Mostra del Cinema. Obbligati a ripensarla, ed è un’opportunità storica

Il festival dovrebbe svolgersi in maniera diversa rispetto ai tempi normali. Ma si tratta anche di un’occasione per Venezia e per la Biennale. Per progettare un modello nuovo, moderno, più aperto proprio nel momento in cui sembra di dover restare chiusi
ROBERTO PUGLIESE
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Il problema non è “quando”, ma piuttosto “come” e forse persino “se”. Vale per molti aspetti della nostra vita successiva all’emergenza, quando dovremo non già convivere con il Covid-19 – come qualcuno prospetta, quasi si trattasse di prenderlo sottobraccio e diventargli simpatici – bensì subire il virus, cercando di limitarne il più possibile gli effetti sino all’individuazione del vaccino e/o di protocolli terapeutici adeguati.

Fra questi aspetti c’è sicuramente il cinema, come già spiegato qui con lucidità analitica un mese fa da Roberto Ellero: che potrà anche non essere la prima delle nostre preoccupazioni, ma a ben vedere non può essere nemmeno l’ultima, e non solo o tanto per questioni di Pil, di realtà produttiva, di posti di lavoro evaporati, bensì anche e forse soprattutto per una minima, necessaria tutela della nostra salute anche psicologica, anche mentale, anche culturale (a preoccuparsene sinora pare ci sia solo l’ottimo ministro Franceschini).

Cate Blanchett dovrebbe presiedere la giuria della settantasettesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. La Mostra si terrà al Lido di Venezia dal 02 settembre al 12 settembre

E, parlando di cinema, oltre al destino incerto delle sale – soprattutto le medie/piccole – e agli interrogativi sulle varie forme di distribuzione e visione che dovranno necessariamente nascere, si parla ovviamente anche di festival. Quale destino attende le principali rassegne cinematografiche del mondo, di qui ad almeno un anno o più?

Restando all’immediato, Cannes (12-23 maggio) è già saltata, e galleggia sull’imprecisata e imprecisabile ipotesi di un rinvio a luglio (climaticamente un po’ arduo ed epidemiologicamente abbastanza improbabile). Toronto (10-20 settembre) sembra orientata verso un’edizione completamente virtuale e digitalizzata, o quantomeno “ibrida”. Roma (15-25 ottobre) si sente un po’ più al sicuro, e probabilmente in cuor suo tifa benevolmente per l’annullamento delle concorrenti, così da poter raccogliere molti dei film rimasti ai box; ma essendo in pieno autunno occorrerà vedere come si comporterà il virus rispetto a un suo ritorno (dato per quasi sicuro da tutti gli scienziati). Considerazioni queste ultime che potrebbero valere anche per la Berlinale del 2021 (11-18 febbraio).

E Venezia?

Il primo a porsi il problema, nel suo pragmatismo sabaudo, è stato sin dall’inizio della pandemia il direttore della Mostra Alberto Barbera, che ha parlato apertamente dell’ipotesi di un “anno sabbatico” nell’eventualità che il festival non potesse svolgersi entro i limiti di una accettabile normalità. Ma successivamente gli orientamenti sembrano un po’ cambiati, anche perché è piuttosto difficile che il neopresidente della Biennale Roberto Cicutto, tra l’altro uomo di cinema, accetti di veder inaugurare il proprio mandato con l’annullamento della manifestazione più prestigiosa dell’istituzione.

Al netto delle ipotesi piuttosto fumose e sin qui puramente teoriche formulate da Thierry Frémaux, il patron di Cannes, su non meglio identificate “sinergie” tra le due sorelle-rivali (invero complesse da immaginare) sembra farsi largo la strada di un’edizione confermata nelle date (2-12 settembre) ma “ridotta” nei numeri, negli spazi e negli accessi.

Tradotto: meno film, con corsia preferenziale a quelli italiani a fronte delle prevedibili defezioni straniere, meno “star”, meno pubblico e meno accreditati, ingressi contingentati, sei-sette luoghi circoscritti, conferenze stampa online, sviluppo ulteriore e massiccio delle piattaforme digitali.

Nessuno lo dice apertamente, ma significherebbe uno snaturamento totale della Mostra così come la conosciamo da quasi ottant’anni, che si tradurrebbe oltretutto in una consistente diminuzione di introiti (meno biglietti e meno accrediti, giacché anche questi ultimi sono a pagamento) proprio quando la crisi economica successiva all’emergenza morderà più dolorosamente. Al di là di questo però il realismo – una dote che in questo periodo sembra ad appannaggio unico del presidente del Consiglio, supportato dagli scienziati e non a caso nel mirino dei lucratori di facili consensi – impone alcune considerazioni.

Chiunque abbia una qualche esperienza festivaliera (quella di chi scrive ammonta a oltre quattro decenni) sa che il concetto di “assembramento”, grande alleato del Covid-19, è connaturato per definizione a quello di Mostra-Festival, fa parte del suo dna, ne rappresenta una conditio sine qua non. La calca, la coda, la ressa (e a volta la rissa), il fiato sul collo, il gomito a gomito stanno ai frequentatori dei festival cinematografici come la solitudine e la meditazione alle monache di clausura, ne delineano la fisionomia, ne rappresentano il sale, magari qualche volta eccessivo e non desiderato, ma inevitabile.

Accessi contingentati? Mascherine e guanti obbligatori? Distanziamento sociale? E chi li garantirà, chi li farà rispettare? Anche riducendo pubblico e giornalisti (con criteri, specie per i secondi, tutti da definire), di quanto bisognerà allargare il lungomare del Lido perché in coda si rispetti il metro e mezzo richiesto? Quale sarà la ripercussione sul rispetto dei palinsesti giornalieri, che a volte registrano un certo disordine già in condizioni normali? Quale sarà l’effetto del combinato disposto fra questo tipo nuovo di controlli e i già presenti – spesso complicati e problematici – controlli di pubblica sicurezza? 

Prefigurare il caos non appare, diciamocelo, troppo pessimistico.

Ma Cicutto e Barbera evocano due parole-chiave: rispettivamente “laboratorio” e “sperimentale”. E in particolare quella parola, “laboratorio”, fa tornare alla mente quanto diceva quello che è stato il più grande direttore de Il Gazzettino degli ultimi quarant’anni, Giorgio Lago, quando parlava di Venezia stessa come potenziale “città-laboratorio”, una sorta di ideale, gigantesca provetta che proprio per la sua configurazione unica e per il magnetismo mitipoietico che esercita sul pianeta – cfr. di nuovo, per l’aspetto-cinema, il recente bel libro di Ellero Nostra signora degli schermi (Toletta 2019) – avrebbe potuto trasformarsi in un centro di sperimentazione globale (politica, economica, culturale, didattica), attirando idee, talenti, progetti, risorse da tutto il mondo.

Per Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra, il festival quest’anno “sarà per forza sperimentale”. “Ci sarà sicuramente l’uso delle mascherine e il distanziamento sociale” ha dichiarato.

Ma quante volte dalla rinascita della Mostra sotto la direzione Lizzani sino ad oggi abbiamo invocato la parola “laboratorio” e “sperimentazione” per la Mostra veneziana? Non certo per esaurirvi tutta la sua fisionomia, tutte le sue aspirazioni, ma quantomeno per affiancarvi uno spirito di innovazione, di ricerca, di studio investigativo sui nuovi linguaggi, i nuovi tragitti, i nuovi veicoli e i nuovi obiettivi che caratterizzano oggi quel che chiamiamo cinema.

Impossibilitata a competere alla pari, per finanziamenti, spazi e dimensioni, con Cannes, questa sarebbe stata la vocazione che Venezia avrebbe dovuto sviluppare nei decenni, magari guardando un po’ oltre il piccolo anche se fascinoso Lido e allargandosi al territorio, alla società, ai nuovi pubblici (al plurale, perché “il” pubblico, proprio come “il” popolo, non esiste): e forse oggi si sarebbe trovata meno spiazzata e impreparata.

Ma per molto tempo ci siamo sentiti rispondere che non era questa la strada e che per garantire la sopravvivenza della Mostra bisognava puntare sull’appeal autoreferenziale della città lagunare e quindi su star, red carpet, mondanità, feste, ricchi premi e cotillons. Alcune presidenze della Biennale (Galasso, Miccichè) hanno cercato di invertire la rotta; in particolare quella, lungimirante e capillare di Paolo Baratta, che ha lavorato silenziosamente e caparbiamente sugli spazi, sul radicamento nel territorio, sull’allargamento del target, sull’interdisciplinarietà e sul rapporto fra la Biennale e le altre istituzioni culturali della città.

Una spinta cui ha fatto e fa da pendant la gestione di Alberto Barbera, orientata a una Mostra poliglotta e multiculturale pur nella preservazione del suo lato più “festoso”, attenta ai vertiginosi mutamenti globali, non solo tecnologici, ma nel contempo forte e orgogliosa della propria identità, capace di “contaminarsi” nel divenire ma nello stesso tempo determinata nel riflettere ad esempio sul passato del cinema, senza il quale non avremmo il suo presente e non avremo il suo futuro.

Ora di tutto questo bisognerebbe fare tesoro perché, sicuramente nella prossima edizione e probabilmente più in generale nella vita culturale del paese per il futuro prossimo/medio, di questo avremo un disperato bisogno. Non si tratta solo di “remotizzare” (chiedo venia per l’orrido neologismo) film e incontri o di chiudere i rubinetti degli accessi, anche se è ovvio che bisognerà passare anche per tali restrizioni.

Si tratta di ripensare a fondo il profilo non solo della manifestazione (e su questo c’è molto da confidare nell’esperienza e nell’intelligenza di Cicutto-Barbera), ma della vita culturale più generale di Venezia, del Veneto e forse non solo di questi.

Roberto Cicutto è il nuovo presidente della Biennale. Ad inizio gennaio ha sostituito Paolo Baratta che ha guidato l’istituzione per otto anni.

Lo stramaledetto Covid-19 fornisce forse, certo involontariamente, l’opportunità unica per Venezia e per gli altri poli d’attrazione storico-culturale del paese di uscire dalla logica esclusivamente turistica, di abbandonare la sciagurata e monolitica concezione mercatistica secondo la quale si può fare qualunque cosa a patto di fare “i schei”, e di progettare un modello nuovo, moderno, più aperto proprio nel momento in cui sembra di dover restare “chiusi”: e magari farlo chiamando a raccolta a sedersi a un tavolo – a distanza di sicurezza, ça va sans dire – gli ingegni, le esperienze e i contributi che operano da tempo e spesso in ordine sparso sul territorio.

Scontato, quasi banale aggiungere che per raggiungere tale obiettivo, che è tutto squisitamente politico, è necessaria una classe dirigente adeguata e all’altezza della sfida, al momento non visibile. Non basta certo andare a fare i figuranti in piazza invocando imprecisati “risorgimenti” o bofonchiare in diretta Facebook “verzì tuto” o intrufolarsi via telefono nelle case dei cittadini. 

Il tempo della retorica è finito, l’ottimismo della volontà spesso fa più danni del pessimismo della ragione, e comunque il futuro (che c’è, sta lì, e aspetta che noi lo modelliamo) richiede competenza, affidabilità, coraggio e naturalmente risorse, sia economiche che umane. Anche perché, se a qualcuno fosse sfuggito, “risorgimento” e “risorsa” hanno la stessa radice.

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Mostra del Cinema. Obbligati a ripensarla, ed è un’opportunità storica ultima modifica: 2020-05-01T14:00:49+02:00 da ROBERTO PUGLIESE
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