[YONGBYON, COREA DEL NORD]
Qui in Corea del Nord la vita trascorre calma e tranquilla, lontano dai sussulti redazionali causati dalle notizie sullo stato di salute di Kim Jong Un. A oggi il leader nordcoreano è ancora assente dalle scene alimentando così la ridda di ipotesi sul suo destino che tanto tengono occupati improvvisati “esperti”. Noi, allontanandoci dalla lotteria del vivo/morto, semplicemente aspettiamo che i media ufficiali del regime, l’unica fonte certa che potrà dissipare ogni clamore, ogni dubbio, ogni tiro di dadi, s’esprimano.
Nel frattempo, come scrivevo, la vita a Pyongyang e nelle campagne continua il suo tran tran quotidiano senza apparenti novità. La gente va al lavoro, la sera si riunisce nei bar a bere birra e a guardare partite di calcio europee trasmesse in differita, nelle case si guardano (di nascosto, perché ufficialmente proibite) le soap opera giapponesi e sudcoreane e le scuole hanno ripreso ad aprire le aule agli studenti. Anche gli scaffali dei supermercati sono tornati a riempirsi dopo che la scorsa settimana erano stati svuotati dai consumatori per via di un durissimo editoriale del Rodong Sinmun in cui si chiedeva alla nazione di “rimanere vigile” e di “non abbassare la guardia” perché nel momento in cui si ridurranno le difese “si apriranno le porte al virus”. Il rilassamento concludeva il giornale “è un atto di autodistruzione”. Questi ammonimenti avevano generato un’ondata di allarme portando la popolazione a fare incetta di generi alimentari nei supermercati di numerose città.
Sin da quando la pandemia del coronavirus si è affacciata alle porte del paese, il regime ha sempre sostenuto una politica di rigido controllo per contenere il contagio. Le politiche di contenimento alla diffusione del Covid-19 sono facilitate da un sistema collettivistico ormai collaudato che predilige il bene sociale alla libertà individuale. In questo senso giocano un ruolo determinante le numerose manifestazioni di piazza e i Mass Games, in cui la coordinazione, il senso dell’unisono, la consonanza nell’azione e nel pensiero sono elementi determinanti alla riuscita delle celebrazioni.

Questi raduni trovano poi amplificazione nella vita quotidiana e nelle attività di tutti i giorni: in nome di una solidità etica e nazionale la resilienza del popolo nordcoreano si esibisce nelle situazioni più critiche. L’Ardua Marcia, il periodo di profonda crisi economica accompagnato da una terribile carestia tra il 1994 e il 1999, ne è l’esempio più fedele. Anziché ribellarsi alle autorità, i nordcoreani si sono riorganizzati all’interno del sistema avviando una serie di riforme sociali ed economiche che hanno costituito le fondamenta dell’attuale struttura nazionale.
Ufficialmente nessun caso di Covid-19 è stato dichiarato, ma le notizie che ogni giorno descrivono una realtà rassicurante e asettica sono da prendere con le pinze. Anche se i confini sono stati chiusi dalla fine di gennaio appare a molti improbabile che un virus così contagioso e facilmente trasmissibile come il Sars-CoV-19 sia rimasto oltrecortina.
Vero è, però, che Pyongyang ha in passato mostrato grande esperienza ed efficacia nel tenere lontano altre forme epidemiologiche, come la Sars. È quindi assolutamente plausibile che le misure messe in atto dal regime abbiano sortito il loro effetto o almeno, se non ad impedire l’entrata del Sars-CoV-19, nel contenere e debellare sul nascere eventuali focolai.
Forti di questa consapevolezza i media nazionali riportano quotidianamente il numero di contagi e di decessi subiti dalla vicina Corea del Sud, ma nessun dato riguardante il Nord è pubblicato se non per annunciare che sono stati effettuati test e che per un tot numero di cittadini la quarantena è terminata. È un modo, questo, per rassicurare i venticinque milioni di cittadini che vivono a settentrione del 38° parallelo, che il regime e il Grande Leader si stanno prendendo cura di loro con successo, mentre a sud dello stesso parallelo i loro confratelli stanno affrontando la crisi senza grossi risultati.
Dato che oramai da tempo anche la propaganda di regime non può più descrivere la Corea del Sud come una nazione arretrata e dittatoriale (a differenza di quanto è spesso scritto, i nordcoreani sanno benissimo come si vive e quali sono i successi economici raggiunti al Sud), il coronavirus ha offerto un’inaspettata occasione di mostrare una supremazia sociale del Nord sul Sud che, naturalmente, è stata presa al volo da Pyongyang.
La realtà, per chi deve scontrarsi con il sistema sanitario nordcoreano risulta un poco diversa. L’ufficio di Pyongyang dell’Organizzazione mondiale della sanità continua a lamentare che i test sulla popolazione avvengono troppo lentamente: dall’inizio della pandemia sono meno di ottocento le analisi effettuate sulla popolazione nonostante Cina e Russia abbiano inviato diecimila kit per SARS-CoV-2 e Singapore sta apprestandosi ad inviarne altri.
Il problema principale, oltre alla difficoltà di movimento sul territorio che hanno gli operatori sanitari sono le restrizioni imposte dal governo su chi debba essere sottoposto ai test. Di solito, afferma l’Oms, sono funzionari di partito e il personale ritenuto indispensabile per il funzionamento della macchina burocratica ad avere la corsia preferenziale.
Conscio di questi ostacoli e atterrito dalla possibile diffusione esponenziale dell’epidemia, il governo ha formato 235 squadre di pronto intervento composte ciascuna da un epidemiologo, un dottore, una infermiera, un paramedico e un rappresentante del ministero dell’agricoltura. Queste squadre sono dislocate una ciascuna nelle 208 contee del paese, due in ogni provincia e tre nella città di Pyongyang.
Accanto a queste operano circa cinquecento volontari della Croce rossa che, dopo aver frequentato un corso intensivo di controllo epidemiologico sono stati inviati nelle provincie al confine con la Cina considerate più a rischio (North Phyongan, South Hwanghae, Jagang and South Hamgyong) al fine di informare la popolazione sui rischi del coronavirus e sui comportamenti da tenere per evitare il contagio.
Nelle campagne, anche se oggi con minore frequenza rispetto a prima, si sentono i megafoni dei “volontari su ruote” (volontari che in bicicletta raggiungono i villaggi meno serviti dalla rete stradale e ferroviaria) incitare i cittadini a tenere ben presenti le direttive sanitarie emanate dal governo.
Basterà tutto questo per rassicurare il futuro di Corea del Nord sana e felice?
Sicuramente no e le commissioni preposte alla salute dei cittadini lo sanno benissimo. Ecco quindi che l’Assemblea del popolo (il parlamento nordcoreano) ha deciso di aumentare il budget per la spesa sanitaria del 7,4 per cento sin dall’anno in corso. Questo permetterebbe al decrepito sistema sanitario nazionale di rimettersi in pista per raggiungere le buone performance che aveva avuto fino alla fine degli anni Ottanta.

Dopo il crollo del Comecon e soprattutto con le sanzioni imposte dalle Nazioni unite a causa dei test nucleari, la sanità della Corea del Nord ha subito un crollo improvviso. Lo stesso Kim Jong Un, in una delle sue ormai non più rare critiche al sistema nordcoreano e agli amministratori, pur stando bene attento a non addossare la colpa si suoi predecessori ha ammesso che «non c’è un ospedale sanitario moderno ed efficiente neppure nella capitale». È avvenuto il 17 marzo scorso, in occasione della posa della prima pietra per la costruzione del nuovo ospedale di Pyongyang, un evento che è stato visto come l’inizio di una ricostruzione dell’intero sistema sanitario nazionale.
Il coronavirus sarà l’occasione per rivedere la politica sanitaria nordcoreana e ampliare i servizi, oggi orientati principalmente verso le fasce più giovani della popolazione, anche verso le componenti più anziane. Occorre tenere conto che il 14 per cento della popolazione ha più di sessant’anni, ma che entro il 2030 questa percentuale salirà al 25-30 per cento.
Inoltre il 21 per cento degli ultrasessantenni non è in grado di svolgere attività giornaliere in modo indipendente ed è costretta a dipendere da figli o parenti. Questo influisce pesantemente sulla qualità dei servizi sociali e sanitari, in particolar modo nelle campagne. Qui il sistema nazionale di cura e prevenzione si basa sulla presenza teorica di personale medico che, nelle direttive del ministero, dovrebbe essere di un dottore ogni 130 nuclei famigliari, ma che secondo i rapporti delle agenzie internazionali che lavorano in Corea del Nord, spesso si riduce ad un medico ogni 200 o più famiglie. Impossibile, con questi numeri, pensare di sostenere la salute della popolazione.
Infine l’industria farmaceutica nordcoreana produce due linee di medicine: le medicine Ebm (Evidence-based medicine) e le medicine Koryo (medicine preparate con ingredienti naturali coreani). L’embargo internazionale ha limitato l’importazione dei prodotti chimici necessari alla sintesi delle Ebm con il risultato che sempre più spesso entrambi i prodotti sono usati in combinazione. Nei presidi isolati, dove le medicine Ebm sono più difficili da reperire e i pazienti sono più inclini a seguire i metodi tradizionali, vengono somministrate le medicine Koryo, più facili da preparare e meno costose.
La Cina, che più di tutte è preoccupata per un’eventuale instabilità del potere a Pyongyang, ha chiesto, tramite il suo ambasciatore all’Onu, Zhang Jun, di togliere temporaneamente le sanzioni alla Corea del Nord. Il Dipartimento di Stato americano ha prontamente negato questa possibilità inducendo lo stesso Trump ad intervenire promettendo assistenza sanitaria al paese asiatico.
Lo scorso anno fu lo stesso Trump a costringere il Tesoro a fare marcia indietro e a togliere ulteriori sanzioni imposte alla Corea del Nord aprendo così una crisi con il suo consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, culminata con le dimissioni dello stesso Bolton.

Chi vive o frequenta con assiduità la Corea del Nord non fatica ad ammettere che sotto la guida di Kim Jong Un la scienza nel paese ha avuto uno sviluppo considerevole, soprattutto, ma non solo, per la politica nucleare voluta dal Grande Leader. Questa politica ha portato la Corea del Nord a incentivare tutte le attività scientifiche collegate al programma nucleare, dalle facoltà universitarie ai centri di ricerca con ricadute anche in campi non prettamente militari, come la ricerca sanitaria.
Siamo però ancora lontani dal livello qualitativo offerto nei periodi d’oro tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui la sanità nordcoreana era tra le migliori e la più capillare del blocco socialista.
La ricostruzione sembra sia all’inizio, ma c’è bisogno di tutti, anche del fatto che l’Onu si decida ad allentare l’embargo verso la Corea del Nord almeno su prodotti destinati al benessere della popolazione.

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