Una via d’uscita dalla crisi climatica. Parla Kimon Keramidas

Limitare l'aumento della temperatura globale e i danni che ne derivano è la grande sfida dei prossimi anni. Cambiare il nostro sistema energetico è una necessità, e si può fare, a un costo relativamente basso. Come? Puntando sull'energia elettrica.
MARCO MILINI
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In questi giorni si parla molto di cambiare. La pandemia di Covid-19 ci ha imposto di fermarci e ci ha messi di fronte alla fragilità della nostra condizione su questo pianeta. Si dice che questa crisi sanitaria, a cui seguirà una crisi economica di cui già si vedono i primi sintomi, deve essere considerata anche come un’opportunità: per ripensare il nostro modo di vivere, il modo in cui affrontiamo i problemi che abbiamo di fronte.

Il più grande problema di oggi è la pandemia, e ha oscurato il grande problema che l’anno scorso – ma sembrano secoli fa – aveva giustamente guadagnato l’attenzione mondiale, cioè la crisi climatica. La pandemia ci ha spaventati come singoli, ma la stiamo affrontando come società, con strumenti e misure che hanno richiesto la mobilitazione di grandi risorse, individuali, sociali, e ovviamente politiche ed economiche. Con questo stesso atteggiamento dovremmo affrontare, per risolverla, la crisi climatica.

Quando si parla di ripensare il nostro modo di vivere significa ripensare il nostro modello economico, l’uso che facciamo delle risorse, che sono limitate, e l’impatto che tutte le attività umane hanno sul pianeta, e di conseguenza su di noi. Tra le cose da fare, di sicuro una delle priorità è cambiare il modo in cui produciamo l’energia necessaria a fare andare avanti, sostanzialmente, il nostro mondo.

Ed ecco la buona notizia: possiamo cambiare il nostro sistema energetico per renderlo sostenibile. Possiamo abbandonare la nostra dipendenza dalle fonti fossili, principali responsabili della quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, a sua volta causa principale dell’aumento della temperatura sul pianeta. Abbiamo gli strumenti per farlo, e possiamo avere una strategia, fattibile e relativamente economica.

È quello che dice l’ultima edizione del Global Energy and Climate Outlook (GECO) prodotto dal JRC, il Joint Research Center (Centro Comune di Ricerca) dell’Unione europea. Direttamente finanziato dalla Commissione europea – per assicurare indipendenza dai privati e dalle politiche dei singoli stati nazionali – il JRC fornisce sostegno scientifico e tecnico alla progettazione, allo sviluppo, all’attuazione e al controllo delle politiche dell’Unione. In uno dei sette centri di ricerca che ci sono in Europa, precisamente quello di Siviglia, lavora Kimon Keramidas: ricercatore, ha lavorato insieme alla sua unità alla stesura del rapporto GECO 2019.

Cos’è questo GECO 2019?
È l’ultima versione di un rapporto che pubblichiamo regolarmente da alcuni anni, ed è essenzialmente il lavoro che facciamo per DG Clima (la Direzione Generale Azione per il clima) a Bruxelles, che si occupa di tutte le questioni di politica climatica e delle relazioni internazionali che riguardano il clima. È principalmente la nostra unità qui a Siviglia che ci lavora, ma ci sono anche alcuni colleghi a Ispra (in provincia di Varese, un’altra delle sedi del JRC, ndr), e non solo.

Cosa fate? Per capire qual è il lavoro che sta dietro a questo rapporto.
Usiamo dei modelli per fare proiezioni del sistema energetico e delle emissioni di gas serra. Facciamo diverse proiezioni a lungo termine: al 2030, al 2050, persino al 2100 a volte. Proviamo a creare diversi scenari, per esempio che differiscono tra loro per il tipo di politica energetica e climatica che viene presa in considerazione: creiamo uno scenario con le politiche attuali, uno con le politiche annunciate, oppure con politiche più forti di quelle attuali, che ci portano in un mondo in cui le emissioni si riducono e si limita il cambiamento climatico.

Ogni anno aggiorniamo i nostri dati, vediamo quanta energia abbiamo consumato, che tipo di energia e in quali settori, quali sono state le emissioni. Quindi aggiorniamo le proiezioni, con le politiche attuali e ciò che è necessario fare per limitare i cambiamenti climatici. Poi, facciamo una valutazione, osservando le diverse traiettorie. Se prendiamo come punto di riferimento l’anno 2030, ad esempio, confrontiamo dove ci portano le politiche attuali, e dove invece dovremmo più o meno essere per limitare il cambiamento climatico a 2 o 1,5 gradi di aumento della temperatura globale: valutiamo quindi la dimensione di questo divario nell’evoluzione delle emissioni, e dunque dell’azione aggiuntiva che deve essere presa. Valutiamo se siamo in una fase in cui le proiezioni delle emissioni continuano a crescere, o se è una fase in cui si stabilizzano, o diminuiscono, se diminuiscono sufficientemente oppure no, ecc.
Il nostro lavoro principale è mantenere aggiornati i modelli e fare proiezioni per informare Bruxelles, e questo rapporto è un testo per accompagnarle.

E questo rapporto sembra dire che si può limitare la crescita della temperatura globale, e di conseguenza il cambiamento climatico. Lo si può fare seguendo una certa strategia, applicando determinate misure relativamente accessibili a tutti. Un punto centrale di questa strategia, mi pare di capire, è l’energia elettrica.
Sì, quest’anno ci siamo concentrati sull’elettricità. Ed essenzialmente sì, sono misure che possono essere applicate in quasi tutti i paesi, non solo in Europa: se segui questa strategia, è una strategia rilevante per tutti i paesi del mondo. Però ogni paese ha le sue specificità. Per esempio, un paese può avere risorse di energia rinnovabile di un tipo, come l’energia solare, che è il caso del Mediterraneo, mentre un altro paese forse ha più risorse di un altro tipo, ad esempio l’energia idraulica, come in Scandinavia. Tutti questi dettagli paese per paese proviamo a includerli nel modello, ma ciò che diciamo a livello globale sull’uso dell’elettricità è un messaggio valido più o meno per tutti.

E qual è questo messaggio?
Quello che stiamo dicendo, essenzialmente, è che oggi usiamo vari tipi di energia e un modo per prevenire i cambiamenti climatici è, da un lato, usare più elettricità invece di altre energie: ad esempio, per il riscaldamento domestico, invece di bruciare gas per riscaldare l’acqua che circola in casa si può usare l’elettricità, ad esempio con i condizionatori. Questo è un esempio per il riscaldamento domestico, ma in tutti i settori, dalla casa ai trasporti, dal commercio all’industria, possiamo trovare modi per sostituire altri tipi di energia con l’elettricità. Si potrebbero inoltre utilizzare tipi di energia prodotti con l’elettricità, come per esempio l’idrogeno, il cui uso non genera emissioni di gas serra. Questo, da un lato. Dall’altro, bisogna intervenire su come viene prodotta l’elettricità: oggi utilizziamo vari tipi di energia e l’obiettivo è quello di utilizzare più energie rinnovabili e tecnologie che non emettono gas serra.

Perché concentrarsi proprio sull’elettricità?
Di tutti i modi per ridurre le emissioni in generale, la decarbonizzazione del sistema elettrico, del modo di produzione di elettricità, è più economica della decarbonizzazione di altri settori. Se usiamo più elettricità e decarbonizziamo la sua produzione, è più economico che decarbonizzare tutta la nostra casa, diciamo, o l’intera industria, o i trasporti. L’elettricità è un mezzo, un vettore energetico la cui produzione può essere a basse emissioni di carbonio.

Mi sono imbattuto in questo rapporto quasi per caso. Quindi mi chiedevo: è fatto per un uso interno alla Commissione europea, oppure ha altri destinatari?
Come dicevo prima, DG Clima è presente in tutti i vertici internazionali, come le COP (Conferenza delle Parti dell’ONU), dove ci si confronta con altri ricercatori, diciamo gli equivalenti al JRC di altri paesi, e il rapporto è un modo per mostrare ciò che facciamo. Ovviamente è utile per DG Clima, ma è uno strumento di comunicazione di ciò che facciamo al resto del mondo. Ed è anche, forse, un modo per fare pressione su altri paesi perché agiscano. Se accettiamo che l’Unione europea è la regione che fa di più per limitare i cambiamenti climatici, questo rapporto, come gran parte del nostro lavoro, è un modo di agire con gli altri paesi e far crescere nel tempo il livello globale di ambizione per ridurre le emissioni.

E le persone in generale, diciamo i non esperti?
Il problema con questo tipo di rapporto e con i modelli che usiamo è che sono molto, come dire, aggregati. Nella vita di tutti i giorni usiamo oggetti, usiamo energia, compriamo benzina per la nostra auto ecc. e tutto questo è molto, molto specifico. Si possono dare consigli di comportamenti individuali con i modelli: pensare che mezzi di trasporto utilizziamo, investire nell’isolamento termico delle abitazioni, consumare meno carne ecc. Però i modelli si occupano principalmente di questioni di pianificazione energetica a livello statale, in grandi settori come industria, trasporti, edilizia… Sono cose interessanti per chi vuole fare una strategia energetica per un paese, o capire come influenzare le decisioni individuali con strumenti monetari o fiscali (tasse, finanziamenti, prestiti…), ma è difficile utilizzare questo rapporto per comunicare con qualcuno che chiede cosa posso fare io, nella mia vita quotidiana, per combattere i cambiamenti climatici.

Nel rapporto non si parla di quello che possono fare le persone nel quotidiano, giusto?
Il fatto è che ci sono alcune misure che possiamo prendere come individui, ma la scala del cambiamento necessario per rimanere sotto i due gradi, un grado e mezzo di crescita della temperatura, va oltre gli individui, è molto più ambiziosa di quanto le persone possano fare a livello individuale. Quindi c’è un ruolo molto chiaro per lo stato e le normative statali per ridurre le emissioni. Le singole iniziative non sono sufficienti.

Infatti a volte, come singoli, possiamo provare un senso di impotenza di fronte alla grandezza del cambiamento necessario. Questo rapporto mi sembra che offra, più che una speranza, una direzione per delle politiche efficaci e, soprattutto, realizzabili.
Naturalmente c’è il nostro modello, come ci sono altri modelli che provengono dal JRC o da altri centri di ricerca, dove si fa questo tipo di lavoro. L’obiettivo ad ogni modo è essere in grado di indicare a chi fa le politiche quali sono le priorità, cosa privilegiare, qual è l’opzione più economica per ridurre le emissioni e qual è l’opzione che darà il risultato migliore, o ha il maggior potenziale. Faccio un esempio: l’energia geotermica è un’ottima tecnologia a basse emissioni di carbonio, ma alla fine il suo potenziale è relativamente limitato se guardiamo alla quantità di energia che può fornire al sistema totale. Quindi non serve investire tanto nella ricerca geotermica quando si potrebbe ottenere un risultato migliore investendo su un’altra tecnologia. È quello che cerchiamo di fare: classificare, dare priorità tra le varie opzioni.

Indicando la via dell’energia elettrica, il rapporto dice che la decarbonizzazione necessaria a frenare i cambiamenti climatici è alla nostra portata. Di più: potrebbe essere fatta a un costo relativamente basso.
Di solito, quando si parla di limitare i cambiamenti climatici a due gradi o un grado e mezzo, si dice automaticamente di no, che questo distruggerà il nostro potere d’acquisto, che se agiamo noi mentre non agiscono gli altri paesi tutte le industrie se ne andranno ecc. Ovviamente c’è un costo per realizzare tutto questo, ma ciò che vediamo con questi studi è che il costo, confrontato con la ricchezza totale disponibile, e specialmente con il costo che supporrebbe il cambiamento climatico lasciato al suo corso, è in fin dei conti relativamente piccolo. Relativamente, certo. Nel rapporto si dice che nel 2050 costerebbe più o meno l’1 per cento del Pil, il che significa che se lo convertissimo in crescita annuale sarebbe come, invece di crescere del 3 per cento l’anno, crescere del 2,8. Che per un economista che guarda le cose nel dettaglio è un valore alto, ma se si allarga la visione e si pensa a quello che avremmo in cambio, cioè un sistema di energia pulita, quindi niente cambiamento climatico con tutto ciò che ne consegue, non è tanto.

Pensando alla pandemia di Covid-19, e alla crisi economica che stiamo per affrontare: si dice che può essere un’opportunità per ripensare il nostro modello di società e attuare delle politiche diverse, anche dal punto di vista economico ed energetico. Certo, c’è anche chi sostiene che non è questo il momento per fare politiche ambientali, che la priorità è produrre, come si è sempre fatto.
Mi viene da dire subito una cosa, e cioè che tutti i piani di aiuti economici lanciati ora per questa crisi del coronavirus hanno un volume maggiore di quanto calcoliamo sia necessario per l’intera transizione di cui si parla nel rapporto. Certo, noi facciamo proiezioni di anno in anno fino al 2050, mentre questi interventi sono stati puntuali, e forse non possono essere confrontati precisamente. Resta il fatto che ora, con l’emergenza del coronavirus, si parla di politiche, di azioni da parte degli stati tanto importanti, di tale portata che prima non si potevano neanche concepire.

Quindi non è qualcosa impossibile dal punto di vista dell’investimento economico. Lo dico perché di solito si dice che costa molto, che sono altre le priorità… Non è che sia impossibile, né tecnicamente, né economicamente: è una questione di priorità. E certo, appunto per questo, come dicevi, le cose potrebbe andare in una direzione come nell’altra. Però si sta già pianificando affinché, quando l’attività economica ricomincerà a crescere, gli investimenti siano più orientati verso tecnologie a basse emissioni di carbonio. È il famoso Green Deal dell’Unione europea che si sta discutendo ora, che punta su progetti a basse emissioni, efficienza energetica, economia circolare ecc. Alla fine è questione di criteri, investimenti, e poi regolamentazioni: ma se sommiamo tutte queste cose, alla fine avranno un effetto.

Quindi sei ottimista?
Beh, forse tutto ciò che dico è un po’ ottimista, ma a volte è anche giusto dire che è possibile, tecnicamente ed economicamente. Che è possibile, in generale. Perché spesso quello che si legge o si sente è anti-Ue, nel senso che passa il messaggio che ciò che l’Unione europea fa è solo per le “élite” di Bruxelles e non pensa invece ai cittadini, per esempio ai lavoratori del carbone che perderanno il lavoro con queste misure. Mentre invece ci sono studi e ricerche su quella che viene chiamata “transizione equa”, per investimenti nelle regioni in cui il carbone è molto importante, per cercare di riconvertire i posti di lavoro in energia pulita, ad esempio.

Oppure, l’altra critica che di solito viene fatta quando si parla di piani di transizione è che non sono abbastanza ambiziosi. Ma rispetto a ciò che si faceva prima, ciò che viene discusso ora è molto, molto più ambizioso. Sicuramente c’è ancora lavoro da fare, ma il Green Deal penso sia il primo piano di queste dimensioni con tanta accuratezza settoriale: stiamo guardando i trasporti, l’industria, il modo di consumare cibo, la biodiversità, le emissioni, la qualità dell’aria, la salute… È un piano che cerca di essere completo, ed è sicuramente molto più ambizioso rispetto alle iniziative di prima.

C’è stato un cambiamento, quindi?
Sì. Fino a poco tempo fa, qualsiasi decisione in merito all’azione per il clima si prendeva con un accordo tra le Direzioni Generali dell’Energia e dei Trasporti, ma ora con la nuova commissione c’è un vicepresidente responsabile di questo Green Deal europeo, di cui DG Clima è la parte più importante. C’è stata una riorganizzazione nelle gerarchie interne al funzionamento della Commissione europea che fa capire come si stia prendendo seriamente la cosa. Se porterà frutti o no, questo adesso non posso saperlo. Ma almeno ci si sta provando.


Copertina: Appolinary Kalashnikova su Unsplash

Una via d’uscita dalla crisi climatica. Parla Kimon Keramidas ultima modifica: 2020-05-09T02:10:40+02:00 da MARCO MILINI
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