringe a chiuderti, a isolarti, che tu non hai scelto.

Questa limitazione della tua libertà. Ecco, la libertà! Perché ti senti minacciato, da un maledetto e invisibile virus. Che a un certo punto potresti scoprire che ti ha già colpito. Allora vai di corsa a guardarti nello specchio, e trovi che sei ancora come sei!

Questo è il vivere nel tempo del coronavirus: stretto tra la speranza della vita e l’incubo dell’incognito. 

Coronavirus. Vivere con il coprifuoco a Beirut ultima modifica: 2020-04-17T16:27:43+02:00 da SAAD KIWAN
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