Qualche giorno fa sono uscita sulla fondamenta della Giudecca quando ancora era permesso uscire solo a duecento metri da casa (i miei duecento metri sono esattamente allo sbocco di Calle San Giacomo sulla fondamenta) e ho visto una Venezia calma, bellissima, con l’acqua piatta, ho sentito il silenzio, ne ho visto i colori che brillavano nella luce particolare di questa città fatta di pietre e acqua, e per un attimo ho pensato che davvero Venezia sembrava salva. Salva dallo sfruttamento visibile presente prima della pandemia. Sfruttamento perpetuato da politiche sbagliate, sfruttamento da parte di chi ci guadagna senza voler dare una senso alla città, e non solo: sfruttamento da parte di chi la sradica completamente e ne sradica gli abitanti.
Il turismo di massa e non, che è l’unico sostentamento della città, e annessi corollari.
Strade e calli intasate, negozi e ristoranti devoti solo a prosciugare le tasche dei turisti, negozi di souvenir di pessima fattura, la rimozione degli artigiani locali in favore di paccottiglia e immondizia varia. La rimozione di produzione culturale. Il traffico acqueo: i lancioni granturismo che passano in canale con descrizioni amplificate più o meno precise di ciò che il gruppo turistico in quel momento vede. Lo sfrecciare dei tanti taxi ufficiali e abusivi, il passaggio di barche a motore di tutti i tipi e dimensioni che in molti casi non rispettano i limiti di velocità. Il passaggio delle grandi navi. L’aria che molti dicono essere più pulita ora, io francamente non ho un olfatto così sottile, ma ci credo che sia così. È logico.
Insomma ho visto una Venezia salvata dalle aggressioni degli ultimi anni che l’hanno resa invivibile per tutti, residenti e turisti.
E mi sono venuti in mente i temi centrali della pièce Venezia salva, scritta da Simone Weil, all’inizio della seconda guerra mondiale, nel 1940.
È importante ricordare in quale frangente fu iniziata la stesura di questo dramma teatrale (incompiuto) per capirne anche i suoi temi.
Venezia salva racconta di una congiura che avvenne a Venezia nel 1618. Si narra che accadde davvero, e se ne trova traccia in una cronaca dell’abate Cesar Vichard De Saint Real nel 1681. Viene ripresa, questa cronaca, da vari scrittori, in tutta Europa. In Inghilterra già alla fine del 1600 Otway la mette in scena, e nei secoli successivi sarà interpretata da Goethe, Grillparzer, Bontempelli e Hoffmanstahl.
La storia è questa: nel 1618 il marchese di Bedmar, ambasciatore spagnolo a Venezia assieme al duca di Osuna, viceré di Napoli, ordisce una congiura per conquistare Venezia e annetterla al regno di Spagna. Venezia che sul nascere del nuovo secolo ha grossi contrasti con il papato per posizioni considerate laiche ed è accusata di sottrarre autorità ecclesiastica a Roma, ha nuovi importanti lavori pubblici di ingegneria fluviale e lagunare piuttosto costosi (immaginate: per determinare l’attuale assetto lagunare), vive politicamente un momento fragile, subito dopo il non ottimo dogado di Nicolò Donà. Per cui un periodo delicato della Repubblica in cui gli Spagnoli vogliono approfittare della situazione.
Il sacco dovrà svolgersi nella notte che precede la Festa della Sensa, lo sposalizio di Venezia con il mare, festa che celebra oltre l’Ascensione di Gesù anche il dominio veneziano sui mari. L’ambasciatore spagnolo affida la missione a Renaud, gentiluomo provenzale e a Pierre, pirata e navigatore di vasta reputazione, entrambi al servizio della Serenissima.
Renaud sarà l’ideologo della congiura mentre Pierre si occuperà dell’organizzazione strategica. Si radunano così altri mercenari e ufficiali di guarnigioni straniere in servizio a Venezia. La Weil, nei suoi appunti per Venezia salva, dice circa i congiurati radunati da Bedmar:
Render ben chiaro che si tratta di un complotto di esiliati, di sradicati. Odiano i veneziani perché sono in casa propria.

Il loro sentimento infatti è di invidia, rancore verso la repubblica, così moderna e indipendente, così ricca di cultura, di lucidità politica e militare, e soprattutto essendone al servizio odiano non farne parte. Ciò che li divora è il mancato senso di appartenenza, il radicamento che riconoscono nei veneziani e di cui sentono la mancanza in quanto esiliati, capitani di ventura, mercenari, pirati. L’ideologo Renaud, nel discorso politico ai congiurati per motivare l’assalto, dirà loro che Venezia è una
potenza tirannica, intrigante, odiata dai suoi stessi cittadini, che si oppone all’unità d’Europa. Bisogna rendere possibile la dominazione asburgica per assicurare una pace duratura e scongiurare il pericolo turco. C’è necessità dell’unione della cristianità.
E Venezia in questi tempi ha un grande personaggio intellettuale, un religioso, eretico agli occhi di Roma, che si chiama Paolo Sarpi, oppositore del centralismo monarchico della Chiesa cattolica.
Nella sera che precede la notte dell’aggressione il capitano Pierre, incaricato di condurre la missione, viene però richiamato a servizio dalla Serenissima, improvvisamente, per cui propone a Renaud il suo carissimo e fraterno amico Jaffier, ufficiale provenzale, per sostituirlo.
Malgrado Renaud non si fidi ciecamente del nuovo candidato vuole credere a Pierre, e accetta di formare Jaffier con il suo discorso di “alta politica” che lo preparerà alle sue responsabilità.
Considerate questa città con tutti coloro che l’abitano, come un balocco che si può buttare dove si vuole, che si può fare a pezzi. (…) È un piacere delizioso vedere oggi questi Veneziani, così orgogliosi che credono di esistere. Credono di possedere ciascuno una famiglia, una casa, dei beni, dei libri, dei quadri rari. Si prendono sul serio. E fin da ora non esistono più, sono ombre. (…) Bisogna che questa notte e domani la gente di qui senta che non è più che un giocattolo, che si senta perduta. Bisogna che la terra le manchi sotto i piedi, subitamente e per sempre, che non possa ritrovare equilibrio se non nell’obbedirvi. Bisogna che essi domani non sappiano più dove sono, non riconoscano più nulla intorno a sé, non si riconoscano più.
Jaffier ascolta con attenzione il discorso di Renaud, lo ringrazia per la fiducia e lo saluta, dandogli appuntamento a più tardi, per recarsi invece prima a Palazzo Ducale.
Qui entra nel dramma la figura femminile di Violetta, figlia del segretario dei Dieci, che rappresenta la purezza, l’ingenuità, il candore. Jaffier la incontra con il padre e dialogano sulla bellezza e sulla sicurezza di Venezia. Violetta dice che la bellezza difende Venezia meglio dei soldati, Jaffier ribatte che
Una cosa come Venezia nessun uomo può farla, solo Dio. Ciò che un uomo può fare di grande, che più lo avvicini a Dio, poiché non gli è dato di creare simili meraviglie, è preservare quelle che già esistono.
E qui viene citata per la prima volta “la bellezza” della città. Il segretario dei Dieci fa notare a Jaffier come anche Violetta abbia grande trasporto per la sua città:
Vedete, qui persino i fanciulli hanno di questi sentimenti. Non stupisce, in una città di cui lo splendore e la libertà sono antichi di oltre sei secoli.
Jaffier si accomiata dal segretario dei Dieci e da Violetta e si reca all’appuntamento con i congiurati per impartire gli ordini per l’assedio e la distruzione imminenti della città. Sono ordini secchi e tutti obbediscono subito. Congedati i compagni, Jaffier resta solo a contemplare la città che domani sarà “sua”. E qui nella pièce parte il suo monologo che contiene la “conversione”. Egli capisce e decide che non può massacrare questa città, i suoi abitanti, i suoi palazzi, le case, le chiese…
È questo il tema centrale di Venezia salva: la percezione improvvisa del capitano Jaffier che qualcosa, qualcuno (Venezia) esiste, è reale, e perciò non può essere oggetto di possesso e eventuale distruzione, asservimento. Jaffier si rende conto che deve uscire da sé, dal suo desiderio, dal suo sogno di conquista e avere pietà per qualcosa che esiste di per sé ed è bellezza ai suoi occhi. La bellezza di Venezia di cui Violetta è figura simbolica, è costituita non solo dall’architettura, dalla natura, ma anche dai suoi abitanti, dallo strato sociale, dall’assetto politico tanto odiato dagli spagnoli, poiché autonomo e progredito. La bellezza sta nell’esistenza complessa e complessiva di questa città, e Jaffier rinuncia a distruggerla. Con dolore si accorge di quanto sta per accadere a Venezia per mano sua, e si pente.
Si recherà tormentato nella notte a Palazzo Ducale a cercare le autorità per rivelare la congiura, chiederà però la salvezza di venti dei suoi compagni che gli verrà accordata. La vita dei suoi compagni (e soprattutto dell’amico Pierre) è tanto importante per lui quanto il salvare Venezia.

Il finale è triste per Jaffier. Venezia sconfigge la congiura, prevenendo gruppi di combattenti sparsi per la città, cattura i congiurati e li condanna a morte. La qual cosa fa disperare il nostro eroe tragico, che ha tradito i suoi per compassione della città e da quella stessa città viene tradito. Il governo obbedisce alla ragion di stato e non mantiene la promessa di non giustiziare i compagni di Jaffier. Jaffier verrà allontanato dalla città, sotto le violente imprecazioni di popolani e guardie del palazzo, con una ricompensa che getterà a terra, ricordandoci il gesto di Giuda, ma in lui vi è anche la citazione del salvatore sacrificato. Jaffier va verso la morte, fuori da Venezia:
La morte viene a prendermi. Ora è passata la vergogna. Ai miei occhi ormai senza sguardo, quale bellezza la città! Senza ritorno io m’allontano dai luoghi dei viventi. Non c’è alba dove io vado, ne città.
La pièce si conclude con il canto di Violetta, inno alla bellezza della sua città e alla festa della Sensa che l’attende.
Storicamente si sa che il Consiglio dei Dieci fece giustiziare varie centinaia di uomini e che Bedmar dovette lasciare Venezia.
Per cui i temi di Venezia salva sono gli atti di possesso e distruzione:
Gli uomini d’azione e d’avventura sono dei sognatori; preferiscono il sogno alla realtà. Ma con le armi essi costringono gli altri a sognare il proprio sogno. Il vincitore vive il proprio sogno, il vinto vive il sogno altrui,
dice Renaud, l’ideologo del sacco.

E l’atto di compassione di Jaffier che si “sveglia” dal sogno, dall’ebbrezza di potere e vede la realtà, e grazie a ciò salva la città. Jaffier d’improvviso “vede” Venezia nella sua intera e complessa bellezza, rinuncia alla sua fantasia e al suo desiderio, e si adopera a salvare ciò che vede, a preservare. È un eroe tragico poiché non riceverà alcuna ricompensa, perderà i suoi amici tra cui l’amato Pierre che gli aveva dato fiducia per l’impresa eleggendolo a condottiero della missione. E nemmeno i “salvati”, i veneziani, hanno cuore di riservargli un trattamento d’onore, anzi, lo cacciano dopo averlo ingannato circa la sorte dei congiurati.
Come dicevo sopra bisogna ricordare che Simone Weil scrive questo testo durante il nazismo, per cui: guerra, annientamento del prossimo, sradicamento del popolo conquistato, distruzione di radici ben precise.
I soldati: chi si sente sradicato provoca sradicamento, chi non ha pace porta in giro guerra.
I potenti: chi sogna il potere, il possesso, non può rendersi conto che l’Altro esiste.
Ma mi è venuta in mente questa tragedia proprio guardando Venezia in questi tempi di clausura forzata. La vedevo per la prima volta nella sua interezza, senza distrazioni, senza ostacoli, senza impedimenti, senza lordura. Certo è anche troppo vuota, al momento, e reca un pò di angoscia la mancanza di vita, di esseri umani in giro, ma se si pensa ai tempi recenti, alle invasioni della città, dei turisti, ma anche dei negozi per turisti, dei bar per turisti, delle imbarcazioni per turisti, dei vaporetti assaltati dai turisti, dell’inquinamento visivo e acustico e ambientale che ora si è dissolto, si può riascoltare il discorso sopracitato di Renaud:
Considerate questa città con tutti coloro che l’abitano, come un balocco che si può buttare dove si vuole, che si può fare a pezzi. (…) È un piacere delizioso vedere oggi questi Veneziani, così orgogliosi che credono di esistere. Credono di possedere ciascuno una famiglia, una casa, dei beni, dei libri, dei quadri rari. Si prendono sul serio. E fin da ora non esistono più, sono ombre.
Se si pensa a coloro che depredano e possiedono e succhiano la nostra città ci si può identificare proprio con le vittime nella fantasia politica di Renaud. Il radicamento dei veneziani (e dei residenti) ha a che fare con la storia della città, con il passato, il presente e il futuro. È questo stato che viene distrutto da una conquista violenta da parte di chi vuole solo sfruttare la città, annetterla ai propri valori e conseguenti guadagni.

Allora ci si augura e ci si chiede se sarà possibile che anche per chi ha le mani su questa città, per coloro che hanno considerato solo di usarla, per chi opera gli abusi, per chi non pensa alla vita dei residenti, al radicamento della nostra società, per chi non tiene alle esigenze degli abitanti, ma anche per una ospitalità diversa del turista, non incentrata, come è stata ultimamente, sul prendere i soldi senza offrire qualità, ci si chiede se in questo momento in cui la città si mostra davvero per quello che è e che potrebbe essere, se sarà possibile un movimento di grazia come quello che investe Jaffier. Lui rinuncia al potere e al possesso per lasciare spazio alla pietà, alla compassione, grazie alla contemplazione di ciò che ha davanti a sé, e a quel punto desidera solo salvare, preservare, lasciare che sia.
Dice Simone Weil:
Jaffier. Arrestare il tempo è soprannaturale. È qui che l’eternità entra nel tempo. Dal momento in cui Jaffier si accorge che Venezia esiste.
Nel 2013 ho fatto un film liberamente tratto dal dramma teatrale Venezia salva di Simone Weil. Venne presentato per la prima volta alle Giornate degli autori, Biennale cinema 2013.

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