Al recente Eurogruppo è emersa, sia dalle proposte programmatiche sia dai dubbi sulla loro efficacia, la difficoltà, oggettiva piuttosto che di cattiva volontà politica, a trovare la quadra alle diverse esigenze che si confrontate a Bruxelles. Al centro la discussione su come organizzare forme di solidarietà intereuropee (sovvenzioni) – Meccanismo europeo di stabilità (MES) a bassa condizionalità, corona-bond e/o euro-bond – tra da un lato, grossolanamente identificando, il Gruppo Sud (Italia compresa) e, dall’altro, il Gruppo Nord (con Olanda e Germania protagoniste).
Le proposte scaturite dall’Eurogruppo mostrano un’agenda in fieri (dato il suo carattere informale sono proposte). In ogni caso già d’ora si vedono i limiti dei pareri emersi all’Eurogruppo medesimo e gli ostacoli che poi potranno incontrare in sede di realizzazione. Sono il segno di difficoltà, date dall’assetto politico-istituzionale vigente, a rispondere alle emergenze con rapida cogenza. Per fortuna già dall’inizio della crisi pandemica la Banca centrale europea (BCE) ha supplito, interpretando con elasticità il quadro normativo in cui è chiamata a operare, con il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) alle lacune politico-istituzionali dell’Unione monetaria (UME) e dell’Unione europea (UE). Altrimenti, sarebbero entrambe già a gambe all’aria.
Ma qual è il bilancio, fuor di retorica, della riunione sull’emergenza pandemica dell’Eurogruppo? Sono proposte interessanti da implementare in sede decisionale? Poiché il capitale politico di larga parte della classe politica italiana si fonda sulla narrazione europeista, è forte per essa la tentazione di una valutazione iper-positiva. Cui aggiungere una sorta di “psicologia del desiderio” sia per la mutualizzazione dei debiti sovrani come pegno di solidarietà intereuropea che per gli euro-bond (simboli quasi escatologici dell’avvento dell’Europa federale). Infatti a Bruxelles, al di là di qualche immaginaria illusione, si è parlato d’altro.
Se la posta in gioco è la continuità dell’UE e dell’UME nell’emergenza allora la “questione euro-bond”, troppo ideologica, va messa da parte. Anche per evitare, e sarebbe un danno, che il dibattito pubblico frapponga il dibattito sul Meccanismo europeo di stabilità (MES) – la mutualizzazione dei debiti, cioè le problematiche della condivisione del rischio di debito tra Stati sovrani – con l’ipotesi futuribile dell’emissione di debito sovrano dell’Unione.
Data l’alta fragilità del contesto politico europeo, sono confusioni che potrebbero a breve diventare letali per esso. L’Eurogruppo, pertanto, ha evitato l’argomento. Difatti a Bruxelles il tema è stato l’alleggerimento della condizionalità dei prestiti per meglio affrontare il Covid-19. Qui il rischio di conflitti d’interesse, già emerso dentro l’Eurogruppo, c’è tutto. Il motivo è che i paesi finanziariamente più forti vedono nelle condizionalità la garanzia per far accettare ai loro parlamenti la condivisione del rischio debitorio con i paesi con “pericolosi” rapporti debito/Pil; al contrario, per questi ultimi le condizionalità, se forti, vengono percepite come minacce alla loro sovranità politica.
Le proposte dell’Eurogruppo sono tentativi di mediazione. L’UE e l’UME, sotto questo profilo, assomigliano a un gioco politico che per reggere deve essere a somma positiva; ovvero, con tutti i partecipanti a trarne beneficio. Così fu per l’euro, l’unica forma di integrazione economica “federale” riuscita in quanto politicamente funzionale ad abbattere i costi di cambio in economie fortemente integrate. Viceversa, se il “gioco Europa” fosse a somma zero (bilanciamento dei guadagni e delle perdite tra i giocatori) già potrebbero apparire le prime crepe.
Magari prodotte dallo steso euro, l’unico elemento del progetto europeo percepito come funzionalmente necessario che, una volta conseguito, per ciò stesso facendo cadere la percezione di nuovi vantaggi da perdite ulteriori di sovranità, potrebbe fungere da de-catalizzatore dello stesso processo federativo. Infine, se a somma negativa (gli effetti della Covid-19 economy potrebbero essere tali), la “partita europea” potrebbe saltare mancando le motivazioni per continuare a parteciparvi. In quest’ultimo caso, sarebbe la stessa simmetria della crisi – tutti nei guai, quindi tutti tendono a tirare i remi in barca così collassando gli stimoli alla collaborazione – a premere sull’exit.
La fuoriuscita dall’UME, poi facilmente dall’UE, è l’ipotesi estrema sul campo: toglierla dallo sfondo è impossibile. La sua forza oggettiva dipenderà, in relazione alla virulenza del virus n. 2 (quello della crisi economica e della relativa questione della distribuzione sociale dei suoi costi), dal tipo di compromesso (vantaggi/costi) che si raggiungerà in Europa. Su questo terreno vanno inquadrate le proposte dell’Eurogruppo. Conseguentemente la sua attenzione si è concentrata sul MES, un’organizzazione intergovernativa di diritto pubblico esterna all’ordinamento europeo concepita come uno strumento di assistenza finanziaria agli Stati membri dell’Eurozona. È legato all’ordinamento europeo dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che inoltre statuisce che l’assistenza finanziaria concessa dallo stesso MES abbia “rigorosa condizionalità” (art. 136, 3°).
Pertanto, come si afferma, le linee di credito del MES possono essere senza condizionalità? Solo modificando il TFUE. Ciò presuppone l’accordo generale per il quale, comunque, ci vuole quel tempo che l’attuale emergenza nega. In caso contrario quantomeno è dubbio. Ignorare ciò porta ad avventurarsi in un percorso irto di difficoltà. Infatti, a parità di quadro normativo, qualsiasi Stato partecipe al MES potrebbe impugnare eventuali concessioni di linee di credito “favorevoli” dinanzi alla Corte di Giustizia (la cui stessa giurisprudenza dà particolare peso al principio di condizionalità) per violazione della lettera del Trattato.
Si è dinnanzi a un principio politico incorporato nell’ordinamento giuridico europeo per il quale partecipare in solido al rischio di un prestito implica risponderne al proprio parlamento. Diversamente, sarebbe un atto ingiustificabile dinanzi al proprio elettorato. Se l’Europa politica fosse uno Stato il discorso sarebbe diverso (trasferimenti fiscali). Ma non lo è. Così l’Eurogruppo si è limitato a provare ad appianare, in preparazione del Consiglio europeo, la resistenza dei paesi più solidi finanziariamente a impegnarsi in solido rinunciando (assunzione di maggiore rischio politico dinanzi ai propri popoli) a forti condizionalità a favore dei Membri MES da garantire.
Il MES non è il demonio: è solo un patto. Rifiutare a priori una sua linea di credito significa poco; tra l’altro va anche detto che le condizionalità sono il prezzo che si paga per spuntare minori interessi. Cionondimeno, è altrettanto sensato che, data l’emergenza pandemica, la tematica delle condizionalità emerga come fattore politico di peso; e anche come cartina di tornasole per verificare la distanze tra “Europa ideale” e “ideologica”. Per ricapitolare: l’Eurogruppo punta, per alleviare lo shock da Covid-19, all’alleggerimento delle condizionalità del MES.
La proposta è l’apertura di una linea di credito riservata all’emergenza sanitaria, la Pandemic crisis support, che si vorrebbe “quasi” (è sull’implicito di questo avverbio che si gioca il compromesso politico) libera da condizioni. Uno strumento potenzialmente importante. Tuttavia il tema della condizionalità dei prestiti MES, compreso quest’ultimo, resta aperto. Difatti, pur se si trattasse di una linea di credito vincolata esclusivamente alla sanità (l’accesso arriva al due per cento del Pil) priva di condizioni macroeconomiche, il quadro normativo resterebbe l’attuale (la disciplina del TFUE e un Regolamento del 2013 dell’UE). Vero, gli accordi politici possono “smorzare” l’impatto delle norme: ma solo parzialmente.
Anche perché la Pandemic crisis support è sotto una “spada di Damocle”. Ovvero, se la condizionalità in modalità soft perdurano durante l’emergenza sanitaria, poi, finita questa, il contesto potrebbe cambiare. Il tema è: cosa succede se alla scadenza del “prestito per Covid-19 (due anni?) il paese debitore risultasse impossibilitato a rimborsare il credito?
La preoccupazione è che in questo caso alla scadenza si debba ricorrere a linee di credito ad alta condizionalità. Che, se inventate per assistere gli Stati con finanza pubblica in default, hanno poco senso politico dinanzi a uno shock naturale (l’epidemia). Qui l’Eurogruppo dice poco. Valido quindi il suggerimento dell’economista Lucrezia Reichlin di andare al prossimo Consiglio d’Europa con una strategia di diplomazia economica tesa almeno ad allungare le scadenze del prestito.
Oltre a ciò pare opportuno inquadrare meglio politicamente e normativamente le modalità di gestione della Pandemic Crisis Support. Il pericolo, credibilmente da nessuno auspicato, è quello dello scivolo automatico verso il commissariamento. Difatti, se a fine emergenza pandemica lo Stato coinvolto nel programma del MES dovesse rientrare nel “quadro di coordinamento e di sorveglianza economica e di finanza pubblica dell’UE” (così l’Eurogruppo) con rapporto debito pubblico/Pil stellare, allora, senza interventi politico-normativi, le condizioni del suo commissariamento ci sarebbero tutte.
Guardando dal punto di vista della democrazie del Nord (la resistenza dei loro elettori/contribuenti a sostegno di stranieri) in ciò c’è una logica. Viceversa, per le democrazie del Sud il timore è che uno shock di mercato divenga uno shock politico destabilizzante. Certo, se l’emergenza sanitaria fosse asimmetrica (uno sta male e l’altro l’aiuta) tutto sarebbe più semplice.
Tuttavia, se la simmetria della crisi (nessuno esente dal suo impatto), anche sommandosi alle sfide geopolitiche delle potenze laterali all’Europa, producesse la percezione di pericolo collettivo (la minaccia comune alla stabilità democratica e il timore del propagarsi della crisi economica di uno a tutti gli altri) ciò potrebbe indurre a giochi politici cooperativi. Nel caso, un esito positivo potrebbe esserci; altrimenti la pandemia imporrà a UE e UME ulteriori violenti scossoni. Tornando alla proposta dell’Eurogruppo sulla Pandemic crisis support, si tratta di una linea di credito, come accennato, fondata sulla precedente “Linea di credito a condizioni rafforzate” (ECCL è l’acronimo inglese). In materia sono possibili due interpretazioni.
Una, quella probabilmente condivisa dall’Eurogruppo, quantomeno in fase finale espone alla “Troika”. Lo scenario sarebbe questo: lo Stato debitore alla scadenza è impossibilitato a pagare e la sua finanza è fuori controllo. Pertanto, come precedentemente anticipato, lo Stato in questione dovrebbe tornare alle linee di credito tradizionali del MES. Significherebbe, da un lato, che scatterebbero gli acquisti illimitati di debito pubblico da parte della BCE, le mai finora attivate Outright Monetary Transactions (OMT) di Draghi; ma, dall’altro, che con esse ci sarebbe il commissariamento con relative conseguenze.
Tuttavia, potrebbe esserci (improbabile) anche un’altra ipotesi interpretativa relativa al richiamo all’ECCL. L’idea, mettendo da parte le condizionalità, sarebbe che la derivazione della Pandemic crisis support dalla precedente linea di credito, potrebbe dare alla BCE la base legale per sostenere (quindi non esclusivamente per l’emergenza sanitaria) il paese che vi accedesse. La Pandemic Crisis Support come porta d’accesso via MES alla BCE, ma senza il carico della Troika? La prospettiva è considerata da alcuni osservatori; tuttavia è dubbio che la questa linea di credito, proprio per come è concepita anche in termini di condizionalità, abbia i requisiti legali per consentire l’accesso alle OMT. La questione è che le OMT furono accettate dalla Germania (ma non solo da essa) per la loro condizionalità.
Così emerge un panorama gravido di conflitti d’interesse economico-politici. Nota Federico Petroni su Limes:
È questo lo scenario che terrorizza l’Europa. In particolare la Germania, che si trova in una posizione particolarmente difficile, stretta fra due imperativi strategici. Il primo è disporre di un’area commerciale e monetaria più ampia e integrata possibile per esportare – è così che genera metà del suo pil. Il secondo è usare il surplus derivante dall’esportazione per tenere assieme un paese dalle molte anime, assai più plurale di quanto siamo soliti immaginarci. Quando le cose vanno bene, le due necessità non cozzano. Quando le cose vanno male, come ora, si crea attrito. Perché il primo imperativo la costringe a tenere dentro l’Italia: il nostro vasto mercato, la nostra sofisticazione tecnologica e il rapporto simbiotico della nostra manifattura settentrionale con l’industria teutonica ci rendono praticamente essenziali 10. Mentre il secondo imperativo la costringe a non spendere per salvarci, perché l’indignazione in patria genererebbe un contraccolpo nazionalista che potrebbe a sua volta creare spinte centrifughe.
Pertanto, l’idea di un compromesso per agganciare l’ipotetica bassa condizionalità della Pandemic Crisis Support alle OMT, oltreché improbabile per l’assetto normativo vigente, potrebbe essere portatrice di forti difficoltà politiche. Quello in campo è un vero e proprio paradosso democratico. Infatti, se in Germania (paese leader del Gruppo Nord per peso geopolitico e geoeconomico) prevarranno gli interessi economici, allora vi saranno margini di trattativa; all’opposto, se a pesare sarà il voto, comprensivo anche delle pulsioni antieuropee dell’Est ora ricongiuntosi, allora il filo potrebbe spezzarsi. La Grande temporeggiatrice Merkel troverà la quadra? E il ricorso diretto alla BCE? Con ordine.
Il punto è che esiste una faglia fiscale che taglia l’Europa: da un lato le “formiche” del Nord ortodosse in finanza pubblica e dall’altro le “cicale” del Sud, divise da due opposte visioni sull’uso del denaro pubblico. Quale linea prevarrebbe a Nord se la solvibilità delle “cicale” svanisse? Dominerebbe il timore per le conseguenze che ne seguirebbero per l’intero sistema finanziario europeo? Invece, se prevalesse la Realpolitik, si verrebbe a designare un ambito di reciproca convenienza tra “formiche” e “cicale” allo scopo di evitare uno tsunami finanziario dannoso per tutti.
Politicamente, però, le democrazie del Nord potrebbero sentirsi sotto ricatto e, pressate dalle loro opinioni pubbliche, “alzare i ponti levatoi”. S’aprirebbe allora un processo di balcanizzazione di UE e UME. È logico che l’Eurogruppo provi a costruire su questo terreno: la posta è la tenuta dell’Europa politica. Petroni, tuttavia, ci ricorda che entrambe le opzioni (trattativa o rottura) sono entrambe in gioco. Le proposte sul MES uscite dall’Eurogruppo fotografano questa situazione e provano a mediare. In alternativa, come accennato, resterebbe il ricorso diretto alla BCE. Ma, come vedremo, anche qui la questione tedesca conta.
Prima di arrivarci, merita chiedersi perché il MES abbia questa importanza nel confronto politico europeo. Perché aiuta a comprendere il “cos’è” l’Unione monetaria; i suoi limiti e, conseguentemente, quelli dell’UE. Evidenzia, in altri termini, la distanza permanente dall’ipotesi federalista. Ciò posto, il MES è un trattato stipulato per rispondere a un imprevisto della storia. Questo: l’Eurozona già c’era con la sua moneta; paradossalmente, però, era stata costruita come se mai vi sarebbero potuti essere intoppi. Era un grave limite di costruzione che l’arrivo d’oltreoceano della crisi del 2008 portò di alla luce bruscamente. Difatti, mancava uno strumento (oggi evoluto nel MES) per consentire alla BCE di supportare (monetizzazione ma a condizionalità pesanti), dati i vincoli posti dai Trattati alla BCE, un paese membro tagliato fuori dall’accesso al mercato finanziario.
L’idea ispiratrice del MES è il Fondo monetario internazionale (FMI). Avrebbe senso un fondo analogo al FMI all’interno degli USA? No. Ecco la ragione per la quale il MES dice molto su “cos’è” l’Europa politica.
Lo chiarisce l’economista Carlo Cottarelli:
L’Eurozona, a differenza degli Stati Uniti, ha bisogno di un Meccanismo di stabilità perché le probabilità che uno Stato come la Virginia esca dagli Usa è molto bassa. Il problema è che uno squilibrio economico in Europa può, al contrario, sollevare nei mercati il sospetto che uno Stato possa decidere di uscire dall’euro, creando uno sconquasso per l’intera area. Teniamo conto che l’Unione monetaria europea esiste da poco e che negli Usa c’è voluta una guerra di secessione per rendere chiaro che quell’unione non si sarebbe più spaccata.
In sintesi: l’FMI è un’organizzazione internazionale pubblica composta da Stati sovrani che versano quote di partecipazione. Il MES è un club analogo. Insomma in uno stato federale il MES, che è la presa d’atto di ciò, sarebbe un’assurdità. Pertanto, la discussione sul MES dell’Eurogruppo nasconde la “vera” domanda: “C’è accordo tra i partecipanti per salvare l’Eurozona e l’Unione?”.
Forse questa è la domanda taboo dell’Europa. Tuttavia, emergenze dure come questa del Covid-19 paiono rendere il quesito inderogabile. Ma è difficile per l’Europa politica esporsi a simile auto-osservazione senza suicidarsi. Perciò, l’Eurogruppo evita il quesito e, istintivamente provando a disinnescare il taboo, elabora la Pandemic crisis support come linea di credito a condizionalità depotenziata.
Ricorrervi non è il male in sé. In fondo, in attesa del mitico “natale finanziario europeo” degli euro-bond, ottenere fondi pari al due per cento del Pil a tassi inferiori a quelli dei BTP potrebbe avere la sua ragione. La ratio economica ci sarebbe. Peccato che permangano dubbi normativi irrisolti a frenare il ricorso a essa (si vedrà cosa scaturirà dal Consiglio d’Europa). Inoltre il Pandemic Crisis Support è poco agibile politicamente per i forti contrasti che genera. Forse, in caso di pandemia, una seria public policy sanitaria dovrebbe poggiare sul bilancio comunitario. Ma ad oggi, per suoi limiti politico-giuridici, la cosa è fuori portata.
Nel frattempo, mentre l’Eurogruppo discute di MES, per fortuna si è aperto l’ombrello della BCE conscia (già dai tempi di Draghi) che, qualora l’Eurozona sia in condizioni d’eccezione, deve evitare il suo breakdown, così tutelando la propria sopravvivenza. E deve farlo anche in condizioni estreme di sospensione dell’ordinamento (erogazioni monetarie straordinarie). Il problema è che neppure la BCE è esente dalle tensioni prodotte dalla faglia fiscale che divide il Vecchio continente. Inevitabilmente, l’inestricabile rebus politico dell’Europa è destinato a emergere pure a Francoforte. Vuol dire che la rotta dell’Istituto di Francoforte è politicamente decisa dagli equilibri interni tra gli stati partecipanti (in parte attutiti dalla “presidenza imperiale” di Draghi): al loro mutare è sempre reversibile.
Ciò posto, gli acquisti massicci di debito sovrano dell’UME sono anch’essi una forma di mutualizzazione/condivisione del rischio. Il fatto che lo faccia la BCE politicamente cambia poco; infatti, producono dissenso. Ad esempio, l’economista antieuro tedesco Thilo Sarrazin afferma che questo espone a grave rischio i partecipanti al capitale dell’istituto. L’argomento è quello ricorrente: lo studioso tedesco teme che un possibile “default Mediterraneo” possa lasciare col cerino in mano la Germania e, con essa, il Gruppo Nord.
In definitiva per Sarrazin ciò rende
la Germania facile ostaggio di tutti coloro che, nell’ambito dell’Eurozona, dovessero avere bisogno di aiuti economici per qualsiasi motivo (Thilo Sarrazin, “L’Europa non ha bisogno dell’euro”).
Conseguentemente, di fatto auspica una sorta di liberi tutti; o che, almeno, l’ipotesi di sciogliersi dall’UME fosse considerata accettabile.
Tesi quelle di Sarrazin che, per una loro corretta valutazione, rimandano come già osservato alla posizione geostrategica della Germania. Perché è in questa dimensione che si gioca il futuro europeo che, difatti, specie per effetto della riunificazione tedesca, sarà deciso più a Berlino che a Bruxelles. La partita sarà tra la riemersione del Drang nach Osten (spinta a Est), corrente carsica della geopolitica tedesca rilanciata dalla riunificazione, e una visione più orientata a Ovest (la tipica visione della Germania di Bonn). Se prevarrà quest’ultima la disponibilità di Berlino anche a forme più radicali di mutualizzazione dei debiti sovrani europei sarà maggiore. Viceversa, se predominerà la prima – le prossime elezioni per il Bundestag peseranno – allora l’Europa entrerà in rotta di collisione con sé stessa.
Sia l’Eurogruppo che il Consiglio d’Europa devono scontare questo “irrisolto europeo”. Pertanto anche le proposte politiche ne risentono. Non a caso c’è l’esclusione degli euro-bond. Questo è un discrimine decisivo che ci ricorda che la Federazione, col suo debito federale, è un modello istituzionale diverso rispetto a quello realizzatosi con l’UE (sui limiti del disegno UE/UME il del politologo Roberto Di Quirico, Crisi dell’euro crisi dell’Europa).
A riprova, l’unico progetto lanciato dall’Eurogruppo per un impegno europeo comune per la ricostruzione, ossia il Recovery Fund, conferma una visione finanziaria mutualistica che non configura un approccio federalistico. Infatti, si basa su un rapporto tra stati sovrani. Vi si trova conferma anche considerando la proposta di Parigi che prevede un veicolo finanziario che dovrebbe finanziarsi sul mercato con garanzie in solido dei paesi membri. Proprio volendo, gli strumenti finanziari da esso emessi al massimo potrebbero figurare come surrogati degli euro-bond.
Ed anche appoggiarlo al bilancio dell’Unione presenta problemi. Perché vincolato dal TFUE sia in materia di vincoli di spesa (pareggio di bilancio sovranazionale) che per l’eventuale aumento delle entrate (cosa delicata per le garanzie che il Recovery Fund dovrebbe offrire). Resta che la sua definizione è demandata al Consiglio d’Europa.
Di positivo, politicamente, c’è che l’Eurogruppo abbia segnalato volontà di aiuto reciproco. Il come e il quanto, però, resta questione aperta. È inutile lamentarsi: questa è l’Europa possibile in termini di Realpolitik. Significa che il processo d’integrazione europea è vincolato dagli interessi e dai rapporti di forza degli stati membri.
Il motivo è che all’interno dell’UME c’è, appunto, una questione irrisolta messa in luce da uno dei protagonisti di Maastricht, l’allora ministro degli esteri Gianni De Michelis:
Di fatto la moneta unica (poi denominata euro) sarà il marco – nessuno ha interesse a che valga di meno – con la differenza che a governarlo non sarà la Bundesbank, composta solo da tedeschi, ma la Banca europea, del cui consiglio di amministrazione i tedeschi saranno solo una delle componenti. Nessuno, all’epoca, lo dice pubblicamente, ma fra noi è pacifico che questa è la posta in gioco. Senza capirlo, è impossibile ricostruire la vera storia di Maastricht. Soprattutto, non se ne possono vedere le implicazioni geopolitiche (Limes).
È la descrizione del contraddittorio equilibrio che sorregge sia UE che UME. In ragione di ciò gli euro-bond restano alla porta. Invocare oggi per l’UE un “momento Hamilton”, il Segretario al Tesoro degli USA che a fine Settecento inventò il debito federale degli USA (compreso il no bail out in caso di default dei singoli Stati) potrebbe minarne, per la dura redistribuzione necessaria della sovranità fiscale, la fragile costruzione. Ragionevolmente, quindi, l’Eurogruppo ha bypassato il tema.
Di conseguenza, se il “gioco Europa” finora ha retto, il merito è della BCE. Tuttavia, se a fine emergenza i paesi cosiddetti “cicale”, diversamente dal Gruppo Nord, avessero rapporti deficit/Pil superiori al 130 per cento, allora nella BCE, chiamata a monetizzare i deficit relativi, potrebbe aprirsi uno scenario di forti lacerazioni interne. Nel caso, il Gruppo Nord potrebbe decidere di “mollare gli ormeggi dal Mediterraneo” e provare a cavarsela da solo. Ne seguirebbe che il “tavolo europeo” andrebbe a gambe all’aria. Il confine tra continuità e dissoluzione europea è qui. La partita è apertissima.

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