Che ci fosse e ci sia una gran voglia di ripartire e ricominciare era ed è inevitabile. Quanto meno per muoverci. Rimetterci in circolazione. Ma qui c’è qualcosa di più: c’è una fortissimo desiderio di tornare al prima. Con tutti i suoi limiti e difetti, purché si riparta, come ha dimostrato anche la manifestazione dei commercianti veneziani, tra San Marco e Rialto, il 4 maggio.
Eppure per settimane ci siamo detti e ripetuti, come un mantra: “Nulla sarà come prima”, ma invano. Perché, di fatto, si vuole tornare allo status quo ante. Al prima. Anche se non si potrà. Perché al momento stiamo provando a capire se si possono allentare le restrizioni. Ma se tra due settimane o giù di lì il virus dovesse tornare a diffondersi e i contagi a salire nuovamente, si richiuderà tutto annullando così di colpo i timidi effetti benefici finora raggiunti. A dimostrazione che nulla potrà davvero mai più esser come prima. Quindi varrebbe la pena investire in idee, pensiero, intelligenza, per capire seriamente come reinventarci un nuovo modo d’essere, di comportarci, vivere, produrre, consumare, viaggiare, fare turismo: ciascuno e tutti insieme a debita distanza. Per riempire lo spazio tra il prima e quel che sarà nel prossimo futuro, una volta fuoriusciti con sicurezza dalla pandemia.
Una prima cosa che per un lungo periodo non potrà più esser come prima è forse la nostra socialità. La possibilità di andare dove ci pare, con un treno, un aereo, anche solo un torpedone. Ad entrare in crisi per primo è perciò il modello del turismo per come l’abbiamo conosciuto finora: di massa e planetario, stanziale e mordi&fuggi, grandi alberghi e Airbnb. Un comparto che in Italia nel 2019 ha inciso nel per il 13,2 per cento del Pil nazionale, pari a un valore economico di 232,2 miliardi di euro e che rappresenta il 14,9 per cento dell’occupazione totale, per 4,2 milioni di occupati e che sempre nel 2019 ha portato la popolazione di mezzo mondo a trascorrere oltre 360 milioni di notti in una struttura ricettiva; fino allo scorso mese di ottobre, un numero in crescita del 4,4 per cento che ha portato la spesa dei viaggiatori internazionali a superare i 41 miliardi (più sei per cento) con cui si è chiuso il 2018.
Una folla che ha congestionato i nostri centri storici e le città d’arte facendocene lamentare in più di un’occasione, al di là dei lauti profitti. Che ha snaturato le nostre città, ha distorto e drogato il mercato immobiliare, degli affitti e degli acquisti di casa, ha influito sullo svuotamento dei centri storici – favorendo l’esodo dei residenti che si sono affittati l’alloggio per trasferirsi in campagna o in periferia – impoverendoli.
Epicentro di questo sistema la città di Venezia, simbolo di un turismo overbooking, fino a due mesi fa sempre piena in ogni ora del giorno e della notte, un Carnevale permanente, 24 ore su 24 per dodici mesi l’anno, improvvisamente svuotatasi dalla notte al giorno causa Covid-19. Facendola apparire – per la prima volta – come non s’era mai vista e forse è mai stata, neppure ai tempi della Serenissima Repubblica, come ben documentano le suggestive immagini prodotte in più riprese nel corso di questi ultimi due mesi dal fotografo veneziano Andrea Merola.
Ma finalmente una città più vivibile, percorribile a piedi e con vaporetti e motoscafi nei tempi previsti. Più umana, al di là dei giustificati timori per il virus incombente. Tanto che proprio nelle ultime settimane prima del lockdown si discuteva – in forza alla disperazione e dinanzi a una città che stava per collassare – di “numero chiuso”, di più tornelli e severe quanto rigide e selettive limitazioni all’ingresso. Quel modello di business turistico non tornerà sicuramente a breve. Ed è forse un gran bene per la città, che sotto il peso del turismo sembrava letteralmente sprofondare. Ma come si riempirà di nuovo questo periodo di interregno tra il “prima” e il “dopo”?
Eppure c’è voglia di ritornare a quei fasti nefasti, al “tutto esaurito”. Invece di cominciare a ripensare il modello e riconvertirlo in un’accezione più slow, umana, meno spaesante e spoetizzante insieme, meno di massa e più di qualità. Ciò che vale anche per Firenze, Roma o Orvieto, esempi in linea con la tendenza generale. In laguna come altrove.

Per una città come Venezia, che è tutta centro storico, il problema principale è il suo ripopolamento. E poiché i veneziani non vi potranno mai più fare ritorno – non solo perché la casa d’origine è stata in prevalenza adibita ad Airbnb (novemila sono in città le abitazioni riconvertite a questa destinazione d’uso), anche se non sarà più occasione di uguale produzione di reddito visto l’azzeramento delle presenze turistiche – perché non pensare allora ad un intervento mirato sui prezzi degli affitti e delle vendite delle case? Prezzi calmierati, s’intende.
E visto che i residenti sono scesi sotto la soglia delle cinquantamila unità (erano quasi 175 mila nel 1951), perché l’amministrazione comunale non pensa di offrire la “residenza d’ufficio” – ad esempio – ai suoi oltre venticinquemila studenti che vivono la città per un periodo che va mediamente dai tre ai cinque anni, sparsi come sono tra Ca’ Foscari, l’Istituto universitario di Architettura e l’Accademia di Belle Arti? Aiutandoli, anche, a trovare case in affitto a prezzi accessibili e bloccando la speculazione, in primis, o sostenendoli nelle tante singole vertenze con i proprietari per ritoccare al ribasso il costo degli affitti in questa fase di crisi e stagnazione dell’economia dovuta all’emergenza virus.
Va per esempio in questa direzione il protocollo d’intesa sottoscritto lo scorso 27 aprile tra Comune, Iuav, Confedilizia Venezia, Abbav (Associazione di apertura e gestione di B&B ed Appartamenti) e Associazione Agata (Operatori del Mercato Immobiliare Specializzati nella Locazione degli Appartamenti Turistici a Venezia) per promuovere la disponibilità alla locazione a studenti universitari in immobili nella città
antica solitamente destinati ad affitto di tipo turistico. Ma offrire anche la residenza, sia pur in via temporanea e per la durata degli anni di studio darebbe la possibilità agli studenti di stabilire un legame più solido e meno transitorio, quindi responsabile, con la città. Un investimento sul futuro. Loro e della città, insieme.
Gli studenti sono un settore non meno vitale dell’economia cittadina che andrebbe tutelato, incentivato, sostenuto, valorizzato, inserito nel contesto urbano, attraverso forme di agevolazioni varie, che vadano ben oltre la tessera di sconto per l’Actv, l’azienda del trasporto pubblico per fruire dei mezzi in laguna e terraferma. O per l’utilizzo delle mense universitarie. Del resto, gli studenti contribuiscono a fare una città. La modellano, la animano, rendono viva. Ciò contribuirebbe anche al ripopolamento di Venezia.
Gli studenti andrebbero anche favoriti nella possibilità di reperire spazi di lavoro ed esercitazione come laboratori e studi di progettazione (per gli iscritti ad Architettura), atelier di disegno e pittura (per gli allievi dell’Accademia), spazi per eventi, spettacoli teatrali o di performing art per tutti quelli che si cimentano con corsi specifici nel settore. Sarebbe poi finalmente il caso che le istituzioni culturali principali della città – da quelle private come la Guggenheim o le tante gallerie come la Bevilacqua la Masa o la Fondazione Cini, a quelle pubbliche, a cominciare dalla Biennale passando per il Teatro La Fenice per finire con i tanti e diversi musei – si decidessero a interconnettersi di più con quelle facoltà che hanno come principale scopo la progettazione architettonica, urbanistica e le arti visive o la performance spettacolare al fine di favorire sperimentazione sul campo: come scambi culturali e anche di lavoro e stage nella stagionalità delle loro attività.
Penso alla Mostra Internazionale di Cinema, alle Biennali di Architettura e Teatro. Discorso tanto più favorevole e possibile da sostenere visto che oggi al vertice di Ca’ Giustinian c’è un presidente attento, colto e sensibile a queste sollecitazioni e prospettive come lo è Roberto Cicutto, che viene dal vertice, presidente e AD dell’Istituto Luce Cinecittà, fucina di creatività, di ricerca e di talenti.

I luoghi della cultura viva, dell’immaginazione e della progettualità, infatti, non sono i musei, ma le scuole, le università e le attività produttive locali. Venezia vanta un sistema universitario eccellente, che traghetta una moltitudine di ragazzi e ragazze che per alcuni anni fanno esperienza dell’isola imparando a conoscerla in maniera profonda perché prolungata. Nelle scuole si sviluppano riflessioni e progetti, punti di vista sul e per il territorio che sono carburante di un motore affettivo ed effettivo, che spesso incentiva alla permanenza in loco anche dopo il normale percorso di studi.
Serve però che questo processo venga favorito e maggiormente incoraggiato e incentivato. Così come andrebbero sostenute sul piano culturale le esperienze pilota o d’avanguardia di Biennale Urbana con il Venice Open Stage – Rising Theatre Festival, attualmente a rischio, così come quella dei collettivi della Caserma Pepe o dell’ex Ospedale al Mare al Lido di Venezia, oppure di S.a.L.E. docks – Magazzini del sale o, ancora, di V.e.r.v. per la musica, per altro sostenuti principalmente dal conservatorio Benedetto Marcello, passando poi per il Collettivo Barena Bianca o il gruppo di MetaForte, per citare le principali e più significative, fino a quelle di altre iniziative sempre emergenti.
Dunque Venezia deve tornare accessibile, ammettendo le sue debolezze strutturali, la sua scomodità che coincide con la sua umanità. Non c’è nulla di allettante in un meccanismo di sfruttamento disumano e disumanizzante come quello che l’ha resa ricca finora. Non c’è quindi da stupirsi che oggi la città sia vuota.
Mettere al centro di questa rinascita di Venezia, alla ricerca di una nuova e ritrovata identità al di fuori dalla monocultura turistica, proprio gli studenti sarebbe un buon inizio di rigenerazione per ridare anche nuova vita alla città d’acqua, affidandole – quale simbolo di bellezza planetario e universalmente riconosciuto – anche un ruolo di capofila e di traino nazionale della riscossa delle nostre città per affrancarsi dal turismo di massa divenuto ormai una indigesta melassa. Prima la paura dell’acqua, poi del virus, fatto sta che da sei mesi Venezia è paralizzata. Chiusi musei, chiese, teatri, alberghi, ristoranti e negozi. I turisti sono azzerati ed è certo che non torneranno da un giorno all’altro. E soprattutto nelle proporzioni fin qui conosciute.

È necessario aprire i molti spazi comuni a iniziative volontarie (che non significa promuovere il volontariato), sostenere la produzione culturale e non la sua ricezione passiva, sostenere l’attività di studenti, urbanisti, artisti e pensatori con agevolazioni economiche e creare occasioni che favoriscano la loro permanenza in città.
È necessario contrastare il processo di gentrificazione che ha trasformato ogni zona popolare in zona abitativa di pregio, con il conseguente cambiamento della composizione sociale sulla base della crescita dei prezzi delle abitazioni e quindi del reddito. In un momento di forte crisi, l’abbassamento dei prezzi di mercato è l’unica garanzia per la sopravvivenza. È solo attraverso un’apparente svalutazione della città che le si può restituire un reale valore.
Venezia, per salvare se stessa, deve rilanciare un modello di vivibilità eccezionale. Ciò che potrebbe sembrare una svendita è in realtà l’unico antidoto alla vera svendita, vale a dire la commercializzazione dei beni storici a compratori stranieri per mantenere una facciata di orgoglio nazionale che di nazionale non ha più niente (cioè la politica attuale che si cela dietro il made in Italy). Un saggio molto interessante, a questo proposito, è quello scritto da Marco D’Eramo per Feltrinelli nel 2017, dal titolo Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, l’industria ritenuta più importante di questo nuovo secolo.
Giovanni Pelizzato, terza generazione di librai alla Toletta, nel mezzo di un servizio apparso su la Repubblica pochi giorni or sono e dedicato alla Venezia afflitta da Covid-19 , ha dichiarato:
La tragedia di Venezia oggi è questa. Negli altri luoghi del mondo la gente non esce, ma c’è. Qui invece non c’è più: se togli i turisti, rimangono le pietre. Il contagio rivela l’orrore di un modello fallito. In mano agli estranei la città scoppia, ma senza di loro è priva di energie proprie e non sa come rinascere.
Venezia, città-laboratorio lo è sempre stata, varrebbe la pena ripartire da qui. Mettendo al centro tutte le risorse disponibili, non ultimi gli studenti, per un grande progetto collettivo. Alto. Ambizioso. Altrimenti l’eterno conflitto tra interessi economici e storico-artistici renderà sempre più difficile poter rimediare al problema di fondo.
Non si tratta di preservare l’ideale nostalgico di un’originarietà idilliaca e incontaminata, ma di coltivare un presente lungimirante rinunciando a privilegi ricavati dallo sfruttamento intensivo. Venezia potrebbe davvero essere un modello e una guida per il mondo intero. Per una vera ripartenza culturale.
Copertina: Il mercato di Rialto [da twitter @riVEmo_evento]

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