Germania e Covid-19. Miti e realtà

SUSANNA BÖHME-KUBY
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La pesantissima crisi globale, resa visibile dal dilagare del coronavirus sta mettendo a nudo ovunque le preesistenti specificità economico-sociali e politiche delle singole realtà nazionali e locali. L’Unione europea, già traballante a causa delle gravi iniquità a lungo prodotte dalle sue istituzioni e regole (vedi Maastricht) potrebbe dimostrare ora – di fronte a perdite economiche senza precedenti – di essere capace di agire come un’unione solidale, o almeno conscia dei rischi che corre l’intera costruzione europea nel caso non si trovassero gli strumenti necessari per salvare le economie più compromesse. 

Sul tavolo delle trattative tra i ministri delle finanze dell’Ue ci sono varie e anche cospicue opzioni basate però tutte su diverse forme di crediti finanziari che genereranno nuovi indebitamenti nazionali, lasciati agli appetiti voraci del sistema finanziario internazionale che ne stabilirà i tassi d’interesse. 

Jens Weidmann, governatore della Banca centrale tedesca. Weidmann ha sempre contrastato la politica dell’ex presidente della Bce Mario Draghi.

Gli accordi di Maastricht che proibiscono alla Bce il finanziamento diretto dei singoli paesi europei (come per esempio l’Italia faceva fino al 1981, data del divorzio tra Banca d’Italia e ministero del tesoro) potrebbero anche essere rivisti e modificati. In teoria almeno, se si volesse anche gettare una base reale a una maggiore unificazione politica. Ma questa appare più lontana che mai. Anche la richiesta della Sinistra Europea al parlamento di Strasburgo di superare questo limite e far elargire dalla Bce il necessario – come fa per esempio la Fed, che fornisce direttamente al governo Trump i miliardi di dollari necessari – può apparire utopica. Eppure al momento sembra l’unica possibilità per garantire la sopravvivenza e anche una rinascita dell’Unione europea. 

La recente sentenza della Corte costituzionale tedesca mette in questione tutto ciò. Anzitutto il quantitative easing operato da Mario Draghi dal 2015 in poi, perché esso avrebbe danneggiato i risparmiatori tedeschi a causa dell’abbassamento dei tassi d’interesse fin sotto lo zero. Dietro a questa causa giudiziaria e alla propaganda anti-europea e in particolare anti-italiana stanno esponenti dell’estrema destra (Afd), della destra (Csu) e della Bundesbank, il cui presidente Jens Weidmann si è sempre opposto a Draghi.

È la prima volta che uno stato tenta di sovrapporre una legge nazionale a una sentenza della Corte di giustizia europea, che aveva autorizzato a suo tempo l’acquisto dei titoli nazionali da parte della Bce, “whatever it takes”, e ciò costituisce una vera e propria “miccia accesa e cortissima” (Alfonso Gianni), che mina le future trattative europee anziché unire le forze e gli sforzi per una ricostruzione post-virus. 

Angela Merkel vista da LUIS GRAÑENA (CTXT)

È dunque la Germania alla guida economica dell’Ue che si ostina a non voler perdere i propri vantaggi e teme ogni mutualizzazione del rischio passato, ovvero dei debiti europei che si sono accumulati anche a causa dell’irrefrenabile carica delle esportazioni tedesche nei decenni passati verso i paesi sud-europei. Ma teme anche per il futuro. Neanche durante il lockdown della fase uno la Germania ha chiuso tutte le parti rilevanti della propria industria, per non perdere quel suo vantato primato di Export-Weltmeister, campione mondiale dell’export. Ed è uscita meglio di altri anche dalla crisi sanitaria del coronavirus. Perché? 

Un confronto con la pesante situazione italiana induce a sottolineare le maggiori possibilità del sistema sanitario tedesco, le cui risorse ammontano a ben oltre il doppio degli investimenti italiani nel settore (a 375 miliardi di euro rispetto a 149 miliardi di euro nel 2016, dato Istat). La disponibilità iniziale dei 28.000 posti letto in terapia intensiva è stata portata nel frattempo a ben 40.000 posti – e così si poteva infine anche accogliere qualche paziente dalle sovraccariche cliniche bergamasche.

E questo nonostante i pesanti tagli avvenuti anche in Germania nel corso di una privatizzazione molto più spinta che in Italia, che ha generato una notevole corruzione ed è soggetta a molte critiche, essendo basata anche su un gran numero di mutue pubbliche e private. Ma quel sistema di bismarckiana memoria si è rivelato – nel contesto europeo – efficiente: “Ist das nötige Geld vorhanden, ist das Ende meistens gut”, “Se sono disponibili i soldi necessari, finisce quasi sempre bene” recita il coro finale dell’Opera da tre soldi di Brecht (nella versione dell’omonimo film del 1930).

Alcuni giorni fa è uscito su ytali un commento alla situazione tedesca di Piergiorgio Pescali che formula una suggestiva ipotesi circa un’impronta “socialista” nello stile politico nella Germania unita di Angela Merkel, derivante dalla sua formazione nella Repubblica Democratica Tedesca. In un senso generale, in cui ogni passato lascia delle tracce nel futuro anche individuale, questo può anche darsi, ma non assocerei alla Cancelliera “il sistema di fare politica imparato nella Rdt” e escluderei anche l’attributo “socialista” per la sua azione politica concreta.

Dal 1990 questa è strettamente legata a quella democristiana di Helmut Kohl e alle caratteristiche marcatamente anti-socialiste della politica tedesco-occidentale – non solo dalla cosiddetta Riunificazione in poi.

Lo stile sobrio e razionale di Angela Merkel, il suo pragmatismo e la proverbiale capacità di adattare le proprie opinioni rapidamente al mutare delle situazioni denotano piuttosto una solida mentalità da scienziata e senza dubbio questa ha avuto effetti utili anche nell’attuale momento.

Nella Germania federale, dove i singoli Länder gestiscono questa crisi e il lockdown con modi differenziati ma con mezzi ingenti (immediati tracciamenti delle infezioni e milioni di test virologici) e con notevoli minori decessi che altrove, la Merkel li coordina – e non senza problemi – ma ha meno peso nelle singole decisioni rispetto al capo del governo in Italia. 

C’è comunque in Germania nonostante le differenze federali ancora uno stato abbastanza solido – con un lungo passato autoritario e una sempre efficiente amministrazione – percepito dai cittadini ancora come padre protettivo (Vater Staat). E il sistema dei partiti tradizionali non ha subito un tracollo come in Italia negli anni Novanta con conseguente indebolimento delle strutture democratiche.

L’oculata gestione della crisi ha rinsaldato in Germania ancora la coalizione al governo, prima traballante a causa di una recessione all’orizzonte, rafforzando ancora l’eterna Cdu/Csu (al momento al 39 per cento) rispetto alla Spd (sedici per cento). 

La città di Dresda vista dal Rathaus, dopo il bombardamento alleato nel febbraio del 1945.

I democristiani/cristiano sociali hanno guidato con mano salda i tedeschi occidentali a partire dall’inizio della Guerra fredda (1947) dapprima nella Repubblica Federale (1949) e poi nella Germania unita (1990) – una storia di grande successo secondo l’opinione della maggioranza della popolazione. Che poteva svilupparsi sulla base di una rapidissima messa in funzione dell’industria pesante occidentale, uscita quasi intatta dai bombardamenti degli alleati occidentali che avevano devastato una gran parte delle città tedesche (131) e delle infrastrutture negli ultimi anni della guerra. Ma la produttività della grande industria era ancora alla fine del 1944 addirittura più alta rispetto al 1939. E non ci fu nessuna “ora zero”.

La Germania non era dunque affatto – come afferma Pescali – “il paese più povero dell’Europa”, anzi essa aveva già dall’inizio del Novecento l’apparato produttivo nell’industria pesante più moderno nel contesto europeo, che anche dopo la seconda guerra poteva riprendere a pieno ritmo, fatte le necessarie riparazioni. E questo lo sapevano bene gli americani. Con i finanziamenti del Piano Marshall e grazie alla forza lavoro di circa dieci milioni di profughi affluiti dagli ex-territori orientali del Reich, oltre alla riforma monetaria nel 1948 che espropriò i tedeschi del contante e alleggerì i costi della guerra, si preparava nella nuova Repubblica federale quel cosiddetto miracolo economico, che tale non era. 

Mi sembra doveroso ricordare brevemente tutto ciò alla vigilia dell’8 maggio 2020, settantacinquesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo, che però fino al 1985 non è mai stato ricordato come tale nella Repubblica Federale, dove la maggioranza dei tedeschi ha vissuto quel momento come capitolazione e sconfitta. Verrà solo per quest’anno istituito come giorno di festa a Berlino, con una breve commemorazione al Parlamento, in cui si ricorderà la fine della guerra e anche la Befreiung (Liberazione) un tempo festeggiata solo nella Repubblica Democratica e che è, come giorno di festa, sparito con essa.

E il giorno dopo, il 9 maggio, in cui la Russia festeggia la sua vittoria dopo aver sacrificato circa ventisette milioni di soldati e cittadini sovietici, è stata proclamata dall’Unione europea nientemeno che Festa dell’Europa.

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Germania e Covid-19. Miti e realtà ultima modifica: 2020-05-07T17:59:52+02:00 da SUSANNA BÖHME-KUBY
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