Si diceva un tempo che “se in ogni casa russa c’è un pianoforte, nella cartella di ogni studente russo puoi trovare un libro di poesie”. La poesia è in effetti uno degli elementi più caratterizzanti dell’anima e dell’identità di quel popolo e oggi, nel sessantesimo anniversario della morte di Boris Pasternak, è forse necessario ricordare come l’autore del celebrato romanzo Il dottor Zhivago sia stato anche, e soprattutto, una delle voci più importanti della poesia russa del secolo scorso. Come ricordava infatti, nel 1959, il grande slavista Angelo Maria Ripellino “Il fragoroso successo del Dottor Zhivago ha relegato nell’ombra l’opera di Borìs Pasternàk”. Nella sua Antologia poetica di Borìs Pasternàk (Einaudi, 1959), Ripellino aggiungeva:
Ci è accaduto persino di leggere, negli sproloqui di recensori saccenti, che le liriche pasternakiane siano da considerarsi esercitazioni giovanili di poco momento. Eppure [proseguiva lo studioso] non è difficile accorgersi che egli trasfuse nell’ampiezza epica del Dottor Zhivago le invenzioni, i motivi, le esperienze che avevano ispirato i suoi versi.

Nato nel 1890, Pasternàk ripropose all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre una poesia intimista, radicata nelle atmosfere del post-romanticismo tedesco senza mai lasciare spazio alle lusinghe progressiste del pensiero positivista, prima, e (salvo una breve esperienza nel gruppo futurista Centrifuga) alle sirene della nuova poesia post-rivoluzionaria che ebbe nel quasi coetaneo Vladimir Majakovskij il suo maggiore interprete. Ma a ben guardare, in un certo senso fu proprio Majakovskij l’eccezione. Altri grandi poeti della sua generazione, lo sfortunato Serghieij Esénin, Anna Achmatova e Marina Cvetaieva oltre ad Osip Mandel’stam, seguirono percorsi che mai si avvicinarono al “manifesto dei suprematisti”, il movimento artistico analogo per alcuni versi a quello dei futuristi italiani e che fu redatto dal pittore Kazimir Malevic e dallo stesso Majakovskij.
Primavera, io vengo dalla via dove il pioppo è stupito,
dove la lontananza sbigottisce, dove la casa teme di crollare,
dove l’aria è azzurra come il fagottino della biancheria
di colui che è dimesso dall’ospedale!
(Traduzione di Angelo Maria Ripellino in “Poesia russa del 900”, Feltrinelli)
La prima quartina della poesia Primavera (1918) tradisce la giovane età del poeta, allora ventottenne, ma si pone come un’anticipazione del quadro poetico che l’autore svilupperà nei decenni successivi. Intimismo e solitudine in un percorso “di ritrosia e modestia, alieno da ogni esibizione teatrale”, come notava Ripellino.
Forse perché ebreo, forse perché poeta (e quindi un “parassita” secondo alcuni funzionari di partito) ma soprattutto per la sua narrazione della Rivoluzione del 1917 nelle pagine del Dottor Zhivago, assolutamente in contrasto con l’ortodossia comunista sovietica, Pasternak ebbe molti fastidi e dovette rinunciare, nel 1958, a recarsi a Stoccolma per l’assegnazione del premio Nobel che gli era stato conferito (e che fu ritirato trent’anni dopo dal figlio). Pena l’esilio perpetuo.

La poesia di Pasternàk, come quella di Marina Cvetaieva alla quale fu legato da uno struggente amore, vibra di un sommesso, segreto dolore e di un’aristocratica declinazione di privati sentimenti, sfumature di un’anima poetica destinate purtroppo a perdere una buona parte della loro musicalità anche nella migliore delle traduzioni.
Amare gli altri è una pesante croce,
ma tu sei bella senza obliquità,
e il segreto della tua vaghezza
è pari all’enigma della vita.
(dalla poesia “Amare gli altri è una pesante croce”, traduzione di Bruno Carnevali in “Poeti russi nella rivoluzione”, Newton Compton)
Pasternak non urla come Majakovskij, non declama strofe irruente e tumultuose, ma cesella una poesia da camera che si nutre di memorie sottili dell’infanzia e ammorza i rumori della realtà – in un sommesso fruscio, in una sorta di colloquio familiare.
Così, con la delicata sensibilità dello studioso, Angelo Maria Ripellino descriveva i magici versi di Pasternàk (Poesia russa del ’900).
Non agitarti, non piangere, non estenuare
le forze esauste, non tormentare il cuore
sei viva, sei in me, nel mio petto,
come sostegno, come amica e come caso…
(Traduzione di Bruno Carnevali)
E ancora:
Finestra, leggìo e come di eco i burroni,
di musica son pieni i tappeti. Qui poté con successo
fiorire nell’esecuzione l’idea dell’autore
(da “Finestra, leggìo”, traduzione di Angelo Maria Ripellino).
Come ebbe a scrivere l’altro poeta Osip Mandel’stam (citato da Fausto Malcovati, già docente di letteratura russa all’ Università di Milano), “Leggere i versi di Pasternàk è come purificare la gola, rafforzare il respiro, rinnovare i polmoni”.
Molti dei protagonisti della poesia russa del secolo scorso morirono tragicamente: Esenin, Majakovskij e Marina Cvetaeva, suicidi. Osip Mandel’stam in un Gulag staliniano, altri dopo persecuzioni ed esili. Restano i loro versi, testimonianza di quella fenomenale stagione di poesia.


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