Filosofia a delinquere. L’irriverente e spassoso romanzo di Tibor Fischer

“La gang del pensiero”, dove una strana coppia di rapinatori fa razzia di banche nel Sud della Francia citando i classici della zetetica presocratica.
ROBERTO ELLERO
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Sentite un po’ questa:

L’impossibile è vicino di casa del possibile; tutti i giorni c’è gente che suona il suo campanello per sbaglio.

Non male, vero? E sapete chi l’ha detta? Per saperlo dovreste leggere La Gang del pensiero di Tibor Fischer (Marcos y Marcos, traduzione di M. L. Cortaldo). Ma siccome, specie di questi tempi, occorre essere più che mai generosi con i lettori, vi dirò che si tratta del più pazzo, spassoso e squinternato dei filosofi in circolazione, Eddie Coffin (che vuol dire “bara”), rotondetto pensatore calvo di mezza età, docente a tempo perso per un ventennio a Cambridge, una fissazione per le parole che cominciano (in tutte le lingue, c’è persino un glossario in appendice) per zeta. A cominciare da “zetetica”, l’inesauribile ricerca predicata e praticata dagli Scettici, peraltro consapevoli che mai l’avrebbero davvero trovata, la Verità. Massimi cultori del dubbio, di conseguenza. E dunque, avanti il prossimo: ben duemila e cinquecento anni di filosofia e di filosofi. E qui Eddie si fa tranchant:

La storia della filosofia è un susseguirsi di risse cerebrali, una grottesca ghirlanda di mascelle che azzannano le gambe dei predecessori, come piraña che si addentano a vicenda. È un mestiere i cui i coltelli scattano come niente.

Ne ha per tutti, e tra quelli che proprio non sopporta ci mette i Lumi, a cominciare da Voltaire e Rousseau, presuntuosi e vuoti, a suo dire. Salva un po’ Diderot e soprattutto La Mettrie, morto per il troppo mangiare: la crapula, si sa, merita sempre rispetto. Mentre con altri, poniamo Kant e Nietzsche, ingaggia battaglie per vie allusive, senza mai davvero affondare i colpi. Fosse per Eddie, comunque, si potrebbe tranquillamente tornare ai Presocratici, agli Ionici della Scuola di Mileto in particolare, e morta là. Anassimandro, Anassimene, Talete… E poi certi poeti, come il terribile Ipponatte, che a un certo punto occupa la scena nel corso di una memorabile seduta spiritica.

E rissa per rissa, meglio osterie e taverne malfamate, albergacci a ore, incontri patibolari, donnine di sin troppo facili costumi. È da queste parti, del resto, che errante in Francia, il nostro fa la conoscenza di Hubert, d’ora in poi Hube, privo di un occhio, di un braccio e di una gamba per trascorsi galeotti, pratico di patrie galere e un’innata passione per la filosofia. Persino più di Eddie, da buon neofita autodidatta. Figurarsi se i due non son fatti l’uno per l’altro. Sintonia a prima vista. Ma fatti per fare che? Vivere l’attimo, per restare ai classici, ma nel migliore e più pericoloso dei modi, rapinando banche, ché tanto se lo meritano e alla fine non si ruba niente a nessuno, soltanto passaggi di denaro da uno sportello all’altro.

Sono loro, d’ora in poi, gli inseparabili Eddie e Hube, la gang di cui al titolo del romanzo, cronaca di imprevedibili (e improbabili) scorribande, con moltissime divagazioni, infinite citazioni e altrettanto copiose digressioni. Specie sul passato di Eddie, avventuroso, persino con una puntatina in Afghanistan ai tempi dell’occupazione sovietica. Banca per banca, colpo su colpo, da Bordeaux a Montpellier, Tolone, Marsiglia, si dipana la ballata.

Rigorosamente senza violenza, i colpi in banca, in maniera quasi “educata”, con una abilità disarmante e fortunosa, scorno permanente delle polizie che danno loro inutilmente la caccia. Talmente “fascinosi”, pur mal messi come sono, da conquistarsi i favori dell’opinione pubblica. Un bel marketing. La vicedirettrice di una delle prime banche rapinate, Jocelyne, ad esempio, resta ammaliata, dà volentieri una mano e finisce presto nel giro, la donna del capo o qualcosa di simile. Questione di empatia.

L’amatissimo Talete diventa un topolino vorace raccattato in un qualche albergo, presto destinato a seguire anche lui le imprese della banda, dalla sua gabbia per gatti o criceti, forse reincarnazione ultima del primo filosofo dell’empiria scientifica. Quell’osserva, sperimenta, impara che, ricordo bene, campeggiava sulla copertina del mio primo libro di scienze.

Il tono de La gang del pensiero è volutamente sopra le righe, debordante, inverosimile, con una trama che è quasi uno storyboard. Senza che ciò suoni offensivo o riduttivo, tutt’altro, visto che il successo internazionale del romanzo, risalente alla metà degli anni Novanta, risiede nell’irriverenza con cui i grandi temi del pensiero vengono miscelati alla letteratura di genere. Con tratti di politicamente scorretto da anarchismo magari destrorso.

Fischer è del 1956, figlio di cestisti ungheresi migrati in Inghilterra all’epoca della rivoluzione di Budapest. Prima della Gang, era uscito, nel 1992, Sotto il culo della rana (che viene da un modo di dire magiaro per intendere “toccare il fondo”), di successo ma non così strepitoso come La gang del pensiero, che proietta l’autore nell’empireo dei nuovi scrittori britannici, accanto a Martin Amis, Roddy Doyle, Nick Hornby, lo stesso Hanif Kureishi. Umorismo, toni scanzonati, sguardi disincantati e dissacranti del melting pot letterario londinese, assai variegato e mai omologabile.

Poi, alla distanza, un sostanziale declino. E qualche scivolata, come la recente difesa d’ufficio sul Guardian dell’autocrate Viktor Orbán, per il quale Fischer, che torna spesso in Ungheria, mostra grande comprensione. Questione di radici, forse, come s’usa dire, o soltanto il piacere di un anticonformismo estremo. Lo stesso, in fondo, e fatte le debite distinzioni, che ispira le gesta di Eddie e Hube, prima che anche la rapine volgano a routine e vengano a noia. A loro per primi.

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Filosofia a delinquere. L’irriverente e spassoso romanzo di Tibor Fischer ultima modifica: 2020-04-29T16:57:16+02:00 da ROBERTO ELLERO
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