Soprattutto in questi giorni di incertezza, resi ancora più amari dalla scomparsa di un gentiluomo d’altri tempi, già presidente del Bologna, come Giuseppe Gazzoni Frascara, fa piacere celebrare alcuni anniversari. Per l’occasione, abbiamo scelto quattro fuoriclasse, protagonisti, ciascuno a modo suo, di alcune fra le pagine più epiche della storia dello sport.
Partiamo dal sessantenne Collina, l’erede di Lo Bello nel cuore di milioni di appassionati, l’arbitro italiano che diresse una finale mondiale ventiquattro anni dopo Gonella e dodici anni prima di Rizzoli, l’uomo del nubifragio di Perugia (14 maggio 2000) e della passeggiata nervosa con i capitani di Perugia e Juventus per vedere se il pallone rimbalzasse sul terreno di gioco o fosse necessario rinviare la partita.
Collina è stato per anni il miglior arbitro del mondo, il più autorevole e rispettato, capace di assegnare due rigori nel finale alla Roma in una sfida col Venezia in cui i giallorossi, in lotta per lo scudetto, erano andati sotto di due gol e rischiavano di perdere in maniera indecorosa con l’ultima in classifica, peraltro ormai retrocessa. Un fischietto di personalità, dunque, sempre pronto a dialogare con i giocatori, al punto che con lui si placava persino un cavallo imbizzarrito come il talentuoso ma pressoché ingestibile Cassano.

Autorevole, mai autoritario, tenace, deciso e con la partita sempre saldamente in pugno, Collina da Viareggio ha modificato il ruolo dell’arbitro e creato una scuola cui, negli anni successivi, si sono ispirati anche molti fischietti stranieri. Nell’immaginario collettivo, rimarrà il protagonista degli anni Novanta e dei primi anni Duemila: una personalità unica di cui oggi, in molte occasioni, si avverte la mancanza.
Walter Zenga, l’Uomo Ragno nerazzurro, neo-sessantenne anche lui, è uno di quei personaggi che sembrano usciti dalla penna di Galeano. Portiere atipico, concentrato ma guascone, simile in questo a Tacconi, il suo contraltare in bianconero, ha trionfato con i nerazzurri in molteplici occasioni.
È stato uno dei punti di riferimento della Nazionale di Azeglio Vicini, commettendo anche qualche errore che non avrebbe dovuto commettere, ma restando comunque nel cuore dei tifosi, al pari di una squadra che avrebbe meritato la vittoria finale e ne è rimasta orfana a causa della grandezza di Maradona e della prima di tre maledizioni dagli undici metri che hanno privato gli Azzurri di altrettanti titoli mondiali. Se una di quelle volte la dea Eupalla ci avesse arriso, oggi avremmo in bacheca una Coppa del Mondo in più.

Quanto allo splendido settantenne Paolino Pulici, c’è poco da dire, se non che è stato uno degli attaccanti più forti del nostro calcio, capace di completarsi a vicenda con Ciccio Graziani, col quale formò la coppia d’attacco che regalò al Torino di Pianelli l’ultimo scudetto della sua gloriosa storia, ventisette anni dopo la tragedia di Superga.
Pulici è stato uno dei simboli del tremendismo granata degli anni Settanta, uno dei fuoriclasse più amati anche dai tifosi di altre squadre, componendo insieme a Sala, al già menzionato Graziani, a Zaccarelli e ai degni eredi del Grande Torino che fu, allenati da Gigi Radice, una compagine come non se ne sono più viste nella storia del calcio. Un po’ per sfortuna, un po’ per qualche demerito proprio, quell’undici ha raccolto meno di quanto avrebbe meritato, arrivando quasi sempre a un passo dalla gloria e fermandosi un millimetro prima.
Fatto sta che persino la Juventus dei record, la Juve tutta italiana di Giovanni Trapattoni che in cinque giorni si aggiudicò Coppa UEFA e scudetto (anno 1977), nel dicembre del ’76 fu costretta a inchinarsi alla rabbia agonistica del Toro, perdendo 2 a 0 al Comunale per via delle reti dei gemelli del gol (Graziani e Pulici).
Nonostante questo, i ragazzi di Radice collezionarono 50 punti contro i 51 dei bianconeri, in un derby lungo quanto il campionato e appassionante come non mai. Pulici, di quel Toro, ne ha incarnato l’anima e gli ideali: per questo, a distanza di tanti anni, è ancora così amato e così rimpianto.

Concludiamo con Diego Pablo Simeone, oggi splendido cinquantenne, protagonista per tanti anni del calcio italiano e attualmente allenatore dell’Atletico Madrid. Non ha torto chi afferma che, per i Colchoneros, esista un prima e un dopo: prima di Simeone, quando i biancorossi erano la seconda squadra di Madrid e poco più, e dopo Simeone, anzi durante, quando i suoi ragazzi terribili hanno raggiunto due finali di Champions, perse entrambe proprio col Real, e vinto parecchi trofei, soprattutto in ambito internazionale, attestandosi su livelli altissimi ed essendo riconosciuti, pressoché unanimemente, come i simboli di una sorta di “tremendismo madrileno” in grado di tenere testa a compagini ben più blasonate. Del resto, Simeone non è un tipo che si adatta: l’Atletico è stato forgiato a sua immagine e somiglianza e i risultati si vedono.
Quattro storie, quattro vite e un pallone che ci auguriamo torni presto a rotolare ovunque, compresi gli oratori dove tanti bambini sognano, giustamente, di diventare eroi.
In copertina, l’uscita di Zenga nel corso della semifinale di Italia ’90 che portò al gol di Caniggia.

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