La musica non è solo composizione. Non è artigianato, non è un mestiere. La musica è pensiero.
Se si parte da qui, ci si rende conto che parlare oggi di Luigi Nono significa immediatamente interrogarsi sul posto che ha nel paesaggio culturale attuale questo oggetto quasi innominabile che si chiama pensiero musicale. Già quando Nono taceva, nel 1990, le cose stavano cambiando. L’epoca della sua scomparsa è quella in cui gradualmente si stava chiudendo una stagione storica nella quale le cosiddette avanguardie non erano ancora un comparto tra gli altri nel sistema delle produzioni simboliche: alla ricerca artistica si poteva ancora annettere un ruolo propulsivo nel quadro di un generale progresso socioculturale.
Era l’epoca in cui il discorso sulla musica, sulla musica nuova, non era polarizzato tra l’accademia e il blog, tra la musicologia specialistica e il collezionismo di vinili di nicchia. Si scrivevano cronache informate e articolate sulla stampa mainstream, e quando, come nel 1984, Nono compì Prometeo, i paginoni centrali dei quotidiani erano occupati da anticipazioni e interviste. Tempi lontanissimi. Ma era naturale: Prometeo nasceva in un’“arca” di legno progettata da Renzo Piano dentro un luogo unico come l’ex chiesa di San Lorenzo; il “libretto” era stato scritto da Massimo Cacciari; dirigeva Claudio Abbado; ed Emilio Vedova era il “maestro alle luci”. Dietro, una produzione congiunta di due enti come la Biennale di Venezia e Teatro alla Scala. Un evento. Eppure, immaginata com’era al di fuori di ogni genere convenzionale, quell’esperienza era davvero visionaria, perché cercava di fare a meno della visione. Era grandiosa tanto più quanto radicale era la sua carica anti-spettacolare.
Questo non soltanto per dare appena un’idea di che cosa sia stato Prometeo, ma anche del tempo in cui una tale concezione della musica era possibile, materialmente realizzabile e andasse incontro a un pubblico curioso, che poteva almeno seguire, se non condividere, una ricerca tesa, originale, utopica come quella di Nono. Un tempo in cui il prestigio sociale del compositore era un dato di fatto indiscutibile, come lo era stato un secolo prima, con Verdi, o Brahms. Da questo punto di vista il tempo presente è diverso, più avaro, in un senso molto materiale.

Quando si dice ricerca e pensiero, parlando di Nono, si deve anche dire del continuo, incessante lavoro di rimessa in discussione del suo lavoro. Per questo si distingueva dai musicisti della sua generazione che ne avevano condiviso le prime avventure, e che poi avevano in seguito consolidato la loro posizione nella vita musicale in una posizione di “avanguardia” più o meno istituzionalizzata. La sua autocritica era più intensa, più rischiosa: “ansia per lo sconosciuto”, come si era espresso proiettando se stesso su Béla Bartók. Gli piaceva parlare della sua vicenda artistica e umana come un seguito di “rotture” e di “svolte”.
Tra le tante interviste – in cui mai teneva a fornire di sé un’immagine coerente o compatta – ce n’è una particolarmente rivelatrice, che rilasciò nel 1987, dove l’interlocutore gli chiede degli ultimi sviluppi della sua musica, da un punto di vista tecnico, suggerendogli che un certo impiego dell’elaborazione elettronica del suono abbia rappresentato appunto una svolta; Nono reagisce così:
Spero di averne compiute tante, in quanto trasformazioni, in vario modo: istintuale, vitale, razionale. Credo che chiunque venga dagli anni della guerra fredda abbia avuto svolte, non può non averne avute.
Era da circa una decina d’anni che dalla musica di Nono sembravano eclissati i motivi espliciti della lotta, i temi poetici cari alla cultura del movimento operaio che ne avevano fatto un artista per definizione “controverso”; eppure il fondamento poetico ed esistenziale di una scelta tecnica, operativa era sempre, per lui, radicato in una storia, personale e collettiva, che in quel momento sentiva essere alle sue spalle, ma che ancora lo motivava.
La figura di Nono, ancora oggi, in molte storie della musica rimane cristallizzata nello stereotipo dell’“artista impegnato”. Ma se si va a verificare la realtà, e le conseguenze, dell’atteggiamento politico di Nono, si trova un modello di pratica che non è mai stata veramente compresa e che quasi sempre sfuggiva alle categorie della critica, anche di quella più benevola o solidale.

Sì, Nono è stato per molti anni il compositore comunista per eccellenza. Ma quante difficoltà, incomprensioni, ostracismi, nel fuoco – nemico e anche amico – di quella guerra fredda in cui si era formato. Già negli anni Cinquanta sosteneva che l’impegno tecnico verso soluzioni musicali inaudite doveva essere necessariamente legato a un modello di intervento politico. Il suo orizzonte è all’epoca, e lo sarà per molti anni a venire, quello della fondazione di un’arte formalmente sperimentale e politicamente rivoluzionaria, sul modello del teatro di Erwin Piscator o della poesia di Majakovskij: l’esatto opposto del formalismo di stampo conservatore tipico del realismo socialista, nei confronti del quale Nono avrà modo di scontrarsi all’interno del suo partito; che in questa prima fase non lo favorirà affatto, fin quasi a ignorarlo.
In Germania, d’altronde, dove aveva esordito nel 1950, a ventisei anni, e si era affermato subito come una delle voci nuove più forti e originali della nuova musica europea, la critica radicale lo sospettava proprio di eccessiva vicinanza al realismo sociale soltanto perché nel 1956, con il Canto Sospeso, aveva intonato le lettere dei condannati a morte della Resistenza. E dove aveva applicato un principio tecnico che traduceva in suono e orchestrava la struttura del testo in modo assolutamente nuovo. Nono inventava un’espressione al tempo stesso dolente e luminosa, antitetica a trionfalismi e pathos consolatorio. Per non dire di quando, qualche anno dopo, il suo lavoro di continua esplorazione delle risorse della voce si svolgerà nello studio elettroacustico – il mai troppo celebrato Studio di Fonologia della RAI di Milano, fondato nel 1955 da Luciano Berio e Bruno Maderna.
Allo Studio tutta la rigorosa disciplina della scrittura e la catena produttiva compositore-partitura-interprete si scioglierà in un laboratorio creativo di nuovo genere, in cui progetto, performance, manipolazione diretta del suono diventano un processo unico. È il momento della Fabbrica Illuminata (1964), dove il fragore degli altiforni fornisce materiale sonoro a un’”orchestra” elettroacustica che però non ha nulla di naturalistico; ed è la prima prova di quella «tragedia dell’ascolto» che Nono concettualizzerà vent’anni dopo. È anche il momento, poco dopo, di A floresta è jovem e cheia de vida (1966), come un altro Canto sospeso dieci anni dopo: sono ancora voci di combattenti e di vittime, celebrate però non più a partire da una storia vicina e passata, che ha fondato l’ordine presente, ma piuttosto voci di resistenza attuale e di guerriglia che reclamano un ordine nuovo. Nono qui ha già abbandonato, rifiutato l’”avanguardia”, e si trova in un rapporto conflittuale con il pubblico borghese, i festival, l’editoria musicale che pure lo ricercano.

Ma viene poi un momento, alla fine degli anni Settanta, in cui Nono probabilmente sente che la spinta rivoluzionaria caratteristica del suo fare musica non è in fase con una tendenza della sua parte politica a istituzionalizzarsi, e produce uno scarto. C’è allora, soprattutto, un ripensamento circa il ruolo sociale del suo lavoro di artista. C’è l’incontro con Cacciari, la condivisione della necessità di rimettere in discussione il quadro dei riferimenti culturali ereditati dalla tradizione del movimento operaio. Nono si trova così pronto a raccogliere, nel mentre si va elaborando, gli esiti di un’indagine filosofica sul farsi della modernità.
L’utopia rimane, ma fugge in avanti, la critica si approfondisce. Il pensiero è ancora più ricettivo nei confronti di nuove, molteplici possibilità tecniche, come quella di trasformare il suono in tempo reale – che trent’anni fa era una entusiasmante novità – di farlo dialogare con lo spazio che lo accoglie e lo diffonde. Ogni volta, in ogni singola circostanza, “la ripetitività di un’esecuzione, la sicurezza dell’esito è saltata per aria”. Nono va incontro a questa incertezza, ne ha necessità; in una fase che la critica di solito identifica come ‘tarda maturità’, si sta ancora chiedendo come rendere udibili i suoi pensieri. Ormai la coscienza del suo operare è talmente sviluppata e acuta che per un problema compositivo si presentano infinite soluzioni possibili.
Non riesco più a scrivere una partitura. Non per caso Prometeo è alla quarta versione. Non riesco a fissare il materiale definitivamente. Forse non si può più definire. Possiamo solo proporre, suggerire, tentare, discutere.
Resterebbe da dire, naturalmente, un’infinità di cose, dell’uomo e dell’artista, anche delle iniziative pratiche, della generosità, della facoltà di accendere violentissime polemiche senza mai intaccare il piano personale, della capacità di incoraggiare i giovani… Ma non lo si direbbe per costruire un’agiografia, quanto mai impropria: piuttosto, per accennare a ricostruire quel mondo, quella vasta rete di relazioni in cui Nono si era trovato a vivere e operare e che continuamente lui ritesseva cercando di espanderla in quella che potrebbe essere un’ideale “scuola”: appunto, non di composizione, di artigianato, ma di pensiero.

FONDAZIONE ARCHIVIO LUIGI NONO
L’Archivio Luigi Nono è stato fondato nel 1993, su iniziativa di Nuria Schoenberg Nono allo scopo di raccogliere, conservare e promuovere il prezioso lascito del compositore. Tale lascito consiste di: manoscritti (23.000 fogli di schizzi, abbozzi e studi preparatori per le sue composizioni musicali e 12.000 di appunti e di scritti di natura musicale, teorica e politica); lettere (6.400 con esponenti di spicco della storia, dell’arte, della politica e della cultura italiana e internazionale); nastri (230 bobine, fra materiali preparatori delle opere elettroniche, registrazioni delle prime assolute delle sue composizioni e di alcune interviste); libri e partiture (12.400 volumi, molti dei quali glossati, rari, antichi, unici); vinili (1.370, con registrazioni di musica popolare di ogni provenienza geografica, di discorsi e di canti politici nazionali e internazionali); fotografie (6.500 ); programmi di sala (300), manifesti (170), recensioni e saggi critici (4000) sulle esecuzioni delle opere di Luigi Nono.
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