Dopo questa primavera del 2020 che sta cambiando il mondo, gli interrogativi su Venezia sono forse più intensi e più cruciali che in altre città perché la situazione precedente a questa pandemia era, come è noto, già molto critica; solo nell’ultimo anno ci sono stati due incidenti provocati dalle grandi navi, l’acqua alta eccezionale e devastante di ottobre e novembre, un turismo asfissiante che, provocando la chiusura delle piccole attività commerciali e togliendo dal mercato abitazioni dove vivere, tendeva inesorabilmente ad espellere cittadini e quindi a succhiare via la vita della città.
Quel prima, quella “normalità” nella quale eravamo immersi, fino a febbraio era lo “stato delle cose” ma non di certo una condizione auspicabile e condivisa. Il dibattito iniziale della campagna elettorale stava già facendo emergere da più parti l’idea che la ricetta delle monocultura turistica non fosse adeguata. L’irruzione improvvisa di questa pandemia ha rovesciato da un giorno all’altro la situazione mettendo in evidenza, drammaticamente, la vulnerabilità di un sistema centrato su un’unica risorsa. Che il turismo potesse passare, nel giro di ventiquattro ore, da 35 milioni a zero era difficilmente prevedibile, ma che il turismo come unica economia della città fosse strutturalmente e sistemicamente dannoso era già prima a molti chiaro ed oggi è diventato dolorosamente evidente. Ma oggi il richiamo semplificatorio a quella pregressa normalità si fa già sentire.
Pensare al futuro della città oggi è urgente più di prima, ma è altrettanto cruciale non farlo mettendo una pezza per rimarginare una ferita cavalcando l’onda emotiva del “ripartire”. Lo vogliamo tutti, al più presto, ma questo non deve far calare di nuovo la nebbia dell’ipocrisia che ha offuscato il futuro fino ad oggi.
Non si può guardare indietro, si deve guardare avanti. Si tratta di trasformare la situazione in opportunità: il momento è adesso per ri-pensare la città in modo sistemico e non emergenziale, facendo riferimento al contesto temporale giusto che non è un mandato elettorale ma è il ventunesimo secolo, e disegnare il futuro non rincorrendo la sopravvivenza ma ponendo un obiettivo concreto e ambizioso, importante per tutti e non per pochi, adeguato alla storia millenaria della città e al futuro delle prossime generazioni: Venezia può essere una delle città più attrattive del mondo, popolosa, dinamica, solidale, socialmente ed economicamente rigogliosa.
Su cosa si basa la convinzione che questo obiettivo sia concreto: sulla constatazione che Venezia e la sua laguna sono un luogo unico nel mondo fondato su uno stile di vita centrato sull’uomo e sull’equilibrio tra artificiale e naturale, che di per sé è testimonianza attiva della transizione al futuro sostenibile, in un clima ideale per favorire lo scambio, di conoscenza e di saperi tra cultura umanistica, arte e scienze ambientali, un ponte tra Oriente e Occidente, un luogo di straordinaria ricchezza culturale e paesaggistica dove abitare si coniuga con bellezza, armonia e sostenibilità.
Nel libro dal titolo “Venezia Secolo Ventuno” appena finito di stampare da questa settimana disponibile nelle librerie e online, descrivo questo possibile rinascimento sostenibile di questa città straordinaria. Qui di seguito un capitolo del libro: Modernità.

Se siamo ingrado di progettare modi per renderci la vita difficile,
possiamo progettarne altri per risolvere i nostri problemi.
JohnThackara
Occorre far riferimento a una nuova nozione di modernità che consiste nel riconoscere come opportuno, attuale e orientato al futuro il pensiero basato sul rallentare anziché accelerare, ridurre piuttosto che ingrandire, per promuovere stili di vita meno stressanti e più solidali, sulla mobilità ecosostenibile piuttosto che sull’auto, sui percorsi ciclabili e sulla pedonalità che permettono la convivialità e garantiscono una vita più sana, sullo spazio pubblico come bene comune, luogo civico ed espressione della comunità di cittadini, sulla distribuzione dei beni a chilometro zero e sulla riduzione delle emissioni.
Per costruire un futuro urbano sostenibile oltre 9.600 città in cinquantanove Paesi del mondo, accomunate dall’obiettivo di contrastare i cambiamenti climatici, hanno sottoscritto il Patto dei Sindaci lanciato nel 2008, mentre più di 700 città hanno sottoscritto già nel 2004 dieci impegni comuni noti come i 10Aalborg Committments che sono gli indicatori di sostenibilità che l’Europa ha adottato e codificato con azioni di livello locale per obiettivi concreti; questi rappresentano una selezione delle priorità di intervento, ma anche un vero spartiacque tra la fase programmatica e quella pragmatica e strategica. Se infatti il tema “urbano” si è imposto all’agenda delle politiche europee e nazionali, il modello urbano della futura città sostenibile risiede nel
ricostruito equilibrio con l’ambiente naturale e nel perseguimento di equità sociale ed economia solidale, ormai consapevoli che i cittadini sono parte attiva nei processi di gestione e tutela del proprio ambiente di vita. Fa da sfondo il recupero della città luogo di incontri, modellata da chi ci vive, che consuma meno ma parla e cammina di più, come “utopia concreta” per invertire la tendenza al degrado sociale e ambientale.
Non trovate delle interessanti coincidenze? Questi principi, questi committments, questi impegni, sottoscritti da 700 città nel mondo, sembrano descrivere ciò che Venezia è sempre stata! Venezia è già quella città compatta e inclusiva, luogo di incontri, modellata da chi ci vive, dove si consuma meno, si parla e si cammina di più, città intrinsecamente sostenibile corrispondente a queste nuova nozione di modernità, a questa “utopia concreta” verso la quale le altre città si impegnano virtuosamente a tendere.
La diversità di Venezia rispetto al modello dominante di “città moderna” è stata invece considerata da molti e per molti aspetti, piuttosto che un’opportunità, un limite.

Sulla questione della modernità di Venezia sono state scritte pagine autorevoli e illustri, oggi ancora attuali e illuminanti. Già nel 1985 Vittorio Gregotti fece un celebre numero monografico della rivista Rassegna, da lui diretta, dal titolo Venezia e il moderno; in quel numero, nel quale scrissero molti autorevoli studiosi, Gregotti concludeva il suo saggio Venezia città della nuova modernità ammonendo:
Trasformazione e speculazione, rinnovamento e avventurismo tecnocratico sono da molti anni a Venezia, e non solo a Venezia, sposi fedeli: soprattutto non vorremmo che qualcuno pensasse che la Venezia moderna a cui noi facciamo riferimento fosse quella dell’arrivismo arrogante scambiato per decisionalità manageriale, del cinismo spregiudicato scambiato per battaglia all’ideologia, della presa di potere contro ogni dovere.
Trent’anni dopo, oggi, nel dibattito sulla città lagunare invece di dare ascolto a questi moniti si tende ancora a banalizzare la discussione e le argomentazioni al fine di dare per scontata l’incompatibilità tra ciò che viene considerato troppo vecchio e ciò che dovrebbe tendere al futuro; si confonde la modernità con lo sviluppo e quest’ultimo viene inteso meccanicamente come crescita omologata e omologante in un mondo che cerca di riproporre schemi non di disegno urbano ma di infrastrutturazione fisica delle forze del mercato; così si contrappone il nuovo, il macro, il formato XXL, in tutte le sue forme, e lo si considera migliore dell’antico, usato come vetrina, da sfruttare come rendita economica. Così si giustificano le trasformazioni annichilenti nel brodo dell’omologazione e del profitto immediato e si riduce l’antico ad accessorio dal punto di vista urbano ma fondamentale come slot machine.
La storica resistenza di Venezia alla modernizzazione, o più precisamente a una modernizzazione antitetica alla sua peculiarità, è testimoniata da molti episodi, prima durante il Rinascimento e poi durante la trasformazione dell’800 e del ’900. Sarebbero molti i progetti da citare ad esempio. Tra questi ricordiamo quelli più eclatanti ed esplicativi del ’900 come il progetto di proseguimento della ferrovia fino a San Giorgio che avrebbe distrutto l’isola della Giudecca per costruire la Stazione centrale davanti a Piazza San Marco; oppure il progetto degli anni ’50 per realizzare un anello autostradale sub-lagunare che avvolgeva tutta la città con uscite nei punti più importanti, compreso San Marco. Progetti avveniristici senz’altro per quell’epoca, basati su un concetto di modernità rigido, schematico che è da sempre stato, finora, respinto da Venezia che ha saputo far prevalere il senso civile e sociale dei propri particolarissimi spazi urbani alle spinte di trasformazione dettati dalla meccanizzazione. È molto importante sottolineare che quella resistenza non è, come spesso viene ripetuto, incapacità di cambiamento e arretratezza ma, al contrario, è sempre stata una forza virtuosa di rifiuto del cambiamento che peggiora, del cambiamento negativo, rifiuto di una malintesa modernità.

Venezia ha rifiutato di fare le trasformazioni che altre città hanno fatto e che oggi, non corrispondendo ai principi di uno sviluppo sostenibile, devono essere corrette, modificate ed eliminate con ingenti investimenti. Infatti, dopo aver perseguito il mito dell’auto e aver reso sempre più funzionali le città all’uso dell’automobile, costruendo strade, autostrade, tangenziali, svincoli, parcheggi sotterranei, parcheggi di interscambio, ora molte città spinte dalla consapevolezza che il traffico automobilistico comunque crea un impatto insopportabile nell’ambiente e contribuisce significativamente ai cambiamenti climatici, stanno radicalmente invertendo il percorso con iniziative e trasformazioni contrarie: si restringono le strade, si creano zone pedonali sempre più ampie, si costruiscono piste ciclabili, si potenziano le reti di trasporto pubblico ecologico, si incoraggia l’uso dei mezzi pubblici abbassando radicalmente il prezzo del biglietto tramite grandi investimenti di denaro pubblico per renderne sostenibili i costi. In pochi anni anche la mentalità sta cambiando velocemente; se fino a qualche anno fa il car-sharing sembrava qualcosa di stravagante che non avrebbe mai scalfito l’abitudine consolidata di spostarsi con la propria auto, oggi oramai lo sharing è considerato un modo normale di muoversi e una comodità assoluta da un numero sempre maggiore di utenti.
Questo fenomeno verrà amplificato dalla diffusione delle auto a guida autonoma, che porterà al drastico ridimensionamento delle auto in circolazione, e quindi della necessità di carreggiate e parcheggi, liberando grandi superfici che si potranno ri-trasformare in spazi della città per l’uomo e non per la macchina. Anche l’uso della bicicletta come mezzo di trasporto urbano sta crescendo esponenzialmente supportato dalla diffusione delle e-bike, dalla qualità dei percorsi ciclabili sicuri, dalla compatibilità con i mezzi di trasporto pubblico (metro, tram, ecc.) che agevola e promuove l’uso della bicicletta.
Ignorando questa epocale trasformazione in corso, la città di Venezia è stata ed è attualmente erroneamente considerata “non moderna” e “non modernizzabile” e per questo condannata allo spopolamento, alla monocultura turistica, aggredita dalle Grandi Navi inquinanti che apportano una falsa economia distruttiva del tessuto sociale e quindi del futuro. Il Sindaco in carica in un’intervista a La Stampa già all’inizio del suo mandato aveva esplicitato la sua “strategia” con una metafora esaustiva:
Quando hai fame prima pensi a riempire il frigorifero, poi a mangiare meglio. Se eliminiamo il turismo si svuota il frigo e la gente non mangia più.
Non poteva essere più eloquente nel tracciare la sua “strategia” iniziando la grande svendita dell’identità e della vitalità della città. Il suo “piano” di sviluppo urbano è decisamente orientato a separare distintamente quello che lui definisce il “centro storico” e la terraferma: il futuro delle nuove generazioni, secondo l’attuale Sindaco, è a Mestre e nel suo hinterland, città moderna da modernizzare ulteriormente con “grattacieli fino a cento metri” sul waterfront di Marghera. In questo programma, il ruolo di Venezia è quello di sito museale e ricettivo, da conservare e tutelare fisicamente, ma ormai appartenente a un’altra epoca, quindi inadatta a essere abitata e vissuta. Questa convinzione, oltre che estremamente dannosa per il futuro della città, è infondata, come cercheremo di spiegare nei prossimi capitoli. Non è certo la struttura morfologica di Venezia ma è l’idea di modernità e progresso che è diventata obsoleta e va aggiornata e declinata diversamente. E allora, secondo i nuovi principi della modernità basati imprescindibilmente sulla sostenibilità, è forse Venezia che è più attuale di molte altre città? Venezia è, forse, una città ideale per vivere perché offre il giusto equilibrio tra una grande offerta culturale e una straordinaria qualità di vita sostenibile quindi, per questo, una città adatta al futuro?

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