Mentre la clausura procede verso un orizzonte più luminoso e intravediamo la fine del tunnel, chi sopravvive egregiamente cambiando come e meglio del coronavirus? La pubblicità. Adesso la promessa non è più “con il nostro prodotto vivete meglio”, ma “vi siamo vicino, coraggio, ci siamo quasi”, dando per assunto che il prodotto sia completamente identificato col consumatore.
Il che del resto è vero: se causa clausura il mercato si flette il produttore s’inginocchia. Ecco perché siamo tutti nei guai ma insieme ce la faremo. Insieme alla passata di pomodoro, alla pasta, alla pizza mangiata in collegamento web mugolando “la donna è mobile”.
Dovunque i consueti sorrisi, le consuete famiglie recluse ma contente, i consueti neo-cliché alla rovescia (donne atletiche e ginnasticate, uomini pasticcioni in cucina, bambine pazienti con fratellini cretini). Eppure c’è più Italia e meno America in queste famiglie. Più facce nostrane, più immagini rubate dal web, più palazzine popolari e meno villette.
Perfino i neo-cliché sono più neo, più contemporanei, con più chitarristi sul terrazzino (attenzione, non “al balcone”, che è internazionale) e stretching sulla terrazza comune all’ultimo piano. Permangono i ricicloni di immagini pregirate con corse nei parchi o sulle spiagge tutti insieme condite da “torneremo a stare tutti insieme”, ma stavolta concludono le immagini domestiche e nell’insieme si respira una familiare aria di italica bonomia.
Condita con la sorridente, confidenziale, eddai, essù, esortazione di stare a casa, così da creare una sorta di pubblicità progresso diffusa, una nuova comune virtuosità che comunica sì, ci siamo, vi vogliamo bene, non ammalatevi se no non ci comprate più. Ovviamente si registra un significativo silenzio dalle marche automobilistiche. Nessuno ha ancora pensato a un party #stateingarage.
Poi ci sono i super virtuosi, coloro che sostengono e finanziano, che hanno convertito la linea di produzione e ora sfornano mascherine e disinfettanti. Quelli che finanziano ospedali e nosocomi. Bravi, anche perché parlano più sottovoce, non fan trombetta della propria virtù.
In mezzo a tutto questo volemose bene ma a un metro di distanza continuano a fiorire imperturbabili coloro che chiedono soldi per opere di bene estranee al coronavirus. Bambini nostrani con gravi malformazioni sostenuti da genitori coraggiosi, bambini africani che muoiono di fame sostenuti da operatori internazionali. È una sorta di basso continuo nel concerto delle disgrazie nostrane, che ricorda a chi se ne sta a casa a fare il pane o i tortellini che gli è andata bene, che quel pane e quei tortellini basterebbero a sfamare una famiglia per un mese, che quei soldi spesi in tiramisù a domicilio servirebbero a cause più nobili.

Ecco, è straordinario dopotutto come ci si sia adattati, pubblicità compresa, in un paio di mesi. Con la velocità del fulmine ristoranti, supermercati e spacciatori di delizie di vario genere fanno il servizio a domicilio. Certo non è la maggioranza, certo non è la soluzione, certo tanti dovranno tirare la cinghia, ma dello spritz sotto vuoto ne vogliamo parlare? Sembra una sacca per la flebo e per tanti in effetti è una trasfusione di fiducia e speranza.
Cosa cambierà ancora in queste ultime (speriamo) settimane in cui il governo procede con la manzoniana esortazione adelante ma con juicio? Non lo sappiamo. Siamo divisi tra i tantissimi stimoli di opposto segno che ci giungono dai media ufficiali e non. Stimoli che sostanzialmente si dividono in: filone “complottismo/disastro/so tutto io”; filone “fake che sembrava vera/scusate smentisco/però forse era vero”; filone “non so che cavolo sto facendo ma intanto lo faccio poi vediamo”; infine “mi rivolto nel letto o facendomi inseguire in mutande dai vigili”.
Ce ne sarebbero altri, del resto in una nazione di pecore individualiste come la nostra è difficile sia seguire che opporsi, quindi intanto facciamo il pane o i tortellini in casa e pensiamo alla salute. E godiamoci le rassicuranti immagini della pubblicità. Perché finché c’è pubblicità c’è speranza.

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