Tempo di vivere, tempo di morire. Tempo di cambiare

Un libriccino d'anni fa di Bruno Manghi invita a riflettere sulle impreviste opportunità che offre la pandemia.
ROBERTO DI GIOVAN PAOLO
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Un libriccino agile che ho imparato ad amare (per quante volte mi ha “ucciso”) è Il tempo perso di Bruno Manghi. Sottotitolo e contesto indispensabile dell’opera di sociologia, o meglio sociopatologia: “nelle attività politiche, sindacali, associative”. Quel “tempo perso” Bruno Manghi lo conosce in prima persona: all’epoca in cui scriveva quel testo, nel 1995, aveva appena iniziato a svolgere incarichi di consulenza e di formazione dopo una vita d’impegno culturale e pratico nella Cisl di Milano, Taranto e Torino e a contatto diretto con la base e i vertici non solo del movimento sindacale più in generale, ma di partiti politici e associazioni della società civile.

Appassionato della vita sindacale e politica ma non connivente, sincero fino in fondo, l’analisi di Manghi è veritiera e per molti aspetti fotografa anche situazioni di oggi, possibilmente peggiorate con la personalizzazione della politica e la trasformazione di modalità organizzative in dinamiche del marketing politico sui social o giù di lì.

Perché ne parlo? Io non faccio il recensore di libri e lo stesso Manghi potrebbe dirci che oggi ripubblicarlo vorrebbe dire aggiungere vari capitoli nuovi, visto che eravamo appena alla “discesa in campo” di Berlusconi… Eppure sento che la vicenda della pandemia fa intravvedere, nel coacervo di politique politicienne e di social e chat che riempiono le nostre giornate, una fase nuova che bisognerebbe saper cogliere.
Non un’età dell’oro che segue “il più crudele dei mesi”, certo, siamo adulti: un’epoca che avrà alti e bassi e nuove modalità di sfruttamento e di lotta, ma certamente una fase nuova, in cui conterà di più il valore del tempo, ben impiegato, oppure disperso e rinnegato. Non fosse anche solo per il costo umano in termini di vite, di lavoro, di sofferenza, di nuove povertà che s’aggiungono alle vecchie, che stiamo già pagando e pagheremo ancor più nei prossimi mesi.

E la politica? È capace di capire questa fase nuova? 

Francamente non sembra. La politica come le altre arti umane, il lavoro, l’arte, il sociale, sembra sul crinale della crisi, con gli occhi sbarrati sul salto da fare e con tanta voglia, invece, di tornare “alla normalità”.
La politica, in moltissimi esponenti, debbo onestamente dire in quasi tutti, come pure nel mondo del lavoro i grandi imprenditori (che in Italia non riescono mai a diventare classe dirigente), e i capi di una pubblica amministrazione rintanatasi dietro il paravento dello smart working, sembra aver risposto alla prima fase di emergenza come sempre, sfoderando la capacità italica di adattarsi e respingere l’assalto mortale alla ridotta difensiva… Ma la Canzone del Piave non sviluppa le società e al massimo regala tristezze da “Vittoria mutilata”, che come sappiamo non portano nulla di buono.

Fuor di metafora, la risposta delle classi dirigenti del paese sembra entrata in fase di stallo dopo il colpo di reni della “tenuta” sull’emergenza.
Onore al merito di aver creato la barriera difensiva, ma come si riparte?
La politica dovrebbe indicare la strada e forgiare classi dirigenti in tutti i settori, ma per far questo dovrebbe avere il coraggio di “perdere del tempo”: per capire in quale cassetto erano i piani d’emergenza per le pandemie richiesto da Onu, Oms, Unione Europea e Nato dopo la vicenda Sars; per capire cosa ha comportato la condiscendenza a non decidere se il sistema sanitario deve essere pubblico, privato, o pubblico-privato (Lombardia docet, ma guardate New York o la Gran Bretagna); per decidere sulla colpevole sovrapposizione di responsabilità a livello politico, amministrativo e anche semplicemente burocratico.

E non parlo solo della pubblica amministrazione, quando le casse di previdenza private di settore non sanno o non vogliono dare il bonus statale a chi ha un’indennità d’invalidità perché la chiama pensione oppure praticano il contrario – da comma 22 – della dematerializzazione e della sburocratizzazione, da parte delle banche contro i loro stessi clienti, nel mentre i massimi dirigenti di queste invocano la fine di “lacci e lacciuoli” dalla politica.

Non è detto che dopo la pandemia saremo migliori. Ho un’età per non credere più alle favole anche se mantengo ogni speranza e passione. Ma se vogliamo essere migliori servono alcune metodologie diverse, sicuramente diverse da quelle che ci hanno portato a subire, nella pandemia, gli effetti di tante scelte, o non scelte, del passato.

Dopo la prima emergenza la difficoltà attuale è quella di costruire una “fase due” che inevitabilmente sarà di transizione e durerà più delle date che saranno stabilite da un DPCM. Sarà la prima occasione di divisione (cambiare non è un pranzo di gala) tra chi guarda al passato, alla normalità da restaurare, e chi vorrà invece prendere atto che la situazione è cambiata, definitivamente. Che la percezione popolare è cambiata. Il modo di leggere la realtà è cambiato. E i tempi delle decisioni non potranno dipendere da attese, moine, comitati larghi o ristretti, intuizioni ondivaghe.
Non si tratta di buttare alle ortiche ciò che eravamo, anzi, si tratta di capire come usare appieno ciò che abbiamo, senza per forza cedere al “nuovismo” per un titolo di giornale sui social.

La regola dovrebbe essere una regola antica, ma così innovativa per l’Italia: praticare l’ordinaria amministrazione, praticare un pensiero lungo attraverso il “tempo perso” del progettare la società, che diventa, in definitiva, “tempo guadagnato”.

Dovrebbe essere la regola quotidiana della politica: costruire una società attraverso un’idea di comunità, farne discendere i pro e i contro, capire qual è il ruolo del nostro paese nel mondo e costruire di conseguenza le sue politiche industriali e di sviluppo, il welfare e la sua politica estera. Uno sviluppo che non può non tenere conto di ciò che è “sostenibile” da una società realmente umana, in termini di socialità, natura, relazioni sociali.
O vogliamo solo dimenticare al più presto oltre ventimila esseri umani e tornare di corsa ad affollare centri commerciali e fabbriche come nulla fosse stato, e magari tornare a sentirci buoni perché diamo una mancetta di un euro al rider che ci porta il pacco, il bikini estivo e la pizza o il sushi?

La pandemia ha solo messo in chiaro che quel sistema si regge in bilico su una serie di leggi non scritte che violano la Costituzione e i diritti umani ogni giorno: i raccoglitori nei campi apolidi e disperati; i lavoratori da delocalizzare o cassintegrare a piacimento, come merce umana; i malati, secondo le tariffe assicurative, da attaccare o staccare dai ventilatori d’ossigeno; i vecchi da depositare inutili nelle Rsa che sono state una anticamera della fine e la scuola ridotta a mera didattica a distanza e compiti a casa, che esalta le differenze di redditi e di possibilità culturali familiari prima ancora che il divario digitale.

Possiamo davvero pensare che tutto questo debba ricominciare come prima? Nella sua “normalità”? E anche di corsa?

Io credo di no. Io credo che la politica debba una volta tanto tornare, oltre che a decidere, a invocare il suo benefico “tempo perso” (guadagnato) a ripensare la società e le sue strutture.

Ordinaria manutenzione contro “stellone emergenziale”.

Parlamento, Cnel, Cnr, Istat, università contro task force non perché “sono professoroni o costano” (noi non siamo Salvini, rispettiamo le competenze e sappiamo che le task force non hanno gettoni di presenza, noi non siamo qualunquisti) ma perché crediamo che la manutenzione del paese debba essere affidata ai tanti Renzo Piano che l’Italia ha, ben prima che i ponti crollino, non dopo.

Questo, oggi, dovrebbe essere il compito della politica.

Non inventare un’app e farla “digerire” ai cittadini, ma averne tante, per tante utilità, ogni giorno: svilupparle e lasciare le garanzie di privacy, di controllo dell’uso, e di difesa dei diritti nel novero dei compiti che i cittadini possano delegare con fiducia allo Stato, al Garante della privacy, all’Autorità sulla comunicazione.

Fare ricerca è ordinaria amministrazione; sviluppare risorse umane e di lavoro nell’innovazione tecnologica è ordinaria amministrazione; garantire il controllo dell’uso degli algoritmi e dei big data è ordinaria amministrazione, di uno stato moderno che gode della fiducia dei suoi cittadini.

Mi fermo qui. Voglio ritornarci in futuro nello specifico di alcune situazioni che la pandemia ha messo in rilievo.

Non vorrei più tornarci invece per dire di Conte, di Zingaretti o della Meloni e Salvini.

Se s’apre una fase nuova è inevitabile che cambi anche lo scenario politico. Non vedete quanto sono vecchie ormai le mascherine tricolori della Meloni? O che Zaia è già oltre Salvini con la fase due del Veneto, e che sapore di stantìo in una restaurazione politica della “normalità” dopo oltre ventimila morti, milioni di lavoratori a rischio, famiglie allo sbando con i buoni pasto dei Comuni? Chi ha tempo per le polemiche del neopresidente della Confindustria senza che lui s’interroghi mai una volta su quanto c’entra il disastro ambientale ultra decennale e la violenza sulla natura perpetrata in quelle regioni, con la situazione sanitaria e ambientale di quelle stesse regioni?

Che non vuol dire proporre una decrescita ma nuovo sviluppo. Un altro, ben diverso, sviluppo.

Dove sono le classi dirigenti dei partiti, dei sindacati, delle associazioni, degli imprenditori? Quanta paura, in loro, del “tempo perso”… un tempo che sarebbe stato utile impiegare, almeno ora, per pensare il dopo, il futuro, l’ordinaria amministrazione della politica e della socialità.
La fase due ci dividerà, inevitabilmente, tra coloro che pensano a ricostruire e chi prenderà atto e vorrà cambiare: non è una divisione ideologica o tra destra e sinistra. Dividerà famiglie e ceti sociali, partiti, imprenditori, lavoratori e pubblica amministrazione.

Varrà la pena sporcarsi le mani. E “perderci del tempo”. Per provare a cambiare l’arte regia della politica e guadagnarci tutti – con meritata fatica – il tempo futuro.

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Tempo di vivere, tempo di morire. Tempo di cambiare ultima modifica: 2020-04-30T19:43:53+02:00 da ROBERTO DI GIOVAN PAOLO
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