Dopo aver presentato nel pomeriggio con me e Cecilia Waldekranz il libro Fårö, la Cinecittà di Ingmar Bergman da noi curato nel 2003, Erland Josephson (1923-2012) s’alzò scusandosi dal tavolo dove cenavamo. Al ritorno, ci disse: “Ho telefonato a Ingmar a Fårö. Gli ho detto che sono in Italia con alcuni matti a presentare una ricerca su lui e la sua isola. Ne ha riso divertito”. Fummo ovviamente lusingati da quella comunicazione (la foto ci ritrae in quell’indimenticabile pomeriggio).

Passammo una serata piacevole piena di battute e ricordi. Josephson era persona deliziosa, niente affatto pieno di sé e della sua fama. Ci raccontò che a Bergman telefonava ogni domenica da decenni: parlavano del più e del meno ma anche delle vicissitudini intime alle prese con la vecchiaia.
È dura invecchiare. Per fortuna, il teatro non ha tempo. Con Ingmar ne abbiamo parlato alla tv svedese in un simpatico duetto,
ci disse. Con tipico riserbo in stile Swedish, non ci rivelò altro sul suo vecchio amico per cui aveva recitato innumerevoli volte per il cinema e per il teatro. Il giorno dopo, l’accompagnammo in stazione con la moglie Ulla Åberg. Josephson era sulla sedia a rotelle perché faceva un po’ fatica a camminare. Lo salutammo calorosamente e lo ringraziammo ancora una volta per averci fatto il regalo di presentare il nostro libro ritagliandosi il tempo necessario mentre era impegnato su un set italiano.

Josephson, capelli folti e bianchi, viso e occhi mobili a seconda dello sguardo, era attore-principe del teatro di Svezia, quello che ha per centro il mitico Kungliga Dramatiska Teatern fondato da Guglielmo III nel 1788 a Stoccolma e che gli svedesi chiamano familiarmente “Dramaten”. Lì fece il suo esordio nel 1956. Era anche raffinato scrittore di racconti e sceneggiature. Vanda Monaco Westerståhl ha curato qualche anno fa la sintesi di quelle innumerevoli pagine per il pubblico italiano (Memorie di un attore, Bulzoni Editore). Il volume è anche il frutto di un’amicizia tra i due nata e sviluppatasi dietro le quinte del Dramaten tra un’italiana-napoletana trapiantata a Stoccolma, anche lei attrice, e lo straordinario interprete di quasi tutti i lavori per cinema e teatro di Bergman, oltre che di registi come Théo Anghelopulos, Andrej Tarkowskij, Peter Brook e Liliana Cavani (è lui lo stravagante Frederich Nietzche di Al di là del bene e del male).

Seduta vicina a questo maestro attore, imparavo l’arte artigianale della pausa, dei tempi, dei ritmi. L’arte di tessere una trama facendo affiorare alla superficie emozioni e ricordi, associazioni, con i loro tempi e melodie e accordi di accompagnamento,
scrive la Monaco in un’introduzione appassionata che racconta l’intreccio di una collaborazione nata al Dramaten, ideale “casa degli attori” da oltre due secoli e luogo di culto del teatro di August Strindberg.
Josephson racconta in queste pagine la sua infanzia: famiglia discendente da un ceppo ebreo-polacco immigrato in Svezia nel 1780, padre appassionato di libri e gestore di una libreria, madre formatasi in una famiglia di politici e diplomatici, uno zio direttore del Dramaten dal 1948 al 1951. Poi, quando aveva appena sedici anni e frequentava il Liceo Norra Latin, ci fu l’incontro con Bergman che avrebbe curato la regia del Mercante di Venezia di Shakespeare usando lo stesso Erland e altri giovani liceali come attori. Vale la pena citare cosa ricorda Josephson di quel primo approccio che avrebbe inaugurato un’amicizia indissolubile:
Quando l’incontrai per la prima volta, Ingmar Bergman portava un basco poi diventato famoso, aveva una risata particolare poi diventata famosa, aveva ventun anni e già era molto chiacchierato. Poi diventò famoso. Avevo sedici anni, era il 1939. Ne fui impressionato, sedotto, scosso. Era di un’intelligenza quasi assurda. Lo chiamavano “The Genius”.

Con gli anni, Erland sarebbe diventato per Bergman – assieme a Gunnar Biörnstrand, altro straordinario attore svedese – un alter ego in cui specchiarsi facendo parlare e gesticolare i suoi personaggi.
Alla fine della lettura del volume curato da Vanda Monaco Westerståhl, ci si fa una domanda: com’è stato possibile che da Strindberg in poi un paese di quasi nove milioni di abitanti, seppure dotato di storia millenaria, abbia prodotto attori e registi che hanno dato lustro al teatro e al cinema mondiali? Un amico svedese mi diede una risposta semplice semplice:
Oltre al genio dei singoli, Strindberg e Bergman in testa, ha contribuito il clima. Durante gli inverni dal freddo implacabile, i luoghi più caldi dove passare gli inverni erano i teatri. E lo sono tuttora. La gente andava e va a teatro. Gli autori scrivono con piacere per il teatro.

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