Provo un’enorme tristezza e sento che la sua amicizia è stato un enorme privilegio nella mia vita.
Così la scrittrice argentina Elsa Osorio, al telefono da Buenos Aires, commenta la morte di Luis Sepúlveda, al quale è stata per anni legata da profonda amicizia e del quale ha condiviso il destino di militante della sinistra prima e in seguito di esule politico durante gli anni delle dittature nei rispettivi paesi.
Ci siamo conosciuti e siamo diventati amici al Salón del Libro Iberoamericano de Gijón in Asturias – racconta Elsa – che fondamentalmente organizzava Lucho. Una cosa molto bella, perché da un lato c’erano dibattiti interessanti, e perché era sempre una festa, con dei momenti vissuti insieme che mi richiamavano i tempi della scuola secondaria o gli inizi della militanza. Una sensazione di essere parte di una cosa seria con allegria.
In questa atmosfera è nato un gruppo di amici al Salón del Libro, con cui ci siamo rivisti in molti festival in differenti parti del mondo. Nei giorni scorsi abbiamo dato vita a un gruppo in WhatsApp per seguire la malattia di Lucho attraverso le notizie che Carmen, sua moglie, ci dava. In qualche momento, nonostante la durezza e la tristezza della situazione, abbiamo persino riso e fatto progetti di cosa avremmo mangiato quando ci saremmo incontrati di nuovo. Io cucino questo tu quest’altro. Tutti sapevamo che era molto grave, ma dato che ne aveva vissute tante, tutti speravamo che succedesse qualcosa e che si salvasse.
Sepúlveda si è sempre definito “profondamente rosso”. Quanto ha pesato nella sua opera letteraria la sua vicenda politica?
Ha influito molto. Lucho esprimeva una preoccupazione permanente verso tutto quello che accadeva nel mondo, e questo è presente in tutti i suoi libri, dove traspare la posizione politica e ideologica. Era un qualcosa che me lo faceva sentire particolarmente vicino, sai. Quel sentimento di responsabilità per un mondo che bisognava cambiare.
Perché consideri “L’ombra di quel che eravamo” la sua opera migliore?
Amo molto i libri di Sepúlveda, ma L’ombra di quel che eravamo continua a esserci. È un libro che mi fa sentire dentro a quel mondo e a quella generazione. Ho avuto la fortuna che Lucho presentasse Doppio Fondo al Salone del Libro di Torino e La Miliziana in Spagna. È sempre stato molto generoso. Credo che esista una comunicazione che passa attraverso l’amicizia, ma anche attraverso la lettura. Io ho conosciuto Sepúlveda leggendo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, e il primo libro che ho letto di lui è stato molto importante nella mia vita.
Sepúlveda si è allontanato dal Cile durante la dittatura, come tu dall’Argentina. Ma tu hai fatto ritorno al tuo paese.
Io ho anche vissuto un periodo di esilio interno. Posso dire che la storia della nostra generazione è quella di chi ha vissuto in paesi di destra dai quali, allo stesso tempo, uno non finisce mai di separarsi. Poi alla fine io sono tornata. Hai sempre la sensazione di essere uno straniero. Di questo ho parlato anche con lui. La sensazione è che stai in un posto e allo stesso tempo stai in un altro. Nel novembre dello scorso anno sono stata a Milano per il suo compleanno, e mi sono accorta che lui era anche italiano. Ho un video fatto col telefono dove parla il suo editore, che è poi lo stesso che pubblica i miei libri in Italia. Mi sono commossa nel sentire quanto gli voleva e gli volevamo bene. Quel suo compleanno è stata l’ultima volta che l’ho visto.
Perché non ha mai fatto ritorno in Cile?
È molto difficile risponderti. Lucho ha vissuto in molti posti, e finalmente ha deciso di aver casa a Gijón. Ma in nessun momento si è allontanato dal suo paese, nel senso che mai ha smesso di pensare e esprimere la sua opinione su quello che lì accadeva. Dico del Cile come dell’intera America Latina. Ovviamente quello era il suo paese, ma viveva tutta la storia, tutti i conflitti latinoamericani come fossero i suoi. Allo stesso modo si occupava della politica spagnola e di quella italiana. Davvero, ha avuto un destino di giustiziere universale.
C’è una sua intervista, riportata tempo addietro da El País, in cui dice che “agli scrittori tocca in sorte di essere la voce dei dimenticati”.
È un’affermazione che mi trova completamente d’accordo. Il paradosso è che la letteratura è finzione, che allo stesso tempo ti consente un tale patto con la storia, grazie al quale riporti alla luce questa verità e quello che nessuno ricorda. Una cosa che Lucho con la sua opera ha fatto meravigliosamente.

C’è una foto in cui lui, tu e altri scrittori indossate la maglietta di una squadra di calcio.
Eravamo nel campo del Gijón, c’era Daniel Mordsisnski, il fotografo, che ha fatto anche un libro con Sepúlveda. Non mi ricordo bene come fu, fatto sta che avemmo il privilegio di indossare la maglietta della squadra. Per me era la prima volta che mettevo piede in un campo di calcio. Quella fu una delle occasioni di cui ti dicevo, in cui ci divertivamo come bambini. Ci ho pensato anni dopo. La sensazione che avevamo era quella di essere una squadra che va avanti, in un sentimento di unità con tanti scrittori che si leggono uno con l’altro e che si ammirano reciprocamente. Ricordo che tutto ciò mi ha entusiasmato moltissimo.

In questi anni un altro scrittore cileno ha scelto la Spagna come paese finale dove vivere. Parlo di Roberto Bolaño, al quale ugualmente ha arriso il successo, ma che rispetto a Sepúlveda rappresenta un modo differente di fare letteratura.
Non ha nulla a che vedere con l’amicizia che mi lega a Sepúlveda, ma devo dirti che non m’interessa la letteratura di Bolaño. Non è che sia un cattivo scrittore. Semplicemente non m’interessa. Los detectives salvajes, sì. Mi stupiscono un poco le esagerazioni, come quella che sia un libro più importante del Quijote. Mi piace qualsiasi letteratura, purché sia ben scritta e che mi commuova, che mi tocchi. Forse m’interessa di più la letteratura che racconta una storia. Sono un’ammiratrice di Borges. Bolaño e Sepúlveda sono due caratteri letterari completamente differenti. Per me Bolaño è una specie di fenomeno inesplicabile perché so che interessa a molta gente. Mi sembra di ricordare che Bolaño abbia detto qualcosa di offensivo nei confronti della scrittura di Sepúlveda, ma sinceramente non mi ricordo dove e quando l’abbia fatto. Del resto ho letto solo qualcosa di suo, perché non mi interessa.
Cosa rappresenta Luis Sepúlveda nella letteratura dell’America Latina?
Credo che sia molto importante. C’è qualcosa che mi fa pensare che grandi scrittori, argentini per esempio, sono morti in altri paesi. Per esempio Julio Cortázar. La letteratura sta fuori, da fuori puoi guardare in altra maniera alla tua storia, o guardarla con distanza. Nella letteratura di Sepúlveda il vivere afuera e in tanti paesi ha rappresentato qualcosa di interessante. Magari Sepúlveda è molto più importante in Europa come letteratura latinoamericana di quello che è in America Latina, per quanto lì sia molto conosciuto. Resta che come ambasciatore della letteratura del Sud America Lucho è di sicuro il migliore.

Per il suo carattere umano, per la sua storia, per l’allargarsi del suo sguardo, credo che più che cileno sia stato un cittadino del mondo.
Sì, e in più c’è il paradosso per cui per essere un buon cileno è meglio che abbia vissuto in tanti posti. Anch’io ho vissuto tanti anni afuera e ti posso dire che la caratteristica di essere argentino, in differenti posti, con tutta la certezza di esserlo, non la perdi in nessuno dei luoghi dove tu possa vivere. Credo che da afuera, quando sei tanto preso da qualcosa, è abbastanza difficile scrivere. Quando ritorni non c’è più il paese che hai lasciato.
In copertina Luis Sepúlveda e Elsa Osorio al Salone del libro di Torino, aprile 2017

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